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Margherita Giusti Hazon

Nelle sale “Solo per il weekend” con un quartetto di attori strepitosi

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È il primo lungometraggio di Gianfranco Gaioni, giovane regista bresciano conosciuto a livello internazionale come Director Kobayashi, “mago degli affetti speciali” che ha realizzato spot per grandi nomi come Yamaha, Diesel, Toyota e tanti altri e che nel 2007 ha fondato la sua casa di produzione. Solo per il weekend, interamente ambientato a Milano, è una folle avventura notturna in cui il protagonista Aldo (Alessandro Roja), un aspirante scrittore strafatto di psicofarmaci che ha appena perso il suo posto di lavoro in un’agenzia di pubblicità, insieme ad altri bizzarri personaggi – intepretati da Stefano Fresi, Francesca Inaudi e Matilde Gioli – ne combinerà di tutti i colori.

Gianfranco, partiamo dalla fine: la distribuzione. In oltre mezzo pianeta sei considerato il mago degli effetti speciali per gli incredibili spot che realizzi. Il tuo ultimo spot però mette in vendita una bellissima Mercedes GLA 200 che in realtà è proprio la tua macchina. Raccontaci come mai questa geniale idea del carfunding.

Se non hai la possibilità di entrare in un canale di distribuzione tradizionale, piuttosto che tenersi un film per sé e non permettere a nessuno di vederlo, è giusto pensarle tutte. La prima alternativa che mi era venuta in mente era quella di fare un’altra campagna di crowdfunding, ma in Italia non funziona ancora molto, a meno che non sia una questione veramente seria o non ci sia un testimonial d’eccezione. Così ho pensato di finanziare una parte della distribuzione mettendo in vendita la mia macchina.

Ma la tua famiglia come l’ha presa?

Malissimo. Useremo di più la biciletta. Per fortuna abbiamo un’altra macchina, vecchissima, era la nostra macchina di scorta.

Le dimostrazioni del successo di pubblico sono state evidenti. È stato presentato al Festival di Montreal, alla Festa del Cinema di Roma e lo scorso marzo anche qui a Milano durante la XIV edizione del Cinema Italiano Festival. Dal pubblico non si può certo dire che tu non abbia avuto riscontri positivi.

Da un certo tipo di pubblico, sì. Solo per il weekend non è un film che piace a tutti, non è un film drammatico e non è tipicamente italiano come contenuti. C’è una fascia di persone a cui però piace molto, non so se definirli nerd o malati di cinema… Ma lo sapevo, è un film che abbiamo fatto perché piacesse a me e Giacomo Berdini – che l’ha scritto insieme me. L’idea era proprio creare una cosa originale e vedere se avesse funzionato. Siamo sicuri di non essere gli unici a cui piacciono film di questo tipo, anche se non è un genere stravisto.

solo per il we2Il film è frutto di esperienze personali, ci sono dentro tante citazioni di film, ma lo definirei anche una denuncia, un prendere dalle distanze da un mondo frustrante, falso e pieno di lati oscuri.

Sì, è proprio questa la chiave di lettura. Non c’è una comicità grossolana e accattivante di primo impatto, ma nel sotto testo ci sono tanti riferimenti e simboli, come ad esempio tutto il discorso sugli psicofarmaci, sulle dipendenze in generale, sui problemi economici della gente normale.

Io credo che piaccia alle persone perché in qualche modo è la storia di un uomo che si prende la sua rivincita, rappresentata, senza fare spoiler, dalla “strage” che Aldo commette nel suo ormai ex ufficio.

Io credo che chiunque abbia lavorato in un settore creativo, di scrittura pubblicitaria o cinematografica, si sia trovato almeno una volta in quella classica situazione in cui ti dicono di continuare a fare cose che non ti piacciono, e tu continui fino a che a un certo punto o smetti o, come nel caso di Aldo, impazzisci.

