Home Margherita Giusti Hazon

Margherita Giusti Hazon

Once Upon a Time in Salsomaggiore Terme…

0

La prima cosa che noto del documentario Sassi nello stagno” sono i titoli di testa, che mi fanno subito venire in mente i B-Movie degli anni ’50 e ’60, ovvero qualcosa di originale, dimenticato e visionario. E non è un caso, perché poco dopo scopro che Luca Gorreri, documentarista emiliano, è un grande estimatore di colui che è stato definito il “peggior regista della storia del cinema”, Edward D. Wood Jr. E infatti Gorreri con questa sua opera prima, completamente autoprodotta, si pone lo stesso obiettivo, ridare voce a un festival che in tanti conoscono ma in pochi ricordano, il Festival del Cinema di Salsomaggiore Terme (1980-1991).

Negli anni ’80 questa manifestazione, nata da un’idea di Giuseppe Bertolucci e dal fermento culturale del Filmstudio di Roma, fu qualcosa di davvero innovativo e sperimentale che riuscì a smuovere le acqua di un clima culturale immobile sempre rivolto al passato e al già visto: quello di Salsomaggiore era infatti un festival di profonda rottura coi festival tradizionali e fu subito accusato di essere un’iniziativa per addetti ai lavori, troppo elitaria, senza divi, che proponeva un cinema scommessa. La verità è che fu una fucina del nuovo che fece conoscere in Italia artisti del calibro di Jean-Luc Godard, Samuel Fuller, Amos Gitai, Jim Jarmusch, Otar Ioseliani, Aki Kaurismaki e dove esordirono registi italiani ora molto conosciuti come Marco Tullio Giordana, Fiorella Infascelli, Silvio Soldini, Marco Bechis e altri.

Ma Sassi nello stagno è anche una profonda riflessione sui festival in generale e le parole più lucide e ispiranti le pronuncia Enrico Ghezzi, che dopo aver ricordato Marco Melani come una delle menti più «vivaci e straripanti» che animarono il festival dice «il massimo che può fare un festival è trattare e amare i film come si trattano e si amano le persone», e viceversa.

Luca, cosa ti ha spinto a voler realizzare il tuo primo documentario su un festival dimenticato?

Una semplice curiosità. Mi affascinava il fatto che questo festival lo conoscessero in tanti ma lo ricordassero in pochi. È assurdo. Io e Stefania, la mia compagna, discutiamo sempre di cinema, e abitando a Salsomaggiore un giorno ci siamo ricordati di questo festival, anche se all’epoca avevamo solo dieci anni. Volevamo sapere com’erano andate le cose. Così ho fatto delle ricerche su internet e nella biblioteca di Salsomaggiore, ma non ho trovato niente. Allora ho provato a inserire delle parole-chiave nelle biografie di vari artisti all’epoca emergenti che avevano partecipato a questo festival e avevano ricevuto un riconoscimento o un premio. Man mano che vedevo i nomi degli artisti, primo fra tutti Godard, la mia curiosità cresceva sempre di più, così ho fatto un percorso a ritroso e ho scoperto chi erano gli organizzatori: Adriano Aprà, Patrizia Pistagnesi, Luciano Recchia… li ho contatti e ho organizzato le interviste.

Sassi nello stagno è completamento autoprodotto. Com’è stato il percorso produttivo?

Ho fatto tutto in completa autarchia, il film me lo sono finanziato da solo con la liquidazione. La troupe era minima: sul set c’eravamo io, Stefania Pioli, che si è occupata del montaggio, delle luci e della ripresa audio in diretta, Fausto Tinello, che si è occupato della post produzione dell’audio e Simone Manuli che ha scritto le musiche originali. Ed è andato tutto bene, Aprà e gli altri fin da subito sono stati molto disponibili con noi. Lavorare così è stupendo perché non devi scendere a compromessi con nessuno. Sei libero di dire e fare ciò che vuoi. Se hai un’idea forte e un budget medio basso come il mio tutto è possibile. I problemi sono iniziati dopo. Quando si è trattato di distribuirlo e contattare i critici. Questo è stato il vero scoglio, che è quasi insormontabile. Ho scritto a molti festival, il documentario è stato presentato al Lecce Film Fest ed è stato selezionato ai David di Donatello, poi ho contattato centinaia di critici e di cinema ma le risposte sono state poche.

Eppure l’accoglienza critica è molto positiva. Come ti spieghi questo grosso divario fra critica e distribuzione?

Il documentario piace molto, ci sono recensioni con toni entusiastici, però c’è un forte divario fra la critica e il resto. Per ora sono riuscito a realizzare tre proiezioni: a gennaio al teatro Flavio di Roma all’interno della rassegna Indipendentementi – che promuove il cinema nascosto che altrimenti non vedrebbe mai la luce – poi a Parma al cinema Edison – altro cinema che ha un occhio di riguardo per le produzioni indipendenti (al gestore è piaciuto talmente tanto che l’ha messo in programmazione) – e infine a Salsomaggiore, dove è stato accolto bene e ha smosso un po’ le acque. Sono molto felice di questi tre incontri, però mi piacerebbe farne altri. Sono convinto che questo film abbia bisogno del passaparola.

Lo stile, fin dai titoli di testa, ricorda quello dei B-Movie, in omaggio a Ed Wood. Ti ispiri, in qualche modo, a questo personaggio?

Tutto lo stile è un omaggio al vintage degli anni ’50 -’60. Amo il personaggio di Ed Wood perché era un genio senza talento, una figura di perdente che mi piace, come tutti gli artisti che hanno vinto ma solo dopo che sono morti, come Edgar Allan Poe, tutti artisti che nella vita hanno patito le peggiori chimere e poi sono stati riscoperti dopo la morte. Questa cosa ha un fascino tutto suo, per questo tutto il film è un omaggio al genere dei B-Movie, perché anche loro sono stati riscoperti tardi.

Progetti futuri?

Voglio continuare a fare cinema, “mangio cinema” come diceva Enzo Ungari, vivo di quello, però non mi sento portato a fare finzione. Mi piace partire dal reale e magari metterci qualche scena di finzione come ho fatto in questo lavoro, usando delle metafore visive per raccontare meglio la realtà. Ma ciò che voglio raccontare è il reale, quello che succede veramente.

