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Margherita Giusti Hazon

Amor, una storia d’amore e di fantasmi

Nella sua opera d’esordio, Amor, selezionata alla 80 Mostra del Cinema di Venezia, candidata agli IDFA Award 2023 e vincitrice a giugno all’Unarchive Found Footage Fest, Virginia Serpieri Eleuteri fa del cinema un mezzo per riempire un profondo vuoto e riparare un dolore.

Lo trasforma in una macchina del tempo per tornare indietro a una sera d’estate di molti anni prima, quando durante la finale dei mondiali di calcio, sua madre Teresa uscì di casa, raggiunse il Tevere e si lasciò andare alla corrente. Da allora lei, Virginia, l’ha cercata per Roma e nelle sue acque, e l’ha ritrovata nelle immagini. Il risultato di questa ricerca è una pellicola struggente, catartica e vibrante che attraversa l’acqua, la storia e il mito e ritrova una Roma perduta e senza tempo.

Non c’è un altro modo per definire il tuo film se non “poema visivo”. Visivo all’ennesima potenza, trattandosi di cinema e fotografie, o meglio di un film fatto di fotografie, ma anche poema storico che attraversa le epoche, dall’antichità ai giorni nostri. Ma come è nato questo progetto? Fin dalle sue origini ha avuto questa struttura?

Sì, anche se per ottenere questo risultato ci sono voluti vent’anni. Quando è morta mia madre nel 1998 ho sentito subito la necessità di raccontare questa storia, però all’epoca non ero pronta, sia per questioni di formazione, sia per questioni emotive e psicologiche. Poi l’elaborazione del lutto si è incrociata con l’esigenza di lavorare con le immagini e quando mi sono sentita più matura è arrivata l’idea giusta. Facevo sempre un sogno ricorrente in cui mi tuffavo nel fiume come lei, e là sotto c’erano delle luci: quelle luci erano sue fotografie, tutte strappate, e io cercavo di ricomporle. Anche nella realtà questo percorso è incominciato proprio così, ricomponendo le sue foto. La storia di mia mamma che si è gettata nel fiume quella notte si è legata con la storia di Roma, perché sotto a quel fiume c’erano tantissime altre storie che io dovevo scoprire. Ho capito che il miglior modo per raccontare la mia vicenda era raccontarla attraverso Roma, e che così avrei potuto raggiungere due obiettivi: avvicinare le persone all’immaginario di questa città, ormai ridotta a una cartolina, e usare una storia pubblica, che appartiene a tutti, per raccontare una storia molto privata.

Roma è la seconda protagonista del film, una città-donna, una città-acqua. È cambiato il tuo rapporto con la città dopo il film?

Ora ho rapporto molto più intimo con Roma: fra me e lei c’è stato un incontro, io ho cercato di restituirle quello che mi aveva dato e ora Roma è una doppia casa, non solo perché ci sono nata e ci abito. Credo che il modo migliore per conoscere una città sia camminare. Io cammino tantissimo, come si faceva in passato: camminare ti consente di osservare più da vicino la città, di avere un rapporto più esclusivo con lei e allo stesso tempo ti fa sentire meno solo. Con questo film invito lo spettatore a non avere una relazione attiva con la propria città, per questo all’inizio del film chiedo di chiudere gli occhi e sentirla, immaginarla…

Il cinema è sempre stato il tuo daimon?

La passione per il cinema è nata molto presto. Ho saputo di voler fare la regista almeno fin da quando avevo quindici anni, ma ero timida e poco sicura di me nelle relazioni con gli altri, perciò pensavo che non ci sarei mai riuscita. Quando però ho scoperto un altro lato del cinema, cioè che può non solo raccontare storie dalla dimensione collettiva, ma anche curare ferite molto personali, allora lì ho trovato tutto il coraggio di farcela. Era talmente forte quel sogno ricorrente e quel bisogno di capire che sono riuscita a trovare il coraggio di dirmi “lo devi fare”.

Quindi il cinema è diventato una spinta a cui non hai potuto resistere, ti sei arresa al tuo destino. E a proposito di destino, anche la collaborazione con la Lituania sembra averci a che fare…

È stata la cosa più bella del film, lavorare con loro per me è stato un regalo. Anche perché i lituani hanno una tradizione straordinaria di cinema sperimentale, basti pensare a Jonas Mekas. Edoardo Fracchia, produttore di Amor con Stefilm, aveva già collaborato con Rasa Miskinyte di Era Film per un bellissimo film lituano che si intitola Exemplary Behaviour. Rasa ha letto il trattamento che gli è piaciuto molto e ha deciso di provare a concorrere per i fondi lituani che poi abbiamo ricevuto. Così è nata la collaborazione, insieme abbiamo realizzato tutte le scene di studio, come quelle in macchina, o quelle della città capovolta, grazie alla direttrice della fotografica Elvina Nevardauskaitė. E poi ho avuto la possibilità di dirigere un’attrice meravigliosa, Odetta Tunyla.

Anche il compositore della colonna sonora è lituano, e la musica nel tuo film è un elemento molto importante.

Sì, ho lavorato con un musicista bravissimo che è stato anche candidato ai “David di Donatello” lituani per la musica del film, Martynas Bialobžeskis. Il nostro obiettivo era quello di creare una musica ossessiva per la parte più oscura del film e che accompagnasse il mio viaggio notturno, girato nell’abitacolo della macchina. Tutto in quelle scene doveva dare un senso di claustrofobia, lo spettatore doveva essere con me all’interno dell’abitacolo per poi respirare finalmente quando esco all’aria aperta: in quel momento si interrompe anche la musica, è giorno, c’è finalmente la rinascita.

AmorAmor è frutto anche di un grande lavoro d’archivio.

Il lavoro d’archivio è il centro del film. Prima ancora dell’incontro con la casa di produzione, quando ho preso coscienza che dovevo raccontare questa storia, ho subito avuto l’illuminazione che dovevo raccontarla attraverso il fiume e da lì sono partita, ancora prima di mettermi a scrivere, proprio da una collezione di immagini. All’inizio ho creato un archivio di foto mie personali: giravo per Roma e scattavo foto di dettagli che mi colpivano, legati soprattutto alla Roma perduta come città d’acqua. Poi ho frequentato alcuni importanti archivi, la Library of Congress di Washington, l’Istituto Luce, l’Archivio Piranesi e l’Aamod (Archivio Audiovisivo Del Movimento Operaio e Democratico), collezionando tantissimo materiale. Così ho costruito una sorta di film ancora molto saggistico; poi nel 2018, grazie alla casa di produzione Stefilm e agli Italian Doc Screenings, dove ho presentato il mio progetto, ho riscritto tutto mantenendo la struttura ma togliendo il velo, niente più maschere, siamo rimaste solo io e mia mamma.

Questo è un film da grande schermo, infatti sta avendo la sua distribuzione in giro per l’Italia. Ma come è stato vederlo proiettato durante la Mostra del cinema di Venezia?

La selezione a Venezia è stata una cosa bellissima, non solo dal punto di vista professionale, ma anche perché quando ho visto le foto di Roma con l’acqua ho pensato subito a Venezia! Si è creato un cortocircuito interessante. Il pianeta Amor è ispirato proprio all’immaginario e alla pittura degli artisti veneziani, in cui c’è un rapporto pacificato fra l’uomo e la natura. E Venezia è la manifestazione della natura che si combina con la città nella maniera più armonica. Approdare al Lido sulla barca con il mio film è stata la conclusione perfetta di questo percorso.

Amor è pieno di bellezza. Cosa è per te la bellezza?

La bellezza è qualcosa che ti cura: io ci credo molto, perché mi ha salvata. In passato ero attratta dall’autodistruzione e la cosa che più mi ha curato è stato il rapporto con le immagini. Le immagini sono delle porte. Ti permettono di avere un legame con chi non c’è più, col nostro passato e con le nostre radici, non ti fanno sentire perso. E non dovrebbero essere materia da museo, ma un patrimonio che appartiene a tutti.

Ti sei sempre dedicata alle immagini e al suono esplorando diversi linguaggi e supporti, dalla pellicola super8 alla computer grafica. Ora cosa vedi nel tuo futuro da regista? Continuerai a fare cinema sperimentale o indagherai anche la fiction come mezzo per trasfigurare la realtà?

Mi ha sempre colpito il percorso di Pietro Marcello, che riesce a mischiare finzione e ricerca d’archivio. Io amo i percorsi esplorativi e di ibridazione dei generi, mescolare found footage e racconto più tradizionale. Mi piace quando il cinema continua a essere uno spazio di sperimentazione, anche se a volte mi domando se forse dovrei fare film che chiedano meno allo spettatore. Perché Amor chiede tantissimo.