Parliamo degli attori. Tutti senza dubbio eccezionali, da Alessandro Roja e Stefano Fresi fino a Francesca Inaudi, passando per la meravigliosa Matilde Gioli, scoperta da Virzì ne Il capitale umano, impossibile definire esordiente visto che in un anno ha girato un numero incredibile di film.

Quando l’ho conosciuta al provino, nel luglio del 2014, Matilde aveva fatto solo Il capitale umano. Lei viene dal mondo dello sport a livello professionale perché faceva nuoto sincronizzato e secondo me quello le ha dato una disciplina, un modo di lavorare e una maturità fondamentale anche nel fare questo lavoro. Poi è di una freschezza naturale, è un talento puro. È stato bello il modo in cui gli altri attori le davano sempre consigli, anche se in realtà non ne avesse molto bisogno. È molto sicura e decisa, e credo sia proprio la formazione sportiva ad averla resa così forte anche a livello psicologico. Invece con Fresi, Roja e la Inaudi c’era da morir dal ridere continuamente. Sono stati fortissimi tutti quanti.


Ho letto da qualche parte che per te il regista è come “l’allenatore di una squadra”. Sicuro di non essere un regista hitchcockiano? Lasci spazio all’improvvisazione sul set?

Con tutti quanti gli attori del cast principale ho iniziato a lavorare già ancora prima di finire la sceneggiatura e li ho coinvolti davvero tanto sui testi, modificando le battute in base a ciò che ci sembrava più naturale dire. Durante le riprese poi dopo il secondo take buono lasciavo loro la possibilità di improvvisare. Fresi ad esempio è in grado di farti un’improvvisazione diversa per ogni take, anche se ne fai 15. Ad un certo punto non sapevo più come gestirlo perché c’era troppa roba fantastica.

Aldo, invece, in qualche modo sembrerebbe essere il tuo alter ego. Un ragazzo che in qualche modo ce la fa. Che riesce a lasciare un ambiente di lavoro che non lo stimola, che lo limita, per avventurarsi in qualcosa d’inaspettato che lo porterà poi a scrivere il suo primo romanzo. Casi come questo sono l’eccezione o la regola? Consiglieresti a un aspirante regista di provarci in Italia o di emigrare?

Credo sia difficile dappertutto: io però punterei a creare un film che sia fruibile molto facilmente anche all’estero. All’estero la difficoltà resta la stessa, a partire dalla lingua fino ai contatti. Non risolvi il problema andandotene, però fa bene cambiare aria. Io sono stato quasi 3 anni a Londra e questo mi è servito tantissimo. Si ha un’idea più ampia di quello che vuol dire lavorare nel cinema, si ha la possibilità di vedere set stranieri, io ho lavorato tanto non solo in Europa e America ma anche nei paesi dell’Est, in India e in ogni luogo s’impara qualcosa. E questo aiuta tanto.

Il cinema italiano visto da Milano

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Si potrebbe pensare che la Cineteca di Milano giochi in casa, con un festival visto da Milano, su Milano e per Milano. Ma non è così, perché quello che arriva sui grandi schermi delle tre sale della Cineteca (Spazio Oberdan / MIC Museo Interattivo del Cinema /Area Metropolis 2.0), è un festival piccolo ma coraggioso. Coraggioso perché ha la missione di rendere visibili film che per svariati e assurdi motivi sono rimasti invisibili ai più, e riproporre alcune prove d’autore belle, originali e potenti valorizzate poco e male dalla distribuzione in sala milanese.