 

Luca Bigazzi e “Young Pope”: “sono vivo per miracolo”

0

È già un cult. Dapprima, tutti noi, abbiamo temuto il gelido papa dagli occhi blu interpretato da Jude Law, non capendo mai le sue intenzioni. Poi, lo abbiamo odiato, una volta compreso di cosa fosse capace e, infine, lo abbiamo amato, quando ci ha aperto il suo cuore. Il premio Oscar Paolo Sorrentino ancora una volta parla di amori mancati, e lo fa attraverso un personaggio magnetico, una sorta di angelo mostruoso (o mostro angelico) incorruttibile e allo stesso tempo pieno di contraddizioni.

Distribuito da Sky Atlantic, Young Pope in Italia ha ottenuto da subito un record di ascolti, e in questi giorni sta debuttando in America. La Cineteca Italiana di Milano è stata la prima a pensare a una piccola distribuzione su grande schermo, e non è stata una brutta idea, perché in dieci minuti la sala di Spazio Oberdan era già sold out.

Photo by Gianni Fiorito © 2015 Twentieth Century Fox Film Corporation All Rights Reserved

Anche perché a incontrare il pubblico c’era uno dei più celebri direttori della fotografia italiani vincitore di 7 David di Donatello – di cui 4 vinti sotto la regia di Sorrentino – Luca Bigazzi, che si dice entusiasta di questa iniziativa: «Il cinema e tutte le opere cinematografiche vanno viste collettivamente, non singolarmente nelle proprie case. Se noi perdiamo il senso della sala cinematografica, il cinema non ha più senso di esistere perché la comunicazione non verbale che si stabilisce fra voi e il vostro vicino restituisce il senso vero del film, impossibile da trovare nella visione singola, isolata, al computer, in casa. Ne impedisce la comprensione».

Altra cosa importante, sottolinea Bigazzi, è vedere la serie in lingue originale, perché «il doppiaggio è uno scandalo» e, oltretutto, quando c’è un napoletano doc come Silvio Orlando che si destreggia con l’inglese, non se ne può proprio fare a meno. E poi la versione originale è l’unico modo per vedere la vera recitazione di Jude Law, «il più grande attore con cui io abbia mai lavorato».

Dieci puntate da un’ora ciascuna, eppure sembra di avere a che fare con un film molto lungo, più che con una serie TV. Anche il modo in cui è stata realizzata assomiglia più a quello di un film: «È stata una fatica mostruosa» racconta ancora il direttore della fotografia «abbiamo lavorato per 24 settimane,  con dei ritmi massacranti, ogni settimana realizzavamo mezz’ora di montato. Numeri insostenibili per degli essere umani. Sono vivo per miracolo».

Per non parlare delle ricostruzioni dei luoghi papali: «Non abbiamo potuto girare in nessun luogo reale, il Vaticano e le chiese erano interdette. Quindi ci rimanevano solo chiese sconsacrate o teatri di posa, e qualche palazzo meraviglioso di Roma che abbiamo spacciato per stanze papali. La scenografa ha fatto un lavoro incredibile».

E proprio in un periodo in cui sembra che ci sia una grande sfiducia nel pubblico – e si tenta di riportarlo in sala promuovendo iniziative come Cinema2Day – Bigazzi conclude il suo incontro ponendosi una domanda e riflettendo sul fatto che forse, se dallo Spazio Oberdan sono state mandate via oltre cento persone e i posti erano già esauriti un’ora prima dell’inizio della proiezione, perché non si è pensato a una distribuzione non solo televisiva, ma anche cinematografica? Dopotutto, si sa che il papa mobilita le folle…

“Blurred”, se mi lasci ti cancello

0

Francesco Agostini, filmmaker emiliano poco più che trentenne, ha vinto tantissimi premi come sceneggiatore (fra cui: Storie Al Femminile Solinas 2008, Sonar Subject 2009, Menzione D’Onore Franco Solinas 2011, Sonar Subject e Script 2011) ma nessuna delle sue storie è mai stata realizzata. Così un bel giorno ha deciso di andare a Los Angeles a girare un’idea che si era impadronita della sua immaginazione. Qualche mese dopo nasce Blurred, un corto di 14 minuti di produzione interamente italiana che non può lasciare indifferenti, perché oltre ad essere finalmente una storia originale, ben scritta, ben diretta e ben interpretata, parla della cosa più universale del mondo: l’amore.

Blurred racconta di un mondo dove le persone innamorate si riconoscono al primo sguardo. E non è un modo di dire: gli “innamorati” mostrano a tutti il loro vero volto, a differenza dei “non innamorati” che sono “blurrati” e se ne vanno in giro con il viso nascosto da una macchia che li rende tutti uguali e indistinguibili. In questo mondo c’è Rob, che sta cercando di capire perché Vic lo abbia lasciato e sia tornata ad essere blurrata come tutti gli altri.

Francesco, come sei diventato uno sceneggiatore pluripremiato senza film realizzati?

Dieci anni fa mi sono trasferito a Roma per fare il corso di sceneggiatura RAI Script. Da allora sono sempre stato pagato per scrivere, mi commissionavano film o serie TV che però poi non si facevano mai – sono un grande sceneggiatore che non ha mai fatto nessun film nonostante abbia vinto premi importanti. Poi ho iniziato a fare televisione come autore, e adesso lavoro come producer per due canali del pacchetto Sky. Ma ho sempre voluto fare cinema, così un anno e mezzo fa, dato che lavoravo ininterrottamente da otto anni, e avevo un’idea forte in testa, mi sono detto: sai che c’è? Che il mio corto, me lo faccio io.

Perché hai deciso di realizzarlo in America?

A livello di ambientazione avrei potuto anche girarlo in Italia, Los Angeles è come se non ci fosse. La scelta di girarlo in America è il frutto di fattori psicologici e coincidenze. Prima di tutto perché volevo andare in un posto dove nessuno sapeva chi fossi e dove potevo fare tutto quello che volevo. Volevo essere libero di fare quello che mi piaceva, senza chiedere favori a nessuno. E poi avevo un amico, Giorgio Fabbri, che era nella giuria del Premio Solinas, che vive a Los Angeles e fa il producer. Quando l’ho chiamato per dirgli che volevo raggiungerlo per fare un corso di sceneggiatura, lui mi ha risposto che con quei soldi avrei potuto girarmi un cortometraggio. E così non ci ho pensato due volte.