Il tuo film è una grande storia d’amore. Con Roma, con tua madre, e con te stessa. Ma è anche una storia piena di fantasmi che mi ha fatto venire in mente una citazione di David Foster Wallace che amo molto: «Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi».

Mi fa molto piacere, perché uno degli spunti che mi hanno sollecitato a fare questo film è stata un’altra frase bellissima che recita: «Non si può conoscere una città senza conoscere i suoi fantasmi». Ma ce n’è un’altra ancora: «Le immagini sono storie di fantasmi per adulti». E sicuramente il mio film racconta di due fantasmi, Roma e mia madre.

 

 

 

 

 

 

Rebecca Antonaci, giovane leonessa

Rebecca Antonaci, appena ventenne, originaria di Viterbo dove ha studiato cinema in una “scuola comune”, come la definisce lei, ha lo sguardo e la voce della purezza, ma la grinta di una leonessa che ha trovato il modo di uscire dalla gabbia.

Da esordiente è la protagonista assoluta dell’ultimo film di Saverio Costanzo, Finalmente l’alba, presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia. Rebecca, che interpreta Mimosa, si è posta di fronte alla macchina da presa come una pagina bianca: buca lo schermo e lo attraversa per puntare dritta al cuore dello spettatore con un’interpretazione magistrale e un lavoro di mimesi e rispecchiamento degni di un attore navigato, diciamo di un Willem Dafoe, di cui ormai Rebecca è amica. All’attivo ha spettacoli teatrali, piccole parti in serie tv, lo spot Barilla dove ha conosciuto Saverio Costanzo e un album (Morfina) di canzoni interamente scritte e composte da lei. Iniziamo la nostra chiacchierata proprio dalla musica.

Prima di essere un’attrice sei una cantautrice. Le tue canzoni sono delicate, magnetiche. Da dove nasce la passione per la musica?

La musica è arrivata prima del cinema, ho iniziato a studiarla quando ero piccola. Ha sempre fatto parte di me perché mi permette di esprimere me stessa appieno. Quando sono ispirata tiro fuori cose che non avrei mai pensato, perché è l’inconscio a parlare, la musica mi aiuta a entrare in contatto con le parti più nascoste di me. Quando interpreto una parte è diverso, perché sono sempre io ma dentro altri personaggi, anche se la prima regola della recitazione è «conosci te stesso», perché se non conosci te stesso non puoi conoscere il tuo personaggio.

E allora parliamo di cinema, parliamo del tuo debutto come opera prima assoluta con Finalmente l’alba: come sei arrivata, da esordiente, a un film così importante?

È successo grazie a una serie di incontri giusti al momento giusto. Io e Saverio Costanzo ci siamo incontrati sul set dello spot Barilla, anche se in quell’occasione non era stato possibile conoscerci davvero perché era stato tutto molto veloce. Durante le riprese però lui mi aveva osservata e – poi mi ha detto – ha subito pensato a me per il ruolo di Mimosa. Anche nella scrittura della sceneggiatura era me che immaginava, me lo ha confidato solo quando abbiamo finito di girare il film! Comunque niente è stato dato per scontato, ho fatto dieci provini, uno più difficile dell’altro, Saverio mi ha messo alla prova in tutti i modi.

C’è un film che ti ha fatto capire che volevi essere un’attrice? Che tipo di cinema ti piace?

Ci sono diversi registi che mi stanno a cuore, David Lynch, Quentin Tarantino, Edgar Wright, David Cronenberg. Il film che mi ha più toccato è Maps to the Stars, proprio di Cronenberg. Parla dell’ambiente degli attori, soprattutto degli aspetti negativi, dei problemi e delle paranoie che ti possono venire quando fai questo mestiere e l’ho apprezzato perché mi ci sono rivista, anche se sono soltanto all’inizio  della carriera. Mi ha aperto la mente su questo mondo, mi ha spronata e mi ha fatto capire quali sono i pericoli in cui non voglio cadere.

Come ti senti quando reciti? Il dolore che sei riuscita a trasmettere nella scena magistrale in cui “interpreti” una poesia, da dove è uscito? Chi riesce a trasmettere un’emozione così forte non può che essere una persona empatica.

In effetti sono una persona estremamente empatica e sensibile, sento tutto con grande intensità, che sia gioia, dolore o solitudine, perciò quando recito sto davvero male. Una volta che entro in un personaggio mi porto dentro il suo dolore per un bel po’ perché entro in contatto con me stessa, coi miei ricordi… Nella scena della poesia è successo proprio così, perché ero talmente dentro al personaggio di Mimosa che non ho neanche dovuto usare la tecnica o ricorrere a memorie personali, mi sono realmente immedesimata. È uscito tutto con naturalezza, senza artifici. E sono davvero molto contenta perché la scena è arrivata al pubblico.

Come è avvenuta questa profonda immedesimazione con Mimosa?

Credo sia stato un connubio fra tecnica e istinto, però con Mimosa ho sentito una connessione fin dalla prima lettura della sceneggiatura e non so perché. In realtà siamo due persone molto diverse, eppure mi sono sentita come se fossi sua madre, ho avuto la sensazione di volerla proteggere, dandole tutto quello che potevo. È un personaggio che ancora mi sento addosso. Mentre giravamo le prime sequenze e mi sono ritrovata con attori come Willem Dafoe, Lily James e Joe Keery, mi dicevo: “Ma stiamo scherzando? Sono in una scena con questi tre, ma che sta succedendo?”. Ero incredula proprio come Mimosa.

Mimosa rappresenta l’innocenza, e in una favola nera la sua purezza spicca ed emerge ancora di più. Ma alla fine trova la leonessa che è in lei. Quella scena sembra proprio un invito a tutti noi, sembra suggerirci di camminare affianco al nostro leone, a non averne più paura.

 Sicuramente questo film mi ha fatto crescere come persona e come attrice, è stata un’esperienza assolutamente formativa. La leonessa però la sto affrontando adesso, perché quando ho girato il film ero piccola, avevo solo 17 anni. Dovevo ancora finire la scuola. Era tutto bello, la parte più difficile è arrivata quando è finito il film perché sono tornata al liceo, alla vita normale. Questa esperienza mi ha dato tanto ma mi ha anche tolto tanto e sto imparando solo ora ad accettare tutto, a vivere con serenità e ad affrontare le cose una alla volta. Questo è un mestiere bellissimo, ma è anche pieno di incertezze, non sai mai quando lavorerai… quindi affrontare il leone forse significa affrontare te stesso e il lavoro che hai scelto.

Saverio Costanzo ti ha scelta per la tua autenticità, la caratteristica principale anche del tuo personaggio. Com’è stato lavorare con lui? Cosa ti porti dentro?

L’insegnamento più grande che mi ha dato Saverio è come arrivare all’anima del personaggio. Lui ti toglie ogni schema, ogni forma di overacting, nota tutto, ha una grandissima sensibilità e una grande empatia perché capisce in che situazione sei e ti aiuta a entrare nell’anima del personaggio. Amo moltissimo la sua visione del film e la sua visione delle cose in generale e del mondo femminile, delicata, sensibile. E poi Saverio mi ha regalato un film stupendo: a prescindere dal fatto che c’ero anche io in quel film, lo avrei amato comunque.

Com’è stato recitare con grandi divi di Hollywood? In particolare Willem Dafoe nel film è un po’ la tua guida, quasi una figura paterna. È stato così anche sul set?

Più che una figura paterna Willem è stato un amico. È in grado di capirti subito, ti legge completamente, mi ha fatto sentire a mio agio sul set e anche divertire, fra un ciak e l’altro, con le sue smorfie! È stato molto stimolante lavorare con lui, è un attore con la “a” maiuscola, però ho scoperto che è anche una bellissima persona.

E ora cosa vedi nel tuo futuro? C’è un regista o una regista con cui sogni di lavorare?

Cerco di non avere pretese, mi piace pensarmi come una pagina bianca pronta a essere “scritta” e sono sicura che arriverà il progetto giusto nel momento giusto. Però il mio sogno segreto è poter girare un horror. Io ho una grande paura dei film horror, mi fanno stare male per giorni e quindi vorrei proprio girarne uno dove interpreto la parte del mostro sanguinario, quello che spaventa gli altri… Credo sarebbe l’unico modo per superare questa paura.

Scrivi canzoni. Ma hai mai pensato di scrivere una storia? Magari una storia per il cinema?