Il festival, giunto alla sua XIV edizione, si svolge dal 5 al 12 marzo, e racconta la Milano delle periferie, con i suoi non luoghi e i suoi personaggi bizzarri. Primi fra tutti, quelli di Solo per il weekend, primo lungometraggio del bresciano Gianfranco Gaioni aka Director Kobayashi, che vivranno un’avventura folle e degna di Las Vegas senza mai muoversi da Milano. Nel cast Alessandro Roja, Stefano Fresi, Matilde Gioli e Francesca Inaudi. Dalla Milano dei nuovi grattacieli si passa a quella hippie degli anni ’60 di Prima che la vita cambi noi di Felice Pesoli, che racconta la ribellione giovanile di chi voleva cambiare la vita prima che fosse lei a cambiare lui, fatta di una nuova cultura letteraria e musicale, e se ne parlerà in sala con il regista, il produttore Ranuccio Sodi e alcuni protagonisti del film fra cui Eugenio Finardi. Cupa e pericolosa la Milano di In guerra, secondo film del trentenne Davide Sibaldi, proposto nella sua versione eccezionale “In Human 4D”: il film, un viaggio della durata di una notte attraverso una Milano periferica e inedita, sarà proiettato con l’intera colonna sonora suonata dal vivo da Luigi Palombi (pianista che ha lavorato fra gli altri con Morricone e Piovani), con la voce narrante recitata dal vivo. La proiezione sarà inoltre preceduta da un prologo narrato dal vivo e da un’ouverture musicale a sala buia che introduce lo spettacolo, in questo modo lo spettatore sarà completamente immerso all’interno del film.Solo per il weekend 3

Le opere prime in concorso sono cinque, tutte anteprime per Milano, dirette da giovani registi e prodotte in modo per lo più indipendente. I protagonisti quest’anno sono i bambini, gli unici in grado di vedere l’invisibile, gli unici a possedere il dono della verità. Sono storie di formazione, quelle che si sfideranno sui grandi schermi milanesi: c’è il ragazzino de Il bambino di Vetro di Federico Cruciani che dovrà affrontare la verità su suo padre in un Bildungsroman mafioso ambientato a Napoli; ci sono i due microcriminali di All’improvviso Komir che in un road movie noir troveranno una sorta di redenzione grazie alla purezza di un bambino capitato nel baule della loro macchina; c’è Maurizio, bambinetto caparbio e solitario che sogna di diventare musicista in Asino vola di Marcello Fonte e Paolo Tripodi e ci sono Le fantasticherie di un passeggiatore solitario di Paolo Gaudio (ne abbiamo parlato sul numero 10 di Fabrique, pag 62).

La sezione Riprendimi invece propone alcuni dei migliori film della stagione appena passata, presentati in sala dagli artisti: Un posto sicuro di Francesco Ghiaccio e con Marco D’Amore, film che in punta di piedi ma con una potenza espressiva incredibile racconta la tragica vicenda dell’amianto a Casale Monferrato, un film fatto di silenzi, di gesti, di narrazione sobria; il debutto alla regia di Veronica Pivetti (presente in sala), il suo primo “figlio”, come lo definisce lei, Né Giulietta né Romeo, che parla di omosessualità, di crescita, di pregiudizi familiari e lo fa con un tocco delicato e mai scontato; unpostoDobbiamo parlare, l’ultima divertente commedia di Sergio Rubini, presentata in sala dall’attrice protagonista Isabella Ragonese; La felicità è un sistema complesso di Gianni Zanasi; Assolo, presente in sala la regista e attrice protagonista Laura Morante a cui è dedicato uno dei due omaggi cinematografici. L’altro a Ettore Scola, che la Cineteca ricorda con alcune delle più felici pagine del cinema italiano, Una giornata particolare, C’eravamo tanto amati e altri intramontabili, oltre che il meraviglioso ritratto biografico, artistico e umano realizzato dalle figlie Paola e Silvia, Ridendo e scherzando – Ritratto di un regista all’italiana.

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MFF, i film premiati visti dal nostro inviato

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“Tra il buio della sala e il cielo del Parco Sempione” il Milano Film Festival (10 – 20 settembre 2015) quest’anno compie vent’anni. Un festival che da sempre si è contraddistinto per la sua missione primaria, portare sul grande schermo milanese opere di giovanissimi autori, inedite e indipendenti che poi quasi sempre non trovano una distribuzione nel nostro paese, e farle conoscere, parlarne con gli autori, credendoci sempre fino alla fine, prima di tutto.