Com’è nata l’idea di Blurred?

Nasce tutto da una semplice battuta. Ero con degli amici e non so come chiacchierando ci siamo messi a parlare dei siti dove le persone sono “blurrate”, ad esempio siti hot, dove ci sono persone normali che non vogliono essere riconosciute.  Ad un certo punto qualcuno ha detto: “Pensa se una escort ti bussasse alla porta e quando le apri scopri che è davvero blurrata!” Da lì mi è scattata l’idea, così ho iniziato a scrivere un mezzo giallo, un thriller. Ma in realtà sono un grande romantico, e volevo fare un film d’amore. Così mi sono soffermato a pensare a cosa significasse davvero essere blurrati, e mi è venuta in mente una cosa in cui credo veramente: che la cosa stupenda di quando ti innamori è il modo in cui tu racconti te stesso alla persona che ami, è il vederti nuovo negli occhi di questa persona. Perché quando sei da solo hai il tuo lavoro, la tua casa, i tuoi amici, e puoi essere tante cose, però quando sei con la persona che ami veramente puoi essere solo te stesso. Inoltre io sono un grande fautore dell’autobiografico. Mi ero appena lasciato con la mia ragazza e volevo parlare di separazione.

Qual è il messaggio che hai voluto dare?

Due sono i messaggi: il primo è che quando sei innamorato conosci veramente te stesso e mostri te stesso agli altri. E il secondo è che non c’è “sòla” – come dicono a Roma – più grossa che essere innamorati di una persona che non ti ama più.

Raccontaci il percorso produttivo.

Una volta pronta ho mandato la sceneggiatura a Giorgio e insieme l’abbiamo sviscerata. Dopo avermi istruito sul mercato dei corti americano e aver deciso il budget, mi ha messo in contatto con Edoardo Di Silvestri, direttore produttivo del corto, e con John Rosario, che sarebbe poi diventato il direttore della fotografia. Tutto ciò è successo dall’Italia, ci sentivamo in orari assurdi. Poi mi sono messo alla ricerca degli attori: John mi ha presentato il suo migliore amico, un bravissimo attore di Philadelphia, Matt Riker, che era perfetto per la parte. Gli ho fatto un provino via Skype che ha superato subito. Con lei invece è stata più difficile. L’ho trovata attraverso un sito di casting dove in tre giorni si sono candidate 380 attrici. Fra queste, ne ho selezionate 60. Arrivato a Los Angeles, per 12 dollari l’ora ho affittato una stanza munita di una 5D, un green screen, un computer, una brocca d’acqua e una segretaria che ti organizza i provini. Le ragazze erano tutte bravissime. Ma io ho scelto Tory Taranova. Tre giorni dopo abbiamo iniziato a girare.

Sul set eri lo sceneggiatore, il regista e il produttore. Come hai fatto a gestire questi tre ruoli insieme?

È stata una situazione un po’ schizofrenica. Perché come autore e regista avrei voluto fare cose che però come produttore non potevo sostenere. L’esperienza sul set è stata straordinaria. Abituato ai set italiani dove tutti danno sempre una mano, appena ho provato ad aiutare a scaricare il camion, John mi ha preso in disparte e mi ha detto che così gli stavo facendo fare brutta figura perché aiutarli era come dirgli che non erano capaci. Così mi ha detto: “Il tuo compito è solo immaginare”. Incredibile! Io in realtà nasco come regista, anche se la regia è uno sport per ricchi. Io mi sono sempre mantenuto da solo, dai 18 ai 20 anni ho lavorato in una fabbrica di pomodori, non mi potevo permettere il CSC. Invece scrivere non ti costa nulla. Il primo anno che ero a Roma facevo il cassiere di un cinema ai Parioli e la sera, quando ero in pausa, scrivevo.

E poi cosa è successo? Com’è stato accolto il tuo lavoro?

In realtà è successa una cosa che tuttora non mi spiego: Blurred non è stato selezionato a nessun festival del mondo, nonostante io lo abbia mandato a oltre settanta festival. Poi però ho finito i soldi, e quindi ho deciso di metterlo online. Appena l’ho caricato mi ha chiamato Il Kino che sta lanciando un servizio On Demand. In 5 giorni ha fatto 600 visualizzazioni, e in un paio di settimane più di 2000, che per il web non è niente, però per un corto che dura 14 minuti è un ottimo risultato. I commenti sono stati tutti positivi. Io spero che facendolo vedere in giro il più possibile si smuova qualcosa, perché chi fa questo lavoro lo ha molto apprezzato.

Secondo te il problema sta nella storia che hai scelto di raccontare e nella sua originalità?

In Italia c’è questo brutto circolo vizioso in cui gli sceneggiatori dicono che non scrivono idee originali e fuori dagli schemi perché i produttori non gliele fanno fare. Dall’altra parte ci sono i produttori che dicono di non ricevere nessuna idea originale. Purtroppo è vero che spesso i film italiani raccontano storie piccole, ambientate nel giardino dietro casa. Manca l’universalità.

Progetti per il futuro?

Il mio progetto per il futuro è Bob: una sceneggiatura che ho scritto qualche anno fa, che ha vinto tantissimi premi, fra cui il Premio Sonar sia come soggetto che come sceneggiatura e la Menzione d’onore al Premio Solinas. Il mio progetto ora è fare quel film. Fatemelo fare, come sceneggiatore, come regista, ma fatemelo fare.

“Il più grande sogno”

0

Astenersi materialisti, pragmatici e cinici. Perché l’esordio al cinema di Michele Vannucci, classe 1987, è una storia di sognatori, per sognatori, realizzata da sognatori.

Il più grande sogno è partito dalla Mostra del Cinema di Venezia, dove è stato presentato nella sezione Orizzonti, ha viaggiato in alcuni dei più importanti festival internazionali, per approdare nelle sale italiane all’inizio del 2017. È la storia di Mirko Frezza, appena uscito di prigione, e del suo visionario sogno di dare un futuro diverso a se stesso, alla sua famiglia e a tutto il suo quartiere. Lo sfondo è una Roma di degrado ma anche di umanità e speranza, dove la realtà e la finzione, attori professionisti e non, solida sceneggiatura e scene improvvisate, convivono in un’armonia imperfetta.