Oltre alle canzoni scrivo anche poesie, ma sono cose molto intime quindi le tengo per me. Mi piacerebbe scrivere una sceneggiatura, anche se adesso mi sento ancora acerba, però è una possibilità che tengo aperta. Mi attira l’idea di parlare di solitudine, un po’ come fa Sofia Coppola.

Fotografa Roberta Krasnig: assistente Davide Valente
Stylist: Flavia Liberatori
Hair and Makeup
Ilaria di Lauro

Abiti: Meimeij; Federica Tosi; Alysi

Kripton, Francesco Munzi racconta le malattie dell’anima

Kripton racconta la vita quotidiana e insieme extra-ordinaria di un gruppo di ragazzi con problemi psichici all’interno di due comunità nella periferia di Roma. Una vita sospesa in un “difficile mondo” dove l’oscurità governa ma si intravede anche una luce abbagliante che è quella della condivisione e del dialogo. L’abisso mentale dei pensieri troppo veloci, della troppa empatia, delle visioni fantastiche e deliranti, della solitudine, ma anche delle famiglie non aiutate dallo Stato in un post pandemia dove il disagio psichico è aumentato del 30% nei giovani.

Francesco Munzi (Anime nere, Futura) dirige un documentario intimo, delicato, un film necessario e straziante fra domande esistenziali e momenti di profonda verità a cui è impossibile restare indifferenti e in cui è molto facile immedesimarsi. Munzi ci porta su Kripton che “non è remotissimo, ma alquanto remoto è”, un pianeta dove la sensibilità è tantissima, forse troppa, e spesso si vede di più e si sente di più rispetto al pianeta Terra.

Hai detto più volte che fare questo film (distribuito da Zalab) è stato come un salto nel buio, perché in pratica lo avete scritto mentre lo giravate. Ma qual è l’origine di questo documentario? Come arriva l’interesse per la malattia psichica e il disagio mentale? 

È sempre un po’ complicato capire quale sia il motivo per cui si decide di girare un film. Sicuramente io avevo un forte interesse a raccontare personaggi che avessero un contatto con esperienze psichiche estreme e volevo provare a raccontarlo attraverso il cinema. Volevo trasporre sul grande schermo esperienze interiori solitarie e stati d’animo, e per farlo mi sono rivolto a due comunità di Roma che ospitavano ragazzi che avevano fatto questo tipo di esperienze e soffrivano di disagio mentale.

Come sei entrato in queste vite così delicate e intime senza sembrare un estraneo? Come ti sei guadagnato la fiducia dei ragazzi e delle ragazze risultando quasi “invisibile”? 

Una delle cose sorprendenti che abbiamo notato ora che è uscito il documentario è che in realtà dal pubblico viene vissuto come un film di finzione, ha lo stesso coinvolgimento. Questo credo avvenga perché è sì un documentario, ma al centro ci sono le persone e alcuni loro aspetti invisibili, insomma si va in profondità. Anche io sono rimasto sorpreso nel vedere il grado di naturalezza che arriva sullo schermo, e questo credo sia dovuto al fatto che durante le riprese siamo riusciti ad ottenere una grande fiducia, i ragazzi si sono affidati, sono entrati in contatto con noi come persone. Anche l’operatore di macchina Valerio Azzali è entrato in questa dinamica di avvicinamento umano. Sul set eravamo in tre, a volte Valerio era anche da solo. Non avevamo neanche il fonico proprio per evitare qualsiasi cosa che potesse disturbare e distrarre.

Come hai scelto le sei storie da approfondire?

Non è stato facile, è stato uno slalom perché moltissimi centri hanno detto di no, le comunità più lontane dal centro di Roma invece ci hanno dato molta più fiducia. Non so se è stato casuale. I ragazzi sono stati molto generosi e molto coraggiosi, però bisogna anche dire che alla fine l’esperienza del documentario per loro è stata quasi terapeutica, perché rivedendosi sul grande schermo hanno provato un grande beneficio. Per quanto riguarda la scelta, abbiamo privilegiato le storie che davano spazio non solo ai medici ma anche ai famigliari, perché anche questo è un aspetto che volevo raccontare.

Nel tuo film i ragazzi riflettono su argomenti importanti e profondi, dalla solitudine al rapporto fra vero e falso, alla famiglia, ma la cosa che ritorna sempre e che è impossibile non notare è un eccesso di sensibilità nei protagonisti, come se vedessero e sentissero di più.

Quello che ho notato è che questi ragazzi condividono con le persone diciamo “normali” le stesse domande esistenziali, solo che loro rimangono spesso incagliati in certe dinamiche di pensiero. Kripton sta avendo una grande diffusione proprio perchè secondo me il limite fra malattia mentale e normalità non è così definito, e quindi è anche facile immedesimarsi. Per questo sarebbe bello se oltre al suo percorso nelle sale cinematografiche questo documentario diventasse anche uno strumento di discussione per il pubblico ma anche per le scuole, perché i protagonisti sono tutti ragazzi giovani, in particolare Dimitri.

Gli inserti con materiali d’archivio che significato hanno?

 Mentre giravo il film mi sono accorto che avevo bisogno di un contrappunto che andasse in controcanto con l’osservazione e la cronaca del film, qualcosa di più allusivo e evocativo che facesse fare un viaggio di sentimento allo spettatore. Così è arrivata l’idea dei super 8, degli homemovies, usati non in senso narrativo ma associativo e libero una cassa di risonanza per la musica e una trasfigurazione della cronaca.

Uno dei protagonisti del film è Marco Antonio, e qui la parola “protagonista” è perfetta perché lui è l’unico ad essersi posto proprio come attore, inoltre è anche un grande cinefilo. In uno dei suoi monologhi parla di Kripton come fosse il suo pianeta di origine. Perché hai scelto questo come titolo del tuo film? Come se i ragazzi del film fossero veramente originari di un altro pianeta – e in effetti sembra proprio che abbiano dei poteri extra-ordinari…

Kripton, oltre che significare “nascosto” in greco, fa subito pensare a un enigma e ci porta in un mondo sia di fantasia che di delirio, ma comunque sia di mistero. La malattia mentale è qualcosa di doloroso e faticoso, ma è anche un enigma, un mistero appunto. Il tentativo era quello di portare lo spettatore a un contatto ravvicinato – e non con i numeri ma con le persone – con questo tipo di esperienze, di renderle più consuete, di integrarle. L’essere umano può essere anche questo, e con questo film abbiamo provato ad abbattere ancora un po’ di più lo stigma. Perché la strada è quella dell’integrazione contro l’isolamento, ci sono ancora troppa paura e vergogna.

KriptonNel film si parla spesso di oscurità, e qui ce n’è tantissima, però in questo film si vede anche una luce. L’ultima scena, quella con protagonista Benedetta, è struggente e catartica insieme perché riesce a infondere una grandissima idea di speranza. Dove hai trovato la luce in questo luogo?

Già l’idea di poter rappresentare questo mondo per me era qualcosa di virtuoso. Nonostante la fatica e a tratti la disperazione che ho potuto cogliere, la strada non è solo quella di puntare alla guarigione non sempre immediatamente raggiungibile quanto di aprirsi alla condivisione, al dialogo e all’appartenenza e in questo senso Benedetta ne è la dimostrazione, perché inizialmente si faceva riprendere solo da lontano ma poi ha iniziato a fidarsi di noi, si è avvicinata, ci ha parlato, e questo è stato un piccolo miracolo. Lei ci ha fatto questo regalo e ci ha indicato la strada, con una grande naturalezza e normalità.

Ti senti più libero nella realtà (e quindi nel documentario) o nella finzione? Nel tuo prossimo futuro c’è un documentario o un film di finzione? 

Questa è una domanda complicata perché uno può essere libero sia nel documentario sia nella finzione e viceversa. La libertà è più una questione di come ti approcci a ciò che stai per girare, a una storia, e poi naturalmente dipende anche dalla produzione. Il fine dei miei film comunque – anche quando ne faccio uno di finzione – è sempre una sorta di ricerca. A volte parto da un documentario mancato che diventa un film di finzione. Non sono due mondi così separati.

Finzione e realtà, a volte la finzione è più reale del reale… lo dimostra il fatto che Marco Antonio, che non riconosceva più sua sorella né come sua parente né tanto meno come amministratrice di sostegno, dopo aver visto il film ha finalmente ricominciato a darle fiducia e a riconoscerla.

Siamo rimasti tutti stupiti da questa cosa, certo non possiamo avere la certezza che sia davvero legata al documentario ma tutto lo fa pensare. Il film ha permesso a Marco Antonio – così come agli altri – di vedersi dall’esterno e quindi di avere un’altra prospettiva. Non sappiamo quali meccanismi siano scattati ma essersi messi davanti alla macchina da presa equivale a essersi messi in scena e a volte mettersi in scena dà più libertà rispetto al ruolo che ti senti costretto a interpretare nella vita di ogni giorno.