Questi vent’anni di esperienza, di consapevolezza e di grande passione hanno portato – forse per caso, forse per quelle famose forze dell’universo che muovono il cosmo – a poter riconoscere un tema-guida nelle 11 opere prime del concorso Lungometraggi. Come hanno sottolineato Alessandro Beretta e Vincenzo Rossini, i due direttori artistici, è infatti il concetto del Potere a tracciare il fil rouge delle 11 pellicole in concorso, nelle sue più diverse sfaccettature, da quello politico, a quello economico, fino a quello personale, individuale, che muove le persone, e determina le loro azioni. Ma più del potere forse c’è una cosa di cui in tutti i film si parla e che tutti gli 11 “protagonisti” possiedono, in un modo o nell’altro: la dignità.

A vincere il concorso Lungometraggi è Lamb di Yared Zeleke, primo film etiope a essere stato selezionato per il Festival di Cannes 2015: il protagonista è un ragazzino di 9 anni che vive in una zona dell’Etiopia povera e stremata dalla siccità, e che insieme al suo migliore amico, un agnellino di nome Chuni, compirà un viaggio di iniziazione alla ricerca della via di casa. Opera semiautobiografica, Lamb adotta il punto di vista di un bambino ma tratta temi complessi e profondi, è un film che fa riflettere, che s’interroga su come un bambino possa reagire a una perdita. Il film è un piccolo miracolo, perché rende la storia individuale di Eprahïm, e quindi quella del regista, che ha perso la sua casa e la sua famiglia a 10 anni, una storia universale, nonostante le differenze geografiche e sociali, e nonostante tratti di una realtà così lontana dal cielo stellato del Parco Sempione.

L’unica regista italiana in concorso è Maria Tarantina, giovane milanese emigrata in Belgio che firma un’opera corale sulla città in cui ha vissuto da straniera per vent’anni, Bruxelles, vincendo il Premio Aprile. Our City è un inno alla diversità, un documentario che vuole fare il punto della situazione su una città in continuo divenire, una città di stranieri, come la definisce lei, persone che fra burocrazia e precarietà sono alla ricerca di una casa. L’identità di una città, dopotutto, è il risultato di tante identità più piccole: c’è la ragazza africana che modella i suoi appariscenti gioielli sul gusto più modesto degli occidentali, ci sono due operai che cantano e ballano sulle vette dei grattacieli, c’è un giornalista con una missione molto importante da portare a termine, un padre che si commuove per la laurea di sua figlia, e così via, in un affresco vivido di piccole umanità disseminate per la città. Colpisce l’idea di Maria, secondo cui gli stranieri non si integrano in una città ma, al contrario, sono proprio loro a disintegrare l’identità di quella città per poi ricostruirla con gli infiniti tasselli dell’altrove di ognuno di noi. Questo messaggio è incarnato da un tassista iraniano che ci porta in giro per Bruxelles ma ci parla di Teheran. “Tutti siamo stranieri nel mondo”, dice, e questa è l’unica cosa da non scordarsi mai.

Completamente diverso nella trama e nel genere, ma simile nel messaggio, un altro dei lungometraggi in concorso, Prince, che si è guadagnato la menzione speciale (già ricevuta alla Berlinale 2015). Non c’è alcuna differenza a considerare diverso un proprio simile per il colore della pelle o per il modo in cui si veste, per il lavoro che fanno i suoi genitori, o per che tipo di sostanze assumono. Prince, ambientato nella periferia di Amsterdam, è la fiaba nera di un eroe dei nostri tempi, che al posto di cavalcare un cavallo bianco, sfreccia su una Lamborghini viola e al posto di due gote rosa ha un bell’occhio nero. Ma questa è la realtà, e a cosa serve il cinema se non a raccontarla? Il giovanissimo regista olandese Sam de Jong riesce a fare in modo che una produzione indipendente sia un vantaggio: con pochi movimenti di macchina e riprese pulite e rigorose mette in scena un piccolo microcosmo psichedelico e caotico e ci fa entrare in prima persona in un disagio adolescenziale in cui Ayoub cerca il suo posto. E lo trova, alla fine, sgomitando fra bulli più grandi di lui, personaggi bizzarri ma soprattutto una famiglia che proteggerà con una dedizione commovente.