 Michele, raccontaci la tua formazione. Come sei arrivato al tuo primo lungometraggio?

Io devo tutto al Centro Sperimentale: mia madre è farmacista e mio padre fa il fisico, io non avrei mai pensato di fare questo lavoro. Sono entrato al CSC a 22 anni, in tre anni ho potuto sperimentare, sbagliare, fare lavori che ancora oggi amo, fra cui il corto del diploma in regia, Nati per correre (2013), la storia di un padre e un figlio, ambientato nel mondo dei biker. Un giorno, durante i casting, si sono presentati Alessandro Borghi e Mirko Frezza. Ho intuito subito che in loro c’era qualcosa, e mi sono fidato. Uscito dal CSC, il corto è andato molto bene ai festival internazionali, mi chiedevano nuove storie che raccontassero questo mondo.

Dalle interviste a Mirko al film. Qual è stato il processo creativo?

Il film è la fine di un percorso di crescita che ho intrapreso insieme a Mirko e Alessandro, con cui fin dall’inizio sapevo di poter fare qualcosa di bello. Anche se è sempre pericoloso confondere la ricerca creativa con la ricerca umana, io volevo conoscere meglio Mirko, cercando di approfondire la sua psicologia e la sua esperienza di vita all’interno della mia. Così mi sono messo in ascolto: il corto Una storia normale (2015) nasce da 10 ore di interviste a Mirko ed è stata la prima esperienza che ho fatto con Giovanni Pompili della Kino produzioni, è stato in nuce ciò che poi è successo nel film. La sceneggiatrice, Anita Otto, ha visto in Mirko la storia di un uomo che è alla ricerca di un futuro diverso da costruirsi, e un modo per raccontare il tema della paternità come responsabilità civile e familiare. Il film è stato un processo di “lavaggio” della mia storia dentro la realtà di Mirko. Il rischio è che venga confuso con una cronaca della realtà: invece è la cronaca della mia vita dentro al mondo di Mirko, perché sono miei i temi che racconto. Siamo partiti dalle sue parole per inventarci una storia, poi questa storia l’abbiamo rimessa in discussione, fino a quando, arrivati sul set, Mirko ha potuto rivivere parte della sua vita in un mondo inventato da me. Il dialogo spesso era improvvisato perché c’era un tentativo di rimettere in scena i pezzi della sua vita.

Però avete lavorato molto alla sceneggiatura.

La sceneggiatura ha vinto il premio Solinas Experimenta, un premio dedicato a opere sperimentali, abbiamo curato la struttura narrativa nei minimi dettagli – in tutto sei stesure – affinché una storia molto particolare, quasi biografica, uscisse dalla cronaca. Il film è stato girato con un’estetica da documentario perché non c’era lavoro fotografico sugli attori ma solo un lavoro sempre e solo a favore della storia. Eravamo in 5 sul set, oltre a me c’erano ciakista, macchinista, direttore della fotografia, scenografo e sceneggiatrice. Una delle cose a cui tenevo era avere più persone davanti alla macchina che dietro: troupe leggera, luce naturale, persone che credevano nella storia e che mettevano a disposizione il loro talento, senza essere protagonisti.

L’amalgama di attori professionisti e non professionisti è molto efficace. Come sei riuscito a ottenerlo?

Perché c’erano persone che si sono messe in gioco. Per me è la direzione degli attori non è tanto dirgli “fai la battuta così”, “falla più triste o più felice”, “fai la smorfia”. Io ho solo cercato di mettere le persone nella condizioni migliori per fare accadere la scena. Milena (l’attrice protagonista) si è trasferita a casa di Mirko per due mesi, perché il mio obiettivo era quello di far conoscere le persone fra di loro meglio di come li conoscessi io, perché questo avrebbe fornito loro gli strumenti per fare le scene sul set, senza che io avessi il controllo. È così che si crea, non cercando di controllare l’immagine o la scena, ma cercando di stare dentro quel mondo e portarlo a sé. Io non sono nessuno per imporre una battuta a una persona. Ho solo cercato di portare la realtà dentro al set.

Quel bravo ragazzo di Ciro Zecca

0

Una cosa del genere non accadeva, in Italia, da almeno 10 anni: un ragazzo di Sondrio di 29 anni di nome Ciro Zecca una notte scrive un soggetto, la mattina successiva lo manda a una casa di produzione, e dopo qualche tempo il film è pronto per uscire nelle sale. Una formazione da produttore, tanti corti scritti e prodotti che hanno vinto premi importanti, ma vedere 90 persone lavorare sulla tua idea, è un’altra cosa. Come ci è riuscito? Sono tanti i fattori che hanno contribuito alla realizzazione di quella che in Italia si può facilmente definire un’ “impresa impossibile”. Primo fra tutti, la potenza della storia. Un pitch semplicissimo ma molto forte, che si può raccontare con una frase: cosa accadrebbe se uno spietato boss mafioso che sta per morire lasciasse il comando della sua cosca a un figlio che non ha mai riconosciuto, un ingenuo, goffo e assolutamente innocuo 35enne che fa il chierichetto? Secondo, una buona dose di spregiudicatezza. E terzo, il caso – chiamato, da altri, anche fortuna – di capitare nel posto giusto al momento giusto.

E così Quel bravo ragazzo uscirà nelle sale italiane il 17 novembre, diretto da Enrico Lando – I soliti idioti 1 e 2 – prodotto da Lotus Production, distribuito da Medusa Film, nel cast Herbert Ballerina, Tony Sperandeo, Enrico Lo Verso, Daniela Virgilio e anche Maccio Capatonda in un piccolo ruolo.


Ciro, raccontaci che cosa è successo prima di questo colpo grosso. Com’è nata la passione per il cinema?