 

Guglielmo Poggi è “Il tuttofare” con Castellitto

Definirlo un giovane attore sarebbe riduttivo, perché Guglielmo Poggi è sì un attore emergente di talento ma è anche musicista, narratore di storie e regista. Classe 1990, dopo tanti ruoli in cui si è egregiamente cimentato – come in alcune piccole ma interessanti parti come “avviatore di storie” (Smetto quando voglio, L’estate addosso, Beata ignoranza) – o altre in cui ha avuto ruoli più importanti – come ne Il nostro ultimo di Ludovico Di Martino – arriva il suo primo ruolo da protagonista, nel lungometraggio d’esordio di Valerio Attanasio, Il tuttofare (Vision Distribution, al cinema dal 19 aprile) che racconta una vicenda tutta italiana e molto attuale: quella di Antonio Bonocore, praticante in legge, che sogna un contratto nel prestigioso studio del suo mentore, il principe del foro Salvatore “Toti” Bellastella (Sergio Castellitto) ma, disposto a tutto pur di lavorare, si troverà in guai seri.

Guglielmo Poggi ne Il tuttofareGuglielmo, com’è nata la tua passione per il cinema e la recitazione?

I miei genitori sono due bravissimi attori, ma inizialmente non erano favorevoli che intraprendessi questa carriera anche io, così all’inizio ho cominciato col doppiaggio. Quella è stata la scintilla, perché alla fine dovendo dare la voce a un personaggio, finisci col recitare insieme a lui.

Ed ora finalmente è arrivato per te un ruolo da protagonista in un’opera prima. Come sei stato scelto?

Per un attore come me, che fino ai 26 anni aveva fatto film belli ma sempre con parti piccole, quando è arrivato Il tuttofare è stato pazzesco perché mi sono visto proiettato in qualcosa a cui pensavo di arrivare fra anni. Io non sono uno facilissimo per i casting, perché sono a metà fra il caratterista e il primo attore, ma per questo film cercavano un interprete con una grande esperienza teatrale – ci sono scene molto lunghe, bisognava interagire con Castellitto – che sembrasse un ragazzino ma che non lo fosse veramente, e con una certa attitudine ai tempi comici. Dopo il disgraziato, il coatto, il fattone, ora interpreto uno studioso perfettino che non sa niente della vita. Questo è fare l’attore: viaggiare e allontanarsi da sé.

Lo sceneggiatore Valerio Attanasio con Il tuttofare firma la sua opera prima. Com’è stato lavorare con lui?

Con Valerio siamo praticamente cresciuti insieme, la vita ci ha fatto ricontrare (dopo Smetto quando voglio, dove lui era sceneggiatore) e già dal provino sentivo che quella parte io la avrei fatta meglio di chiunque altro, ma non per presunzione, perché ci sono degli artisti con cui ti capisci al volo. Tutto qui. E lui ha un modo di trattare temi seri con una leggerezza e ironia molto intelligente. Mette gli attori nelle condizioni di fare bene il loro lavoro. Non sentirai mai Valerio dire “dilla come la dici al supermercato”, mai, sul set non c’era nessuno che non recitasse, e questo secondo me è un modo alto di fare cinema.

Il film infatti è una commedia, nonostante la vicenda che racconta sia tremendamente drammatica e attuale.

Se questa storia non fosse raccontata come commedia sarebbe fin troppo inquietante, invece con un tono grottesco puoi dire le cose così come sono. Finalmente ecco una commedia su una generazione, quella dei millennials, il cui mondo del lavoro non era ancora stato raccontato. Antonio Bonocore – il mio personaggio – è in linea con un’idea di compromesso non solo professionale ma anche esistenziale. Non esiste un limite di dignità, di etica. Eppure l’etica dovrebbe garantirla la giustizia, e pur essendo lui un portento del diritto, sembra non sapere neanche che cosa sia. Conosco più di una persona che si è trovata ad affrontare una situazione non dignitosa o che ha dovuto accettarla perché era nella condizione di essere “sostituibile”. L’idea dell’insostituibilità non esiste più.

Guglielmo Poggi Il tuttofareIl tuo boss, capo, datore di lavoro, che è interpretato da Sergio Castellitto, qui è un personaggio molto ambiguo. Com’è stato recitare a fianco di un grande attore come lui?

Sergio è stato straordinario perché ha avuto l’intuizione di interpretare il suo personaggio non come despota autoritario, ma anzi sempre sorridente, capace di lusingare le capacità di Antonio, esattamente come fa il potere: esalta una generazione di ragazzi capaci ma non dà loro i mezzi, e questa è esattamente la chiave del film.

Negli ultimi anni hai diretto alcuni cortometraggi che hanno avuto un grande successo. Quali sono i temi di cui vorresti parlare da regista?

Con Un po’ prima di sparire (2016) ho parlato di bulimia e in Siamo la fine del mondo (2017) ho raccontato un suicidio “in diretta”. Quello che ora vorrei raccontare è l’alienazione provocata dalle nuove tecnologie: temo che la mancanza di luoghi di aggregazione possa portare gli esseri umani a un futuro molto arido.

Cosa consiglieresti a un giovane attore che volesse intraprendere la tua carriera?

Gli consiglierei di tenere sempre i piedi per terra, ma prima ancora di dedicarsi a ciò che lo incuriosisce, andare a vedere una mostra o leggere un libro: il materiale per essere un bravo attore è ovunque. Siamo gli eredi naturali di Gassman, Manfredi, e non stiamo parlando di gente fotogenica che andava sul set e diceva due battute, stiamo parlando di grandissimi intellettuali, di artigiani del loro lavoro, persone incantevoli capaci di stupire sempre.

“Metti la nonna in freezer”, al cinema la dark comedy di Fontana e Stasi

Giancarlo Fontana e Giuseppe Stasi, giovani registi materani appena trentenni, firmano il loro primo lungometraggio per il cinema, Metti la nonna in freezer, una brillante dark comedy con Fabio De Luigi, Miriam Leone e Barbara Bouchet, da un’idea del produttore Nicola Giuliano (fondatore, insieme a Francesca Cima, della Indigo Fim) e con la sceneggiatura di Fabio Bonifacci.

L’idea del film, assolutamente surreale, è in realtà ispirata a un fatto di cronaca: cosa accadrebbe se una donna surgelasse sua nonna per continuare a prenderne la pensione? Ma i due giovani registi non sono proprio degli esordienti: alle spalle hanno dieci anni di esperienza fra il web e la televisione (e infatti Fabrique li aveva già notati). Fra i primi in Italia ad aver realizzato video cosiddetti “virali” (nel 2010 il loro corto Inception Berlusconi fece un milione di visualizzazioni su YouTube), sono riusciti a trasformare la rabbia e i problemi  economici e politici del nostro Paese in materia di racconto ironico, pungente, originale e coraggioso.

Giancarlo, quando è nato il sodalizio artistico fra te e Giuseppe?

Giancarlo

Siamo entrambi di Matera, dove ci si conosce un po’ tutti. La prima volta che ci siamo visti era il 1990, ci conosciamo da sempre e sapevamo che ci piaceva girare corti in modo amatoriale, inseguendo e imitando i grandi maestri della storia del cinema, cercando di ripetere le inquadrature dei film che amavamo. Quando ci siamo trasferiti a Roma, dopo aver studiato io Comunicazione e Giuseppe Lettere con indirizzo Cinema, abbiamo iniziato a collaborare facendo tantissimi lavori insieme, ma senza clienti, solo per passione. Eravamo due videomaker che andavano in giro con la video camera digitale – una delle prime –  e mettevano in scena le loro idee.

Come è arrivato il successo?

Giancarlo

Fra tutti questi corti, ce n’è stato uno che si è messo più in luce, Inception Berlusconi, che fece tantissime visualizzazioni. Nel 2010 il termine viralità era ancora associato alle malattie. Noi non siamo “youtuber”, YouTube per noi è stato solo un trampolino di lancio, una vetrina per dimostrare che sapevamo fare determinate cose che poi abbiamo messo al servizio della televisione e di altri progetti, da La 7 nel programma Uno Due Tre Stella di Sabina Guzzanti, a Rai 3 con Neri Marcorè in Neripoppins, fino a Sky. La nostra carriera è stata una serie di reazioni a catena.