Davvero interessante la sezione The Outsiders, divisa in tre filoni, quello del cinema, quello della musica e una parte che mette insieme i fuoriclasse italiani. Sul versante cinematografico, 4 i documentari: Fassbinder. To Love Without Demands, toccante ritratto del grande regista e attore tedesco, che comprende oltre due ore di materiale inedito; Sembene! dedicato al grande maestro del cinema africano, Ousmane Sembene; commovente la storia di Renée Falconetti, attrice in una sola ma memorabile interpretazione, quella di Giovanna D’Arco di Dreyer, uno dei film più influenti della storia del cinema. Ce la racconta Mirko Stopar in Nitrate Flames, un affresco di frammenti di vita rimessi in scena. Stopar, regista di fiction alle prese col suo primo documentario, procede in maniera originale, e per questo forse il risultato è così riuscito e toccante: compie infatti un lavoro di ricerca molto creativo, poiché il materiale d’archivio che riesce a recuperare è davvero pochissimo. Prima scrive la sceneggiatura, e poi adatta le scene al copione, senza la pretesa di raccontare una donna che non hai mai conosciuto, ma col solo intento di ridare voce a un’artista su cui nessuno aveva mai fatto un film prima. Orson Welles – Autopsie d’un légende, di Elisabeth Kapnist, è un viaggio che ci conduce nel labirinto dell’immaginazione dell’uomo che più di tutti ha reinventato il linguaggio cinematografico. La regista, attraverso materiale d’archivio – molto del quale inedito – e interventi di colleghi ed esperti che hanno avuto occasione di lavorare con Welles (Jeanne Moreau, Charlton Eston, Roman Polanski, Joseph McBride e Francis Ford Coppola), ripercorre fedelmente tutte le tappe più importanti della sua folgorante carriera, a partire dal celebre e folle annuncio via radio su un’invasione aliena che scatenò il panico tra gli ascoltatori, che lo rese una leggenda cinematografica.

L’evento sicuramente più atteso del festival è stato l’anteprima nazionale di Life (nelle sale dal 30 settembre), che racconta l’incrocio delle vite di James Dean e di Dennis Stock, fotografo della Magnum che realizzò il celebre servizio su Life che consacrò il mito James Dean grazie alla meravigliosa fotografia che lo ritrae con cappotto nero, sigaretta in bocca, sullo sfondo di una Times Square grigia e piovosa, lo sguardo malinconico, l’anima dentro l’obiettivo. E chi meglio di uno dei fotografi più abili del momento poteva firmarne la regia, se non Anton Corbijn? L’attore scelto per interpretare Jimmy, Dane DeHaan (Harry Osborn in Amazing Spider Man), forse potrebbe non sembrare il più adatto: dopotutto, il suo più che un ruolo era una sfida all’ultimo sangue. E invece, questo “nerd della recitazione” – proprio come Dean – sembra essere riuscito a rubargli l’anima e in due ore scarse a riportare sul grande schermo quel malessere, quel disagio, ma soprattutto quella purezza di cui James Dean era portatore.

Un altro evento speciale che ha incuriosito il pubblico del MFF fino all’ultimo momento è stata la proiezione de La ragazza Carla, evento a sorpresa di cui si è saputo data e luogo solo il giorno stesso. Ispirato al poema omonimo di Elio Pagliarani ed esordio alla regia del milanese Alberto Saibene, ricostruisce attraverso filmati d’archivio, immagini del presente e illustrazioni, la Milano del boom economico nella storia di una giovanissima dattilografa che deve lavorare per aiutare la madre. Il montaggio è accompagnato dalla splendida voce di Carla Chiarelli, e il risultato è un viaggio poetico in una Milano sospesa fra passato e futuro, che sembra ancora alla ricerca della propria identità, ma che sicuramente ha trovato la sua anima.