Sono scappato a 16 anni da Sondrio, che è la città con più suicidi in Italia, perché ero irrequieto, volevo fare cinema. Ho fatto gli ultimi tre anni di superiori all’Istituto Roberto Rossellini. Ma il mio primo vero contatto col cinema è stato durante l’ultimo anno di superiori. Walter Veltroni, che allora era sindaco di Roma, scelse 5 ragazzi con la media più alta delle scuole romane per andare in Ruanda a portare dei soldi per costruire una scuola. Sull’aereo incontrai Riccardo Tozzi di Cattleya, riuscii a parlarci e a chiedergli se potevo lavorare con loro. Lui mi disse che se fossi uscito dalle superiori con il massimo dei voti mi avrebbero preso. E io feci di tutto per riuscirci, aiutato anche dal fatto che la mia prof di italiano nel frattempo si innamorò di me.

Dopo un anno a Fabrica, dove hai realizzato video insieme a creativi da tutto il mondo, ti sei formato al Centro Sperimentale come produttore. Come mai ti sei messo a fare lo sceneggiatore?

Ho scritto questo film perché da piccolo produttore amo la fase del soggetto, il momento in cui si ha l’idea. A me piacciono quelle idee che in due righe ti fanno capire che il film è una bomba. Così, una notte, ho avuto l’idea di questo film, ho scritto il titolo Quel bravo ragazzo e una pagina di soggetto. La mattina successiva l’ho mandato alla Lotus, dove mi hanno subito risposto che non avevano tempo di leggerlo, perché erano sommersi da altri progetti. In fondo alla mail c’era un numero di telefono. Ho iniziato a chiamarli, dicendogli che ci avrebbero messo solo tre minuti a leggere quella pagina. E alla fine li ho convinti. Una sera ero al cinema e ho ricevuto la chiamata dove mi dicevano che volevano vedermi per comprare il soggetto.

Com’è stato il percorso produttivo?

La Lotus Production è la migliore casa di produzione con cui abbia mai lavorato. La proposta iniziale prevedeva di comprare il soggetto e basta. Io però ho proposto loro di collaborare anche alla sceneggiatura, affiancato da chi volevano: hanno creduto in me e, insieme ad Andrea Agnello – Italians, Manuale d’amore 2 e 3 – e Gianluca Ansanelli – che scrive per Alessandro Siani – ho scritto la sceneggiatura. Con loro è nato un rapporto bellissimo, per me è stata una vera e propria bottega. Mi hanno anche la possibilità di stare sul set. Vedere la tua idea prendere forma e 90 persone che ci lavorano è stato straordinario. Le persone che lavorano alla Lotus hanno molto rispetto per l’autore.

Ciro Zecca
Ciro Zecca

Qual è stata l’arma vincente secondo te?

Sicuramente l’idea, che è molto semplice e high-concept: un potentissimo boss mafioso sta per morire e deve lasciare il comando a qualcuno. Non fidandosi però dei suoi scagnozzi, decide di lasciare in eredità la sua cosca a un figlio mai riconosciuto che ha vissuto in un orfanotrofio che adesso ha 35 anni e che è un bonaccione, uno che non farebbe mai male a nessuno. Viene prelevato dall’orfanotrofio, portato in Sicilia e trasformato in un boss mafioso. Il fatto che sia una commedia sicuramente mi ha aiutato, e anche avergli mandato poco materiale da leggere ha contribuito, perché li devi colpire nei pochi minuti che possono dedicarti. Ho scritto una pagina anche per dire: io ho avuto questo spunto, ma non ho la presunzione di dire che so già come voglio svilupparlo. Se poi l’idea vi piace, ne discutiamo insieme. Ho lasciato aperto il dialogo. E infine ho avuto anche una buona dose di fortuna, sono capitato nel posto giusto al momento giusto: la Lotus aveva già in previsione di fare un film con protagonista Herbert Ballerina.

La tua è una storia di speranza per tanti giovani che vorrebbero vedere le loro storie sul grande schermo. Quali consigli daresti loro?

Di sapersi adattare. Io l’ho fatto, perché dentro di me avrei un animo più drammatico. Il mondo dei produttori cerca commedie, quindi non bisogna fissarsi su film autoriali, se sei uno sceneggiatore devi essere duttile. Anche perché in Italia manca proprio la figura del soggettista. Lo ammetto, quella pagina l’ho mandata senza speranza. E la grande differenza fra prima e dopo è che adesso mi ascoltano. Se ho una nuova idea posso andare lì e discuterne con loro, cosa che per la maggior parte degli aspiranti sceneggiatori non succede mai. Ed è un peccato.

Progetti per il futuro?

Ora sono a Modena sul set di un altro film che ho scritto, Ci vuole un fisico, diretto da Alessandro Tamburini, prodotto dal CSC e da Rai Cinema.

 

“Indro. L’uomo che scriveva sull’acqua”, il doc di Samuele Rossi su Montanelli

0

“Ombre siamo, e come ombre siamo destinati a passare”. Così scriveva Montanelli un mese prima di morire, e a quindici anni dalla sua scomparsa con certezza possiamo dire che, per una volta, aveva torto, perché nessuno si è mai dimenticato di lui. Oltre che essere stato una delle voci più alte del giornalismo italiano del ‘900, è stato un personaggio pubblico che ha sempre fatto parlare di sé, tanto per aver raccontato settant’anni di storia italiana, quanto per la sua personalità forte, il carattere burbero, lo spirito libero e coraggioso e la grande dignità che spiazzava.

Samuele Rossi, giovane regista al suo terzo lungometraggio – la sua opera prima, La strada verso casa (2011), ottenne 8 premi nazionali fra cui Young Prize Award 2013 come Miglior Regista Esordiente – intende fare luce su un personaggio controverso le cui ombre lo hanno sempre un po’ oscurato, indagando nel profondo aspetti della sua vita meno noti.