Giuseppe

Dopo Inception Berlusconi sono iniziate ad arrivare altre proposte e possibilità che ci hanno portato, nel 2014, alla realizzazione del film Amore oggi, dove abbiamo fatto davvero tutto, dalle riprese, alla fotografia, anche la recitazione, il montaggio, gli effetti, e anche parte della produzione: insomma un progetto fatto in casa che poi ha avuto una distribuzione nazionale grazie a Sky.

metti la nonna in freezer registi e attoriCome si è sviluppato il vostro modo di fare cinema dal web al grande schermo, passando per la televisione?

Giancarlo

Il nostro modo di lavorare è sempre stato di arrivare sul set con le idee più chiare possibile ma essere anche pronti a cambiare qualcosa attraverso il confronto con il resto della squadra. Sicuramente un tratto distintivo del nostro modo di fare cinema è la cura dei dettagli. Per noi ogni dettaglio del film deve essere curato, dalla fotografia al montaggio, tutto.

Parliamo del vostro ultimo film in uscita nelle sale italiane oggi, Metti la nonna in freezer. Chi vi ha proposto questo progetto?

Giuseppe

La sceneggiatura ce l’ha proposta Nicola Giuliano, che ci corteggiava da un po’, dai tempi della Guzzanti, era un fan dei nostri spot trailer (Montinator, Il Cavaliere Oscuro…). All’epoca ci propose un altro progetto, noi però avevamo 25 anni e non ce la sentivamo ancora, ci sembrava una cosa troppo grande, e quindi preferimmo rimandare. Anni dopo, ci parlò di questa idea e ci mandò la sceneggiatura in una stesura ancora primordiale.

Giancarlo

Bisogna dare un grande merito a Nicola Giuliano per aver creduto che due quasi esordienti potessero sopportare il peso di una produzione così grande con attori del calibro di Fabio De Luigi, Miriam Leone e Barbara Bouchet: Nicola ha dimostrato un grande coraggio, si è comportato come un vero produttore, proprio come dovrebbe essere in un mondo ideale. Ha creduto in noi contro tutti e contro tutto.

metti la nonna in freezerCosa consigliereste a un vostro coetaneo che volesse intraprendere questa carriera?

Giancarlo

Fare, fare, fare. Non soffermarsi solo a guardare film, è importantissimo studiare, ma ancora di più lo è girare, fare esperienza, oggi si può giare con un cellulare e montare con un portatile di pochi euro. È importante affinare la tecnica, provare, sperimentare, capire quale sia la propria strada. È l’unico modo.

Giuseppe

Sono d’accordo. Bisogna battere il ferro, continuare, ostinarsi, indipendentemente dai momenti di scoraggiamento che possono arrivare. Il cinema è un ambiente molto difficile e complicato, però a noi è stata data questa possibilità e, se ce l’abbiamo fatta noi, ce la possono fare anche altri.

“L’assoluto presente” dei ragazzi ricchi e perduti

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È davvero raro incontrare un regista con una vocazione così pura, che non si lascia ammaliare dalla “carriera” da regista, ma che semplicemente fa il regista perché dire qualcosa attraverso le immagini è il modo che gli riesce meglio per raccontare una storia.

Dopo molti cortometraggi e documentari – l’ultimo, Che cos’è l’amore, selezionato ai Nastri d’Argento – Fabio Martina dirige un film di finzione tratto da un fatto di cronaca, L’assoluto presente (che vanta comprimari come Bebo Storti, Marco Foschi e Umberto Galimberti). Il film, ambientato ai giorni nostri, a Milano, racconta la storia di tre ragazzi sui vent’anni, Cosimo, Riccardino e Giovanni che, per ragioni apparentemente del tutto casuali, aggrediscono brutalmente un passante. Ma dall’idea all’uscita in sala sono passati 10 anni. Vogliamo capire perché.

Fabio, tu sei un regista indipendente al 100%. Come riesci a realizzare i tuoi film?

A 17 anni ho deciso che avrei fatto questo lavoro e da allora sono stato irremovibile. Ho iniziato ad autoprodurmi cortometraggi, che non hanno avuto grande successo, se non qualche passaggio nei Festival, fino a che non ho prodotto Clochard si nasce, la storia di un ricco broker assicurativo che per scelta decide di vivere per strada. Il film vinse a Filmmaker nella sezione Giovani Autori, e questo mi ha dato la possibilità di fare Due calci in paradiso, una storia di invidia e gelosia sullo sfondo della periferia di Quarto Oggiaro. Il film fu notato da MTV e andò in onda in prima serata, divenendo così un piccolo caso fra gli indipendenti.

Senza un produttore si è più liberi ma i tempi si allungano. Come è stato il processo produttivo de L’assoluto presente?

Nel 2007 lessi questo caso di cronaca accaduto a Verona, di un ragazzo aggredito in maniera casuale per una sigaretta. Gli aggressori non erano emarginati, non avevano nessun problema. Erano ragazzi normali, che stavano bene. Questa notizia mi colpì molto. Decisi che volevo farci qualcosa. Grazie alla collaborazione di due sceneggiatori, Massimo Donati e Alessandro Leone, abbiamo iniziato a scrivere. Il percorso è stato lentissimo a causa della ricerca dei finanziamenti, i produttori mi dicevano che era un film troppo complicato, che sarebbe stato meglio fare una commedia. Ma ormai per me fare il film era diventata una ragione di vita. Il film lo avrei fatto comunque.

l'assoluto presente

Come hai trovato gli attori?

Non amo i casting, non mi piace avere intermediari, quindi ho seguito il mio metodo: ho fatto dei laboratori di lezioni cinematografiche, per portare i ragazzi non a fare i casting ma e recitare davanti alla videocamera. Dovevano mettersi alla prova e tirare fuori se stessi. Questo processo è durato un anno, ho visto un centinaio di attori e da questo lavoro immenso sono venuti fuori i 4 protagonisti. Inizialmente non ho lavorato sul personaggio, ma ho continuato a scavare nei loro vissuti, a lavorare sulle loro emozioni senza svelare troppo del personaggio, né dalla storia. Volevo che loro diventassero quei personaggi. 10 giorni prima di girare ho dato loro la sceneggiatura, ma solo quella che riguardava il loro personaggio.

L’attrice che interpreta Riccardino è davvero una scoperta. Come hai capito che avrebbe potuto interpretare il ruolo di un ragazzo e, per altro, farlo in un modo così intenso?

Appena l’ho vista ho capito che lei avrebbe fatto parte del film. Bucava lo schermo. Aveva qualcosa di potente, una capacità immediata di raggiungere le emozioni. L’ho messa alla prova fino alla fine e lei mi ha sempre seguito, anche quando le ho proposto di rasarsi e interpretare Riccardino. Anche gli altri due attori hanno messo tanto di loro stessi. Quando l’attore non distingue più il personaggio da se stesso, mi fa un grande dono.

l'assoluto presente

Il modo in cui scegli le persone con cui lavorare è molto interessante, anche per la colonna sonora hai una storia da raccontare.

Alla reception della RAI – con cui collaboro – c’è sempre una ragazza che ho scoperto essere una musicista e cantautrice. Questo mi aveva molto colpito – il fatto che spesso abbiamo delle passioni ma facciamo tutt’altro. Mi mandò pezzi davvero molto belli. Ecco, questo è come lavoro. Io credo che ci siano persone meritevoli che semplicemente non hanno capacità di vendersi.

Che cos’ è per te l’assoluto presente del titolo?

Inizialmente il titolo doveva essere Tre allegri ragazzi. Poi, durante uno studio finanziato dalla Provincia in cui andavo in giro per le scuole ad intervistare adolescenti ed esperti per indagare il mondo di oggi, Umberto Galimberti pronunciò quelle due parole, disse che i giovani d’oggi vivono l’assoluto presente, l’insignificanza sociale e la precarietà, e non sono minimamente interessati al passato e al futuro. Per me l’assoluto presente è il male di oggi.

Com’è andata la distribuzione?

Per tutto quello che è successo dopo devo ringraziare Lo Scrittorio, che ha seguito la distribuzione del film, e la Cineteca di Milano, che ci ha creduto fin da subito e ha selezionato il film per il Concorso Rivelazioni del festival Piccolo Grande Cinema. Il successo è stato grande, intenso, tanto che la Cineteca ha deciso di tenerlo in programmazione. Poi ha fatto qualche passaggio a Roma, e adesso stiamo cercando di farlo vedere anche in altre città.

 

 

 

 

 

 

Silvio Soldini, un’anima divisa in due

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È quella, parafrasando il titolo di un suo film, di Silvio Soldini, che lavora da tempo fra documentario e finzione. E che agli esordienti consiglia «di trovare delle persone con cui creare una squadra, questo non è un mestiere che si fa da soli».