Anche Fabrique ha voluto conoscere meglio l’anima milanese, organizzando durante questa ventesima edizione la sua prima “puntata” milanese per presentare la rivista n. 11 e testare l’interesse del pubblico. Interesse che si è rivelato subito grande, soprattutto verso i giovanissimi registi, ospiti della rivista, che hanno mostrati i trailer dei loro progetti che spaziano dal noir al genere romantico. A presto, Milano.

Ma tu da che parte stai?

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Il suo maestro è Herzog e il cinema che gli interessa fare è un cinema povero, fatto di sguardo. Enrico Maisto, classe 1988, ci racconta la Milano degli anni di piombo nella sua opera prima, Comandante.

Lo chiamo alle 19.30 e mi butta giù il telefono “È appena iniziata la premiazione di Cannes. Ci sentiamo fra mezzora”. E io che me ne stavo quasi dimenticando. Enrico Maisto, 26 enne milanese, l’ho conosciuto nella sala d’aspetto del ricevimento della nostra relatrice “in comune” per la tesi magistrale. Sembrava sempre di fretta, probabilmente perché aveva qualcosa di più importante da fare. Questo qualcosa si chiama Comandante, è la sua opera prima e ha vinto il premio Aprile allo scorso Milano Film Festival. A leggerne la trama, ci si domanda come mai un ragazzo così giovane abbia deciso di girare un documentario su un pezzo di storia d’Italia che non ha vissuto e su cui si è detto più o meno tutto. Eppure lui ci riesce, a dire qualcosa di nuovo su un periodo così complesso, attraverso uno sguardo curioso e originale. Ma la missione del giovane regista non è l’analisi storica, né quella politica. Lui ricerca la verità e lo fa con l’occhio indagatorio della sua macchina da presa. Comandante racconta, prima di tutto, una storia di amicizia, quella fra Felice Esposito, meccanico e militante di Lotta Continua, e Francesco Maisto, padre del regista, che negli anni di piombo è stato giudice di sorveglianza al carcere di San Vittore. L’indagine storica si trasforma ben presto per Enrico in un viaggio alla scoperta di due personaggi radicalmente opposti ma mossi dalla stessa ambizione, quella di fare giustizia.

Comandante, girato con i pochi risparmi del regista e una piccola campagna di crowdfunding, è un film che vuole ritrovare i ricordi di un’infanzia ormai andata, è un film nostalgico, ma è anche un film sull’amicizia e sulla comunicazione, sul giusto vivere, sull’amore per la vita contro la violenza e la morte, e sull’immagine che un figlio insegue del proprio padre, come dice la voce fuori campo di Enrico alla fine del film.

Enrico, raccontaci dalla tua formazione. Come sei arrivato al cinema?

Ho sempre avuto la passione del cinema fin da piccolissimo, però mi sono buttato subito sull’aspetto realizzativo. L’idea di confrontarsi col lungometraggio mi attirava, quindi ho voluto provarci fin da subito. Ho fatto dei lavori al liceo, ma la finzione mi stava un po’ stretta, non ero mai soddisfatto del risultato. C’era sempre qualcosa che non funzionava, per cui in realtà l’avvicinamento al documentario è arrivato quando Bellocchio mi ha affidato il backstage di Vincere, nel 2008, e quello è stato il primo lavoro che assomigliava di più a un’esperienza di tipo documentaristico. E poi in quel periodo ho scoperto il cinema di Herzog che mi ha dato un nuovo modo di pensare il film e l’atto di filmare in sé, come qualcosa di più ampio rispetto al tradizionale film di finzione. Mi ha aperto un nuovo universo di possibilità. A me piaceva molto l’idea di un cinema fatto con pochi mezzi, povero, essenziale. Un cinema fatto di sguardo, dove sei tu e la macchina da presa.