Prodotto da Echivisivi e Alkermes in collaborazione con Sky Arte e presentato in vari cinema d’essai d’Italia – fra cui Spazio Oberdan di Milano – il docufilm alterna testimonianze di colleghi e amici di Indro, con un’accurata selezione di materiali d’archivio. Nelle parole degli intervistati – fra i tanti Tiziana Abate, Marco Travaglio, Beppe Severgnini, Ferruccio De Bortoli, Paolo Mieli, che lo ha riportato nella redazione del Corriere della Sera nel 1995, ma anche Franco Bonisoli, ex brigatista che nel ’77 prese parte all’organizzazione dell’attentato di cui fu vittima – Indro è un acrobata, un moralista scanzonato, un provocatore, un generatore di contrasti e, sopra ogni cosa, un individuo, uno che ha vissuto la sua vita da solista, con la vocazione di essere nei luoghi, interessato solo a fare “una cronaca di fatti e di parole vere”, che a volte un po’ inventava, ammettono in tanti, ma lo dicono come se stessero difendendo un bambino scoperto a rubare le caramelle. Uno che ha sempre messo il lettore al primo posto, che si è costantemente rifiutato di essere la voce di un partito, e che non è mai sceso a compromessi, a caro prezzo, perché la libertà di espressione in Italia si sconta sempre.

domenico-diele-philippe-antonello_indro-by-samuele-rossi
Domenico Diele @Philippe Antonello

Trovata originale far rivivere la sua carriera e le svolte importanti della sua vita anche attraverso le riuscite interpretazioni di Domenico Diele e Roberto Herlitzka, nei ruoli di Indro giovane e adulto: le prime cronache dai fronti abissini durante la Seconda Guerra Mondiale, la caduta del Fascismo, la rapida ascesa al Corriere, la fondazione de “Il Giornale”, l’attentato delle Brigate Rosse e la creazione de “La Voce” dopo l’avvento di Berlusconi.

Del documentario colpiscono e commuovono le parti che raccontano il suo lato più umano, quello più intimo, che nascondeva dietro al cinismo, all’ironia. Indro era una persona piena di contrasti, un uomo sposato che insieme alla moglie formava una coppia di scapoli, che viveva da un hotel all’altro lasciando casa sua vuota, senza foto, niente piatti sporchi o vestiti sparsi. Un uomo che in fondo si è sempre tenuto lontano dalla vita nonostante si sia sempre tenuto dentro agli eventi, che ha dedicato ogni giornata, ogni sforzo, ogni energia al giornalismo, per lui non solo un mestiere, ma il suo unico amore. Il regista in punta di piedi ci svela gli aspetti più profondi della sua personalità, come quando nei suoi Diari personali scrive di avere un forte rimorso verso i suoi genitori, coi quali è sempre stato insofferente, o quando racconta della sua forte depressione, scoperta quando era ancora bambino, e poi tornata, come una ciclica maledizione, ogni sette anni, periodi dove Indro “familiarizzava con la morte”.

Ottime la fotografia di Paolo Ferrari e le musiche accese del giovane compositore pugliese Giuseppe Cassaro.

 

“Ero Malerba” sbanca a Visioni Dal Mondo

0

Alla sua seconda edizione, il Festival internazionale del documentario Visioni Dal Mondo, organizzato da UniCredit Pavillon e dalla società di produzione FRANKIESHOWBIZ, ottiene un grande successo di pubblico, registrando sempre sale stracolme grazie a un interessante programma di oltre 30 titoli e nonostante l’atmosfera non proprio festivaliera, ma anzi un po’ ingessata. Grande novità di quest’anno Visioni Incontra, una sezione Industry organizzata in collaborazione con la Film Commission Lombardia, importante occasione per giovani filmaker, con progetti in fase di lavorazione, di mettersi in vetrina alla ricerca di finanziamenti.

Tanti i temi trattati dai documentari in concorso, e di grande attualità: il coraggio delle donne, i binomi giustizia – legalità e integrazione – istruzione, l’identità di genere, ma anche argomenti più leggeri e ironici come nel caso del divertente Il presidente del mondo di Francesco Merini e Michele Cogo, che mette in scena in tutta la sua forza il tagliente humor toscano in una storia tanto folle quanto brillante: un paesino toscano in provincia di Livorno chiamato La California si sente parte del territorio americano e ritiene di avere tutti i diritti di partecipare alle elezioni del presidente degli Stati Uniti. Così un gruppo di persone, capitanate dal visionario assessore Stefano Marmugi, mobilitano un paese di 1500 anime per andare a votare, oltre ai due candidati americani del 2008 – Barack Obama e John McCain – uno dei cinque bizzarri aspiranti presidenti italiani, fra cui Malcolm Kennedi e Lucky Lasagna.

n_folla-giorno

Ma il doc che si aggiudica i due premi più ambiti – Premio Unicredit Pavillon, assegnato da una giuria di esperti, e Premio Unicredit Giovani degli studenti delle scuole di cinema milanesi – è Ero Malerba di Toni Trupia, classe 1979 al suo terzo lungometraggio, il racconto della guerra personale di Giuseppe Grassonelli, vittima della strage del 1986 a Porto Empedocle in cui Cosa Nostra gli sterminò la famiglia e a cui lui sfuggì per caso. Inizialmente il girato doveva essere il materiale preparatorio per un film di finzione, ma poi, come racconta il regista, la realtà si è rivelata troppo potente per essere messa da parte, e così la decisione di farne un documentario è stata necessaria: il risultato è un lavoro dove la lunga intervista a Giuseppe, gli interventi di alcuni componenti della sua famiglia insieme a immagini e filmati d’archivio costruiscono una storia ambigua, dove bene e male d’intrecciano.

malerba-locandina-poster-2016-412x600

“Il mare lo sogno tutte le notti”: il film si apre con questa frase, e come un cerchio si chiude su una spiaggia, mare a perdita d’occhio, mare che Giuseppe Grassonelli non potrà mai vedere, in quanto condannato all’ergastolo ostativo, che gli permetterà di uscire di prigione solo dentro a una bara. Questo perché non ha scelto di collaborare con lo Stato. Perché la sua è stata una guerra personale, dove nessun altro andava citato se non come pedina per raggiungere il suo obiettivo. E il suo obiettivo era semplice, lucido: vendicarsi. Siamo gli unici in Europa ad avere questo tipo di ergastolo, una pena che non ammette sconti né benefici di alcun genere, neanche permessi di un’ora, neanche dopo un percorso di recupero eccezionale – che comprende una laurea in lettere moderne con 110 e lode, un romanzo scritto a quattro mani con il giornalista Carmelo Sardo, l’unico a cui Giuseppe ha voluto raccontare la sua storia dopo vent’anni di silenzio in cella, ma soprattutto neanche dopo aver dimostrato a tutti di essere un uomo nuovo, nuovo nel senso più puro del termine, perché nella persona che parla di fronte alla macchina da presa di Trupia non c’è nulla del killer che per vendicare la sua famiglia ha ammazzato tante persone.