Mattina presto, al parco Solari di Milano. Il regista arriva con passo calmo, sorride e come prima cosa cerca una panchina con la giusta luce dove sederci per iniziare la nostra intervista.

Cosa ti ha spinto a fare cinema? Raccontaci il tuo esordio.

Ho iniziato andando al cinema. All’epoca avevo 17 anni e frequentavo la Cineteca di Milano. Mi sono iscritto a un’università come le altre, scienze politiche, perché non sapevo ancora bene che direzione prendere. Nel mondo del cinema non conoscevo nessuno. Poi ho vissuto due anni a New York, ho fatto una scuola lì, ospitato, per i primi tempi, da una lontana cugina che faceva la montatrice. Tornato in Italia ho capito subito che avevo due alternative: andare a Roma a cercare di convincere un produttore a finanziarmi un’opera prima – e non mi ci vedevo granché – oppure restare a Milano e costruire qualcosa qui. Ho scelto la seconda possibilità e insieme a Luca Bigazzi ho cominciato a sognare di fare cinema.  I corti e i mediometraggi realizzati negli anni ’80 sono stati una grande palestra. Nel 1989, insieme a Roberto Tiraboschi, ho finalmente scritto la mia prima sceneggiatura e poi nel 1990 è uscito L’aria serena dell’ovest.  In quel momento si è aperta la porta.

Esordire ieri e oggi. L’arrivo del digitale ha cambiato le cose?

La tecnologia è un’arma a doppio taglio, perché da una parte ti dà la possibilità di fare un film con molti meno soldi rispetto alla pellicola, però allo stesso tempo crea un’invasione di prodotti di qualsiasi tipo. Internet è intasato da film di ogni misura, è molto più difficile riuscire a farsi notare, oggi.

E allora cosa consiglieresti a un giovane regista o sceneggiatore?

Gli consiglierei di trovare delle persone con cui creare una squadra. E poi mettersi a lavorare, perché questo mestiere non lo puoi fare da solo, e lo impari facendo. Le scuole ti possono dare un’ottima base per cominciare, però poi è solo lavorando sul campo che puoi capire quali sono le tue debolezze, e quali i tuoi punti di forza. È fondamentale.

Cosa ne pensi del cinema giovane?

Io credo che in tante opere prime recenti, come in Cuori puri di Roberto De Paolis, ci sia una grande attenzione ai dettagli, alle psicologie dei personaggi e alla recitazione di tutti gli attori, cosa che non c’era nel cinema degli anni ’80, quando io ho iniziato. Trovo che in questi ultimi anni siano usciti tanti buoni film, soprattutto opere prime o seconde. Il problema è che poi la gente non va a vederli quanto dovrebbe.

I tuoi film, oltre che averli diretti, li hai sempre anche scritti. Come vivi questo doppio ruolo?

Non scrivo mai i miei film da solo, lavoro sempre con una o due persone. Doriana Leondeff è la coautrice dei miei ultimi otto film. Io credo che aver scritto un film che dovrai dirigere non potrà mai essere un limite, tutt’altro. Chi scrive la sceneggiatura ha una maggiore conoscenza di tante cose, sa perché un personaggio pronuncia una certa battuta, o compie una certa azione. Anche quando ho realizzato Brucio nel vento, che è tratto da un romanzo [Ieri, di Ágota Kristóf ndr], insieme a Doriana ho cercato di costruire la “mia” la storia,  perché solo così potevo conoscere nel profondo la trama, i personaggi, le svolte, e fare delle scelte importanti sul film.

Documentario e finzione: come convivono nella tua filmografia?

Il documentario è un momento di raccolta, di conoscenza, di scoperta. È un viaggio in un mondo sconosciuto. Nel mio cinema documentario c’è una forte tendenza a lasciare le cose al loro posto, a non stravolgerle, a non disturbare quello che avviene davanti alla camera, nei limiti del possibile. Si tratta di trovare un’intimità con la materia con cui sei a contatto, in cui ti immergi. Farsi più invisibile possibile e soprattutto ascoltare. Nella finzione accade proprio l’opposto: sei tu a dover creare un mondo. Che sia il mondo surreale di Agata e la tempesta o quello realistico di Cosa voglio di più, si tratta sempre di mondi che non esistono, che sono tutti da inventare. Mi piace passare da un genere all’altro, perché da uno attingo e poi nell’altro ricreo. Il documentario ti aiuta, nella finzione, a rendere il più verosimile possibile una storia, perché lo spettatore ci deve credere, al cinema. Le psicologie dei personaggi sono importantissime, bisogna sempre scavare dietro ogni minima cosa, a volte anche dietro il più piccolo gesto.

I tuoi personaggi, infatti, sono sempre molto approfonditi. Che tipo di lavoro c’è dietro?

Inizia nella fase di scrittura e si affina dopo, con gli attori. Quello è il momento in cui un personaggio prende vita. Lavorando con gli interpreti si capiscono tante cose, si mette a fuoco qualcosa di quasi invisibile che è però quello che secondo me crea, nello spettatore, una profonda vicinanza e intimità con loro. Questo riguarda anche i personaggi secondari. In tanti film accade che quando si entra in un bar, il barista non è un barista. Io cerco di stare sempre molto attento ai dettagli. Anche un barista che vediamo per trenta secondi deve avere una sua personalità.

Che legame c’è fra il documentario Per altri occhi e il tuo ultimo film Il colore nascosto delle cose?

La realtà che avevo scoperto in Per altri occhi era troppo lontana da quella che conoscevo io, che per buona parte derivava da ciò che avevo appreso al cinema, perché i personaggi ciechi nei film sono rappresentati o in modo sempre drammatico oppure come dei supereroi. Io volevo provare a mettere in scena una storia molto normale, dove il personaggio di una donna cieca avesse una vita come quella degli altri. Questo mi premeva raccontare: una quotidianità in cui l’impossibilità di vedere è un elemento con cui Emma ha fatto pace e che anzi la spinge ad avere quasi più voglia di vivere e di prendere dalla vita tutto quello che può rispetto a una persona che non si trova nella sua condizione.

Com’ è il tuo rapporto con il pubblico e con la critica?

L’unico modo di avere un riscontro del pubblico è andare nei cinema a presentare il film. Lì si capisce davvero che cosa arriva dallo schermo alla sala. È sorprendente come, dopo la stessa scena, improvvisamente ridano tutti oppure, a soli 100 km di distanza, nessuno. Il pubblico è ciò che fa incassare il film, ciò che lo fa andare avanti, un film lo fai perché venga visto, non perché te lo vuoi tenere in un cassetto. Questo è un discorso delicato: quanto fai un film per il pubblico e quanto lo fai per raccontare una storia, un mondo. Io non riesco a pensare al pubblico quando giro un film, però sto attento e cerco sempre di capire se arriverà, se riuscirò a raccontare una certa cosa in un certo modo. Cerco di fare i film che come spettatore andrei a vedere. Per quanto riguarda la critica, ci sono due o tre critici di cui m’interessa davvero sapere cosa pensino [sorride sornione].

La Cineteca di Milano – dove per altro sono conservati tutti i tuoi film in 35 mm – va a fuoco. Quale film salveresti per primo?

Non ne ho idea! Con domande come questa ho sempre grossi problemi perché le prendo troppo seriamente. Forse salverei uno dei film che mi ha così emozionato e stupito che mi ha spinto a fare questo mestiere, uno dei primi film di Wim Wenders, Nel corso del tempo, oppure Pickpocket di Robert Bresson… che poi magari rivedendoli oggi direi: “Ma perché non ho salvato qualcos’altro!”.

Noir in Festival, omaggio ad Atwood e Caligari

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Al via dal 4 dicembre la XXVII edizione del Noir in Festival, divenuto milanese da soli due anni dopo una lunga e fortunata permanenza nella suggestiva e inquietante Courmayeur.

Sono finiti i bei tempi delle proiezioni al Palanoir e delle passeggiate post film nella neve: ma il festival del Noir, nonostante il trasloco, non se la passa male, tutt’altro, mantiene le sue migliori tradizioni ma si rinnova con grandi novità: otto opere in concorso provenienti da tutto il mondo e in anteprima italiana, incontri con gli autori, due film fuori concorso, gli omaggi a Margaret Atwood e a Gloria Grahame, i tanti eventi speciali e la bella novità del Premio Caligari.

Claudio Caligari

Abbiamo incontrato Gaia Furrer, responsabile dell’ufficio cinema e programmer del Festival – oltre che delle Giornate degli Autori-Venice Days. 