In questo tuo primo film, infatti, s’intuisce fin dalle prime inquadrature che la tua missione è quella di indagare, di ricercare la verità. A un certo punto dici che il tuo tono “inquisitorio non ti soddisfa più”, forse perché quello che vuoi realizzare è un film dove apparentemente si parla di Storia con la esse maiuscola, ma che in realtà narra una storia personale, quella della tua famiglia. Si può dire che più che un film politico/storico sia un film familiare?

Assolutamente, infatti molte persone rimangono deluse quando si aspettano quel tipo di analisi storico/politica. No, la mia è un’indagine intima, familiare e personale, si muove su quel terreno, non è un film che intende riscostruisce la storia. La camera è sia inquisitoria, sia uno strumento dietro il quale ti nascondi, ti proteggi, proprio per riuscire a porre delle domande.

Inizialmente il film doveva incentrarsi su Felice, una figura molto importante della tua infanzia, che hai voluto ritrovare e raccontare attraverso le immagini. Poi a un certo punto hai capito che doveva entrare in scena anche tuo padre. Che cosa ti ha fatto cambiare il progetto iniziale?

Molto semplicemente è stato il momento in cui Felice mi ha raccontato che c’era un progetto… alcuni terroristi volevano uccidere mio padre, e lui era intervenuto per dissuaderli da questa iniziativa. Quello è stato il momento chiave. Cruciale.

La cosa che traspare di più nel film è l’umanità, l’autenticità dei personaggi. Che cosa secondo te li accomuna? Il desiderio di giustizia? La consapevolezza che nella vita bisogna correre dei rischi per avanzare?

Credo che sia un sentimento di cambiamento, un’istanza di riforma radicale della società e della giustizia che c’è in entrambi e che è sintetizzata nella scritta che si legge nei manifesti alla fine del film: “Quando la giustizia e il diritto entrano in conflitto, sarà sempre la giustizia a prevalere sul diritto”. Quella è l’unica scena di finzione del film, io l’ho scritta cercando di raccontare qualcosa che altrimenti sarebbe stato difficile raccontare del personaggio di Felice. Quella è una scritta che appartiene a mio padre, una frase presa da un tribunale di Managua, che lui conserva in ufficio dietro la scrivania. La frase è sua, però paradossalmente è una frase che può appartenere anche a Felice, per il suo sapore così rivoluzionario, e a me aveva colpito come i due personaggi s’incontrassero in questa frase.

Questo è molto bello, perché i personaggi sono quasi agli antipodi, però in realtà, come dici nel finale, c’è una frontiera che deve rimanere aperta, in cui non ci si può schierare, perché altrimenti qualcosa va perso. La chiami una “necessità umana”. Non credi che in fondo Felice e tuo padre siano sempre stati, ognuno a suo modo, dalla stessa parte? Quella della giustizia umana, quella della vita? È questa la conferma che cercavi?

Sì, perché entrambi fanno fatica a rimanere all’interno di schieramenti e categorie che in modo semplificatorio li vorrebbero inquadrare in un certo modo, chiedendo loro “ma tu da che parte stai?” Che poi è un po’ quello che faccio io nel film, cercare di chiedere a tutti e due ma tu da che parte stai? Perché hai fatto questo? Perché non hai fatto quest’altro? Sono domande molto semplici, domande che potrebbe fare un bambino ad un padre, con quella stessa insistenza, però poi alla fine ti rendi conto che non è sempre così produttivo rispondere in maniera diretta ad una domanda del genere. A volte la risposta è molto più complessa e problematica. Quindi l’apertura della frontiera è anche rinunciare a voler trovare a tutti i costi una domanda netta a queste domande, ma accogliere questa problematicità.

Ti consideri un regista della realtà, non un regista di finzione?

Sì, anche se non è una scelta definitiva, io sono molto affezionato ad alcuni miei progetti di finzione, e vorrei cercare di ritornarci. Si tratta solo di capire come, perché una volta provata questa esperienza di realtà è difficile abituarsi agli attori, ad alcune dinamiche…