Ed è proprio Carmelo Sardo – ideatore e sceneggiatore del film, insieme a Trupia – il testimone del suo profondo cambiamento, che racconta come Giuseppe sia diventato uno dei suoi più cari amici, come, ogni volta che lo va a trovare in carcere, la sua emozione gli rimanga “appiccicata addosso”, e quanto la profonda speranza che nutre dentro di sé gli faccia ancora credere che un giorno il mare lo vedrà davvero con i suoi occhi. E poi il suo incondizionato amore per la famiglia, la sua generosità di cuore e profonda intelligenza e sensibilità.

Giuseppe chiama questo cambiamento “restituzione”, perché questo è quello che lui può restituire allo Stato, alla società, ai compaesani empedoclini: non nomi, posti, date, dettagli. Può restituire solo ciò che possiede, e quindi solo se stesso. E quando dice che gli manca la pizza, gli manca ballare, gli mancano il mare e l’amore, l’unica cosa certa è che le parole “fine pena mai” non se le meriterebbe.

 

Dal Milano Film Festival “Ancora vivi – Bar Boon Band”

0

La Stazione Centrale di Milano è un posto per chi non ha tempo da perdere: si cammina correndo, spalle serrate pronte a scontrarsi, se necessario, e sguardo dritto verso l’obiettivo, che di solito è un treno in partenza, o in arrivo. La Stazione Centrale di Milano è un luogo affascinante, ma di passaggio, ideale per chi vuole nascondersi, perché nessuno ha tempo di fermarsi e osservare.

Ancora vivi – Bar Boon Band racconta di un mondo nascosto, di cui non si fa caso. Un mondo di esistenze sospese e invisibili, che non hanno fretta di andare da nessuna parte, perché non hanno nessun luogo dove andare. Al massimo sono proprietari di un sacchetto di plastica. Massimo Fanelli, attore e regista, decide di realizzare il suo primo lungometraggio su questo mondo ai confini della società, sullo sfondo di una Milano immersa nella nebbia, in attesa del Natale: Ancora vivi racconta di un piccolo “miracolo a Milano”, la storia di una band fondata vent’anni fa da alcuni senzatetto, alle prese con l’organizzazione del loro classico concerto del 25 dicembre.

Attraverso interviste, canzoni, frasi a metà, lacrime e risate, Fanelli mette in scena una giornata, dall’alba al tramonto, della band e delle vite di alcuni dei componenti, primo fra tutti Maurizio Rotaris, ex eroinomane, fondatore della Band e responsabile da 25 anni del Centro di aiuto SOS Exodus alla Stazione Centrale, creato da don Antonio Mazzi, un luogo di primo aiuto che sta sotto ai binari dei treni, un rifugio senza finestre per “disperati”.

bar-boon-band2Ma le storie che Fanelli racconta non sono solo storie di disperazione, sono soprattutto storie di grande forza, storie di chi ha deciso di cambiare e vuole migliorarsi. Ad esempio c’è Simeon, ex professore bulgaro con una laurea in russo, a cui se gli si domanda se rimpiange qualcosa, dice di sì, ma non cambierebbe la vita di adesso con quella di un “uomo ricco”. Perché vedere la gioia negli occhi delle persone mentre lo ascoltano suonare, è impagabile. E poi c’è Danilo, che se gli chiedi “Cosa faresti se avessi la bacchetta magica?”, risponde che vorrebbe riavere suo figlio e la sua compagnia, e ridargli quella felicità che gli è stata strappata. Ma il silenzio in alcuni casi è l’unico modo per esprimere il profondo dolore di chi sa di aver fatto degli errori nella vita e vorrebbe tornare indietro per rimediare. Ma nessuno qui ha il lusso di possedere una macchina del tempo. E l’unica cosa che si può fare è organizzare al meglio il concerto di Natale.

Le canzoni, tutte scritte e arrangiate dai “barboon”, non sono tristi, sono ritmate e piene di ironia. Ed è proprio questo contrasto a emergere bene dal documentario, perché più delle parole è la musica a esprimere le loro storie, i ricordi, i rimpianti, i desideri. E non ci sono limiti di spazio o di tempo, la Bar Boon Band suona dappertutto: al Castello Sforzesco, in Piazza della Scala, in Piazza Gae Aulenti, dove nell’ultima scena spariscono nella nebbia, come evaporando, esistenze piccole, qualcuno direbbe inutili, che però rendono meno grigia l’atmosfera, con la loro inesauribile speranza e voglia di vivere. Lo sguardo di Fanelli è silenzioso, e nonostante uno stile molto curato non è mai una presenza ingombrante, anzi cerca di essere invisibile per rendere più visibili – almeno per questa volta – i suoi protagonisti, che davanti alla macchina da presa cercano in tutti i modi di mostrare il meglio di loro stessi, con una luce negli occhi, che insieme a una profonda tristezza, fanno emergere la vera umanità di Milano.

 

L’universale e il suo pubblico

0

L’Universale, storico cinema di San Frediano, ora è un complesso di appartamentini niente male, in una bella zona piena di locali, ma è stato anche una discoteca. Prima di essere qualsiasi altra cosa, però, negli anni ’70 l’Universale era il cinema più celebre di Firenze, un cinema dove lo spettacolo era il pubblico.

Federico Micali, documentarista al suo primo film di finzione, sceglie di raccontare una storia che non ha vissuto in prima persona – all’Universale ha fatto in tempo ad andarci una sola volta – e lo fa come se stesse rendendo omaggio a un grande divo scomparso e dimenticato. Nel cast i giovani Francesco Turbanti, Robin Mugnaini e Matilda Lutz, ad interpretare lo staff del cinema gli efficaci Claudio Bigagli, Paolo Hendel e Anna Meacci, e uno straordinario cameo di Vauro, fan nostalgico di John Wayne.

Al cinema Universale ci sei stato solo una volta. Eppure nel film si percepisce un’appartenenza a quel luogo, a quel periodo e a tutte le sue vicende. Come ci sei riuscito?