Gaia, che percorso hai fatto per arrivare a un traguardo così importante?

La mia passione per il cinema è iniziata che ero bambina. Fin da piccola guardavo tantissimi film, mio padre è sempre stato un grande cinefilo. All’università studiavo letteratura ma dopo aver scoperto il corso in Storia del Cinema ho cambiato direzione, anche se ero lontana dall’immaginare che il cinema sarebbe diventata la mia professione. Prima di laurearmi feci uno stage in occasione di un festival di cinema e musica organizzato da Giorgio Gosetti a Sanremo. Anche se feci quasi solo fotocopie, con un unico e grande momento di gloria in cui andai all’aeroporto a prendere Michael Nyman, questa esperienza mi piacque così tanto che dopo la laurea tornai da Gosetti e gli chiesi di lavorare ancora insieme. Iniziai così a collaborare con l’agenzia di promozione del cinema italiano all’estero Italia Cinema, l’attuale Filmitalia, fino a quando Giorgio non ebbe la  bella idea di fondare le Giornate degli Autori. Quando mi chiese se volevo seguirlo nell’avventura veneziana non ebbi dubbi.

E dopo Venezia sei approdata anche al Noir in Festival, ora alla sua XXVII edizione. Com’è questa nuova sede lombarda, oltre che meno fredda
?

Il Noir in Festival ha una storia trentennale, io ci lavoro da “solo” 15 anni. È un Festival che ha cambiato casa più di una volta, Courmayeur è stata la sua dimora più duratura, luogo adattissimo a un festival di genere. Era meraviglioso vedere film di paura e poi uscire dalla sala e trovare metri e metri di neve… Trasferirci in Lombardia è stato proprio come quando fai un trasloco da una casa all’altra: all’inizio eravamo un po’ spaesati, ma adesso ci stiamo adattando e ci troviamo molto bene. Il Festival si snoda fra Milano e Como, cambiare e sperimentare è anche divertente.

Il Noir è un festival di cinema ma anche di letteratura. Come si conciliano questi due mondi?

Cinema e letteratura sono proprio i due polmoni del Festival, e per noi hanno la stessa importanza. Per quanto riguarda la letteratura, quest’anno l’evento più importante è la consegna del Raymond Chandler Award – il nostro premio alla carriera – alla scrittrice canadese Margaret Atwood, autrice – tra le altre cose – del bellissimo romanzo The Handmaid’s Tale da cui è stata tratta la serie in programma in questo periodo su Tim Vision. Sempre in questi giorni su Netflix va in onda Alias Grace, una miniserie basata sull’omonimo romanzo della Atwood. È una scrittrice meravigliosa  che per un soffio non ha vinto il Nobel quest’anno.

Cosa prevede il cartellone cinematografico?

Il Festival si apre e si chiude con due film fuori concorso: si inizia con il nuovo film del regista di Notting Hill Roger Michell, My Cousin Rachel con Rachel Weisz e Sam Claflin, opera davvero molto interessante che vede anche la partecipazione di Pierfrancesco Favino, e si chiude con l’ultimo film di Todd Haynes, Wonderstruck – La stanza delle meraviglie, che era in concorso a Cannes. Evento imperdibile la proiezione della versione restaurata in 4K de Il silenzio degli innocenti, a 25 anni dai 5 Oscar che ottenne il film, una versione, realizzata dal British Film Institute, davvero incredibile sotto ogni punto di vista, colore, suono, immagine. Poi c’è il concorso principale che prevede 8 film in gara, tutte anteprime italiane, che declinano il genere in modo molto diverso: c’è la vendetta al femminile di Mouly Surya, talentuosa regista indonesiana di The Murderer in Four Acts, rilettura in chiave contemporanea dello spaghetti western; l’esordio al lungometraggio della regista irlandese Juanita Wilson con il thriller Tomato Red e il ritorno alla regia (dopo sei anni da We need to talk about Kevin) della scozzese Lynne Ramsay che con You Were Never Really Here ci regala una performance incredibile di Joaquin Phoenix qui nei panni di un brutale vendicatore. Da non perdere anche Burn Out di Yann Gozlan, film francese adrenalinico ambientato nel mondo delle corse di moto; Handia – Giant, film storico parlato in lingua basca che – come ha detto qualcuno – sta a metà tra il cinema di Lynch e quello di Lean; Euthanizer di Teemu Nikki,  una dark comedy finlandese con atmosfera da B-Movie, Madame Hyde di Serge Bozon con Isabelle Huppert che interpreta in chiave grottesca e surreale il mito ottocentesco di Dr. Jekyll e Mr. Hyde e infine lo svedese  The Nile Hilton Incident di Tarek Saleh su un detective corrotto della polizia del Cairo. Insomma, tutti lavori molto diversi che saranno giudicati da una giuria internazionale composta da 5 personalità del mondo del cinema, due giovani attori italiani, un critico francese, una regista britannica e un fotografo spagnolo (a breve renderemo noti i nomi).

Questa edizione introduce inoltre un’importante novità, il Premio Caligari. Di cosa si tratta?

Sì, quest’anno ci sarà anche un concorso di opere italiane in memoria di Claudio Caligari che premierà il miglior noir italiano uscito nelle sale nel corso del 2017. Fra i film in gara l’ultimo dei Manetti Bros, Ammore e malavita, il film d’animazione Gatta Cenerentola, Sicilian Ghost Story di Grassadonia e Piazza, Falchi di Toni D’Angelo, Omicidio all’italiana di Maccio Capatonda, I figli della notte di Andrea De Sica, Monolith di Ivan Silvestrini e  l’esordio alla regia di Donato Carrisi La ragazza nella nebbia. Questi film saranno giudicati da una giuria popolare composta da studenti universitari e appassionati, affiancati da due critici cinematografici e un presidente che guiderà le discussioni di voto.

Come si svolge il lavoro di selezione delle opere in concorso? È molto diverso rispetto a quello di Venezia?

Molto, perché per Venezia richiediamo esclusivamente prime mondiali. Per il Noir, invece, essendo più elastici rispetto allo status del film (esigiamo solo l’anteprima italiana) possiamo permetterci di selezionare film che hanno già avuto vita festivaliera altrove. Questo comporta un approccio alla ricerca completamente diverso.

Perché, secondo te, tante persone – in particolar modo i giovani – amano questo genere cinematografico?

Io credo che tante persone amino questo genere innanzitutto perché un thriller, se è un buon thriller, intrattiene ma soprattutto fa lavorare il cervello. È un tipo di cinema che ti fa essere attivo, che ti fa ragionare, passi tutto il tempo a chiederti cosa accadrà, scena dopo scena. E poi la paura attrae: persino mio figlio – che ha 10 anni – è affascinato solo dalle copertine dei DVD dei film horror. È un richiamo inconscio verso la paura: il mistero ci spaventa e allo stesso tempo ci attira irresistibilmente. E infine credo che guardare questo tipo di film sia anche un modo per esorcizzare la paura, non solo per gli spettatori ma anche per i grandi maestri: primo fra tutti Dario Argento, che ha sempre dichiarato di fare film horror per superare i suoi incubi.

Beautiful Things, sinfonia dei cinque sensi

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Documentario, sinfonia visiva, partitura musicale su schermo, urlo e insieme canto: Beautiful Things è un oggetto strano, un’opera visionaria che durante la scorsa Mostra del cinema di Venezia ha lasciato la laguna a occhi spalancati e bocca chiusa. Il film è infatti un assordante elogio al silenzio che calpesta i 5 sensi costringendo lo spettatore a una profonda riflessione sul dietro le quinte della macchina che muove la nostra società: il consumismo

Selezionato da Biennale College – bottega d’arte alla sua quinta edizione che ogni anno dà la possibilità a tre giovani autori di realizzare film low budget – Beautiful Things è l’opera prima di Giorgio Ferreri, fotografo ma soprattutto compositore e musicista torinese, che ha avuto 8 mesi per realizzarla. Il film, molto più che sperimentale, è un eccentrico tentativo – assolutamente riuscito – di racchiudere immagini, parole e suoni in un’ipnotica sinergia.

una scena da Bbeautiful Things

In Beautiful Things s’intrecciano 4 storie, 4 personaggi che probabilmente non si incontreranno mai, 4 esistenze ai limiti dell’isolamento, 4 eremiti della società, imperatori di regni fantasma e sotterranei che a nessuno interessa scoprire. 4 capitoli (Petrolio, Cargo, Metro e Cenere)per svelare chi c’è dietro alla gigantesca macchina produttiva di quelle “cose bellissime” di cui noi esseri umani siamo ghiotti, per raccontare le 4 fasi principali, dalla nascita alla morte, dalla creazione alla distruzione, passando per il trasporto e la commercializzazione, di qualsiasi cosa teniamo in mano, guidiamo, indossiamo.