Forse, in realtà, proprio il fatto di non averlo vissuto mi ha aiutato a trovare il giusto distacco. Io, Serena Mannelli, con cui ho scritto il soggetto, Cosimo Calamini e Heidrun Schleef, con cui ho scritto la sceneggiatura, abbiamo studiato tanto e siamo stati molto attenti a che cosa rappresentavamo, perché passando attraverso tre decenni di storia non potevamo approfondire troppo gli argomenti, ma neanche affrontarli con superficialità. Una delle cose che più temevo era il giudizio di chi quegli anni li aveva vissuti veramente.

Da lì alla produzione?

La produzione è stata molto dura. Inizialmente andava tutto bene, il film l’abbiamo prodotto con L’occhio e la luna, una piccola casa che aveva già prodotto alcuni miei documentari. Col passare del tempo però i finanziamenti che avevamo avuto dal Ministero e dalla Regione Toscana erano sempre meno e prima di girare ci siamo trovati di fronte un bivio: andare avanti o lasciar perdere. E io mi sono preso il rischio di girare. Avevamo un budget che ci consentiva in modo molto complesso di girare per 4 settimane con una troupe ridotta, e la cosa più problematica era che stavamo facendo un film che si svolgeva in tre decenni, quindi con invecchiamenti, ringiovanimenti, cambi d’epoca all’interno della stessa giornata e con un sacco di attori e comparse.

universale1Oggi i cinema del centro vengono trasformati in centri commerciali, mentre in periferia è pieno di Multiplex.

Se c’è una cosa che mi piace che passi dal mio film è il valore della sala cinematografica inteso come luogo. Ora i cinema sono un non-luogo, invece il cinema come esperienza da condividere anche con sconosciuti è qualcosa di importante che però può avvenire solo in certi spazi, non se dopo la proiezione ti ritrovi catapultato in un parcheggio. Io mi ricordo che un tempo, quando finiva il film, si rimaneva nel cinema a guardare i manifesti e le foto di scena, a commentarle con gli altri spettatori, ci si scambiava opinioni.

Un Universale oggi. È ancora possibile?

No, e lo dico senza nostalgia, però grazie a questo film sto girando molto l’Italia e ho trovato degli spazi incredibili a Firenze, Roma, Bologna e Milano. Per la distribuzione ci hanno salvato due cose: il passaparola e la programmazione in sale che hanno un loro pubblico affezionato. Questa è un’altra riprova che il cinema indipendente ha veramente bisogno di queste realtà, sono felice di poterne parlare perché è un tema a cui tengo molto.

Venezia73: “Spira Mirabilis”, l’immortalità è per pochi

0

“Spira Mirabilis” è il primo film italiano presentato in concorso a Venezia 73 – gli altri sono Piuma di Roan Johnson e Questi giorni di Giuseppe Piccioni – sesto lavoro della coppia di milanesi Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, un documentario sperimentale ed estremo che ha obbligato la frenetica Mostra del Cinema a fermarsi.  Fra le star da red carpet, le feste, i convegni, e le interminabili code sotto al sole, solo l’immortalità poteva fermare il tempo serrato del Lido.

Non tutti però hanno accettato la sfida: sospendere qualsiasi altra attività per 121 minuti non è una cosa da poco, in un momento dove il cinema più che mai si trova costretto a utilizzare qualsiasi mezzo e trucco per riportare le persone in sala. Spira Mirabilis è un film che addirittura le persone dalla sala le ha fatte scappare, ma nel fuggi-fuggi sia di pubblico che di stampa, chi ha avuto l’intuizione e la curiosità di restare ha applaudito per sei minuti consecutivi – che non sono affatto pochi.

Il film è, prima di tutto, un’operazione di coraggio, da ogni punto di vista: dalla realizzazione, alla produzione, fino alla distribuzione – in sala dal 22 settembre in 20 copie con I Wonder Pictures – passando per la collocazione in concorso a Venezia, cosa che ha meravigliato un po’ tutti. Ma come s’intuisce anche dal titolo, è proprio di meraviglia che il film parla, la meraviglia di fronte alla potenza che l’uomo sperimenta quando accetta e soprattutto supera i propri limiti.

Spira Mirabilis è un affresco astratto, ermetico, estremo perché esageratamente imperscrutabile, “una sinfonia visiva, un inno alla parte migliore degli uomini, un omaggio alla ricerca e alla tensione verso l’immortalità”: attraverso cinque storie ambientate nei diversi angoli del mondo che richiamano gli elementi naturali, si ha l’ambizione di mettere in scena l’immortalità. C’è la terra delle statue del Duomo di Milano sottoposte a un continuo restauro; l’aria degli affascinanti strumenti musicali creati da una coppia svizzera con una pazienza e una dedizione che commuove; il fuoco di una tribù di nativi americani lakota che lotta ogni giorno per la resistenza; l’etere della voce di Marina Vlady che narra l’Immortale di Borges; e infine, ed è la parte più riuscita, c’è l’acqua, nella storia di un bizzarro e visionario scienziato che dedica le sue giornate allo studio di una “medusetta” immortale, che si rigenera all’infinito in un magnetico e incantevole processo di rinascita.

I due autori non sono interessati ai grandi numeri, questo è evidente, sono consapevoli, in modo forse un po’ presuntuoso, che la loro opera sia per pochi “eletti”, ma la sfida che lanciano non è rivolta solo al pubblico, ma all’intero sistema cinematografico. Qui non ci sono star, non c’è un pitch forte, niente dialoghi ben fatti. C’è però qualcosa di più profondo che si percepisce nel silenzio, nei minuti di osservazione della minuscola medusa che si trasfigura, nella musica terapeutica di un tamburo in metallo, in due ore in cui viene richiesto uno sforzo maggiore allo spettatore, che in modo consapevole e attento deve scegliere di dedicare il suo tempo a un’opera inaccessibile a un occhio distratto e di passaggio.

Spira Mirabilis ci ricorda che l’uomo, in qualunque parte del mondo si trovi, nutre il profondo desiderio di lasciare la traccia del suo passaggio e di affrontare con dignità e originalità il suo più grande limite, la morte.