C’è Van, manutentore di pozzi petroliferi, che nel deserto texano conduce la vita dell’ultimo uomo sulla terra; Danilo, che ricorda tanto il Novecento di Alessandro Baricco, un ingegnere meccanico filippino che vive su una nave cargo; Andrea, che da sempre trascura l’aspetto esteriore per curare la mente, scienziato bolognese votato al silenzio che si occupa di testare le proprietà acustiche di oggetti d’ogni tipo nelle immobili e silenziosissime camere anecoiche e, infine, Vito, che indossa sempre una maschera e trascorre le sue giornate dentro a una fossa di rifiuti.

Uomini soli per scelta, il “lato oscuro” della nostra bulimia consumistica, che ogni giorno creano, misurano, testano e poi distruggono quegli oggetti che amiamo, odiamo, annusiamo, collezioniamo, che a volte ci precedono e sempre ci sopravvivono.

Il punto di vista del regista è preciso ma mai imposto: lo spettatore è messo di fronte a uno specchio ed è lui a dover decidere se guardarsi dritto negli occhi o trovare l’ennesimo escamotage per non riflettersi. D’altronde siamo sempre noi a rinunciare al nostro stesso spazio vitale per fare posto a oggetti che ci ricordano qualcosa o che semplicemente crediamo ci possano rendere migliori.

Le 4 storie sono orchestrate da una regia e un ritmo rigorosi, simmetrici, ma è la musica a rendere questo documentario un’opera che sarà difficile dimenticare: tutto diviene colonna sonora, dai movimenti cadenzati della mostruosa Pumpjack petrolifera, fino a una musica diegetica realizzata da un bambino con un bastone e alcuni oggetti trovati nel deserto,per un risultato che toglie il fiato.

Giorgio Ferreri regista di Beautiful Things

Storditi e quasi feriti da immagini, parole e suoni che insieme collaborano fino a fondersi, ancora confusi sul senso del film, la scena finale arriva inaspettata: un incredibile piano sequenza accompagnato da una musica capace di entrare davvero nel cervello. Due ballerini si esibiscono in un centro commerciale in una coreografia precisa e insieme scatenata che non è né la soluzione, né tantomeno la via d’uscita al nostro modo di vivere, ma in qualche modo ha il sapore della liberazione, della catarsi.

La sorprendente tenerezza di Gianni Amelio

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«Sono innocente, sono innocente! ». Si apre con questa battuta l’ultima opera di Gianni Amelio, La tenerezza, che ha incontrato il pubblico giovedì scorso al cinema Anteo di Milano regalandogli una magistrale lezione di cinema. È Elena (interpretata da Giovanna Mezzogiorno) che traduce dall’arabo un sospettato terrorista: Elena rivela alla corte che ha di fronte, durante un processo, che questo giovane arabo sta mentendo, ma le ricordano che lei non deve interpretare, deve solo tradurre. «Non dovrebbero farci tradurre quello che dicono, ma come lo dicono», commenta poco dopo.

Fin dai primi minuti Amelio ci svela ciò che stiamo per vedere: un intreccio di personaggi che mentono, che non dicono mai quello che davvero vorrebbero dire, che non sono ciò che dicono di essere, perché si trattengono, perché hanno paura, hanno sofferto, perché il senso di colpa li ha consumati, perché alla fine «tutto ciò che facciamo è una scusa per farci volere bene». I personaggi sono come degli accumuli di conseguenze mai superate, tutti a loro modo orfani, chi di madre, chi di padre, chi di entrambi, chi di figli, e degli orfani si dice che non saranno mai più in grado di amare.

Dopo L’intrepido (2013), «un film bellissimo e sfortunato, che io metterò sempre in cima ai miei film», Amelio torna a indagare l’animo umano e lo fa attraverso il tema della paternità, dell’abbandono, del rapporto adulto-bambino, ma non inteso come età anagrafica, perché qui i bambini sono adulti «a cui si può dire tutto» e gli adulti sono bambini che non hanno mai superato quel senso di solitudine che si prova quando si cresce.

Lorenzo – Renato Carpentieri, qui una sorta di strepitoso Sean Connery italiano trattato in modo indegno nel manifesto e nei titoli di coda, dove appare come poco più di un personaggio secondario – è un avvocato più che famoso famigerato, in pensione, vedovo, quasi morto a causa di un infarto, che non ama più i suoi figli perché sono cresciuti, e che si affeziona a una famiglia che viene ad abitare accanto a lui, sconosciuti che gli danno la possibilità di tornare indietro a quando si poteva solo giocare.

È la prima volta che Amelio ha un protagonista della sua stessa età e, nonostante sottolinei come non sia stato lui a cercare e scegliere questa storia, quasi a volerne prendere un distacco, realizza il suo film più personaleOggetto chiave del film un giocattolo che avrà il potere di stravolgere le sorti di tutti i personaggi, che non è un oggetto di finzione, ma è realtà vissuta: è «una delle poche cose che sono riuscito a conservare della mia infanzia, sopravvissuta a tutti i traslochi ed emigrazioni possibili», racconta Amelio, che quel giocattolo lo possiede da quando ha 7 anni.

«I miei film non mi somigliano, sono sempre migliori di me, ma mi piace pensare che ci sia qualcuno che ci si possa riconoscere». Amelio prende il romanzo di Lorenzo Marone, La tentazione di essere felici (Loganesi, 2015), e ne fa «una liberissima trasposizione». Non crede nella fedeltà dell’opera da cui ci si ispira, «un libro, se è bello, devi cercare di non essergli troppo vicino perché se no gli fai un cattivo servigio». Infatti il soggetto lo firma lui, riscrivendo la storia: Amelio trasforma Lorenzo – che nel libro era Cesare – in un Re Lear che rinnega ed è a sua volta rinnegato dai suoi figli, per lui solo «due principi ereditieri», e trova un po’ di tenerezza nella figura distratta, infantile, gioiosa di Michela (Micaela Ramazzotti, che non sembra ancora uscita dal ruolo de La pazza gioia), una sconosciuta, che non ha bisogno di chiedergli se ha preso le pillole ma semplicemente gli fa compagnia cucinando il ragù. Lo sfondo è quella di una Napoli scintillante e spettrale, caotica e deserta – la luce è ancora una volta quella di Luca Bigazzi – una ghostown dove a Lorenzo non resta che consumare le scarpe.

La tenerezza di cui parla Amelio non è mai ostentata, anche se è l’unica salvezza per chi ha smesso di amare, è una tenerezza che non ha mai fretta di manifestarsi e arriva dalle persone da cui meno te l’aspetti, e risiede negli sguardi, nei silenzi, come quando Fabio (Elio Germano) si mette all’altezza del vucumprà che ha appena insultato e lo guarda, come a chiedergli scusa.

Ma la tenerezza più tangibile viene da dietro la macchina da presa, da Amelio che guarda i suoi attori, sfolgoranti per talento, sì, ma soprattutto per lo sguardo che il regista posa su di loro. Gli attori li plasma, li trasforma, non li costruisce in base a un personaggio, ma fa esattamente il contrario, «avvicino il personaggio al temperamento dell’attore». L’attore si deve infilare nel personaggio, deve scomparire per lasciare spazio solo a lui. Amelio ama i suoi attori a tal punto da occuparsi solo di loro, sul set.

«Io credo a un’emozione che ti arrivi non dal dolly, o dal carrello, ma dallo sguardo, dagli occhi, dal tono di voce». Amelio i suoi attori li studia, li osserva, li mette anche alla prova, come quando – racconta – non dà lo stop alla Ramazzotti facendola recitare per 42 minuti perché sentiva che solo lei avrebbe potuto regalare quel qualcosa che mancava alla scena, e non erano brillanti battute o gesti inseriti al momento giusto, era qualcosa che poteva dare solo lei, un finale speciale.

«Guai se in una sequenza non hai un elemento non previsto, sorprendente», e questo film è pieno di momenti così umani da essere davvero sorprendenti, perché non ce li aspettiamo quasi più i momenti di sorpresa in cui un attore, da copione, dovrebbe ridere e invece piange, come succede alla Mezzogiorno verso la fine, schiacciata dalla sua durezza, dall’orgoglio, dalla paura. Ma quando il padre torna a casa, lei esce dall’apnea, «perché la felicità non è una meta da raggiungere, ma una casa in cui tornare».