Seba (Marco Aceti) fa una sorpresa alla sua ragazza Patty (Giulia Todaro): rimette a lucido una Fiat 127 di seconda mano comprata ad un’asta giudiziaria. I due giovani non sanno però che quella era l’automobile che apparteneva a due delle vittime del Mostro di Firenze. A fine serata Patty e Seba salgono sulla 127 e si appartano in un bosco fuori città… L’orrore sta per iniziare.
Una Fiat 127 non sarà mai una macchina qualunque: simbolo dell’eccellenza industriale italiana e parte della storia del nostro Paese, in Lettera H torna a intrecciarsi ad una narrazione ancora più grande. “Quella che per un toscano come il sottoscritto – spiega il regista Dario Germani – ha tutti i connotati di una fiaba nera troppo vicina nel tempo”: i delitti del Mostro di Firenze e il successivo processo ai cosiddetti “Compagni di Merende”.
Germani mette in scena un impianto narrativo disturbante e paranoico, che dalla suspense del thriller si evolve in un horror dichiarato e crudele, tanto nei risvolti psicologici quanto nella messa in scena. La violenza si manifesta in un climax di eventi inesorabili, simbolo di un cinema piccolo nei mezzi ma enorme nei risultati.
Vincitore dell’European Cinematography Awards; Best Actor and Best FX-International Film Festival; Best thriller, Best FX, Best Scenery – Cubo Cine Festival; Best Movie – Abruzzo Horror Film Festival e del Best Movie & Sanese d’Oro – Terra di Siena International Film Festival, Lettera H è disponibile su Prime Video e AppleTV, distribuito da Direct to Digital.
Ci sono dei gesti, delle scene che alle volte rimangono impresse sulla pelle, arrivando dritti all’interiorità di chi le guarda. Uscito da poco su Sky, dopo aver chiuso fuori concorso le Giornate degli Autori alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, il nuovo film di Francesco Lettieri Lovely Boy ha la capacità di sostare nella mente degli spettatori, catturandone l’attenzione nonostante evidenti difetti complessivi.
Un anno dopo Ultras, Lettieri decide di filmare la storia di Nick, in arte “Lovely Boy”, personaggio finzionale del mondo della trap. Della trap, però, al regista e sceneggiatore napoletano interessa poco e nulla. Lettieri riprende il filo da dove lo aveva lasciato nel suo film precedente. Continua a tessere la storia delle anime perse, quelle anime che popolavano “La collina” di De André, rendendole più contemporanee. È il sapore della contemporaneità, infatti, a interessare lo sguardo del regista e non l’ambiente musicale in sé.
Nick, interpretato magistralmente da Andrea Carpenzano (La terra dell’abbastanza), artista romano, è un astro nascente della trap. Pian piano entra in un mondo che lo isola sempre di più, facendogli perdere il controllo. Travolto in un giro di lusso e dipendenze, finisce così in un rehab in Trentino, evento che divide esattamente in due il film. Già da questa breve sinossi si può capire come nella sua totalità, Lovely Boy sia un film visto e rivisto (qui, infatti, l’enorme difetto dell’opera), ma il graffio di Lettieri è nel modo in cui decide di riprendere la vicenda.
Nel concentrarsi su piccoli gesti quotidiani, come la semplice apertura di una bottiglia, il regista cattura lo spettatore dentro la fragilità di chi ormai non ha neanche più il controllo del proprio corpo. La macchina di presa si sofferma su inquadrature che allontanano il protagonista dal contesto, cogliendolo proprio mentre è al centro della spirale di solitudine tipica non soltanto dei cantanti o degli artisti, ma dell’uomo contemporaneo, immerso in un mondo narcisista che lo vorrebbe superiore a tutto e tutti, ma che invece svuota le proprie vittime.
È interessante, in quest’ottica, notare come in un vortice di comparse e di situazioni, Lettieri isoli sempre il suo protagonista, rendendo quasi tattile la sensazione di vuoto che egli prova in scene che si imprimono con potenza: finita la visione, gli spettatori continueranno a ripensare alla familiarità di quei dettagli.
Lovely Boy è dunque un film che nel suo complesso è stato già mangiato e digerito diverse volte, ma che ha nel suo tocco qualcosa in grado di far andare lo spettatore oltre il già noto. Lettieri segna così, nel suo percorso registico, una nuova tappa, dopo la quale, dopo “il matto” e il “suonatore Jones”, attendiamo la visita delle altre anime perse, che ancora dormono sulla collina, ma che attendono di essere indagate nella loro contemporaneità.
Luna Park inebria lo spettatore fin da subito. Lo avvolge in un mondo, tra giostre, fiabe e realtà, che ricorda il cinema di un tempo, con un piede, però, nel futuro. Composta da sei episodi, già nel primo notiamo la forza sprigionata da questa magica ambiguità, che si mostra fin da subito dalla scelta della musica: dalle note swing di Pencil Full of Lead di Paolo Nutini, fino al rock contemporaneo di un brano come Dog Days Are Over di Florence + The Machine. E l’incantesimo della nuova serie italiana Netflix non si ferma qui, ma procediamo svelando una carta alla volta.
Luna Park è la nuova serie italiana originale, ambientata nella Roma degli Anni ’60, in uscita il 30 settembre su Netflix. Ideata da Isabella Aguilar e diretta da Leonardo D’Agostini e Anna Negri.
L’intreccio tra generazione passata e nuovi giovani
Sullo sfondo della Roma de La dolce vita, Isabella Aguilar, showrunner e sceneggiatrice della serie, colloca Nora e Rosa, una giovane giostraia e una ragazza della Roma bene, che andranno a far intrecciare le rispettive famiglie. Si apre così una trama che mischia da misteri e intrighi alla ricostruzione chiara e limpida di un’epoca sfarzosa e piena di luci, capace, con l’interiorità dei propri personaggi, di unire diverse generazioni. Nell’immaginario vintage accentuato dai costumi, dalla fotografia, dai dialoghi calzanti e ritmati quanto una partita di tennis, le protagoniste ricalcano un vissuto facilmente riconoscibile dai nuovi giovani.
Nuovi giovani che, grazie a Luna Park, vengono immersi in uno spettacolo nuovo nel clima culturale seriale e/o cinematografico italiano. Prendendo in prestito il ritmo spumeggiante di una miniserie come Hollywood di Ryan Murphy, il tutto è mixato a un contesto genuinamente italiano, che vede rimescolare anche nuove generazioni attoriali, come Lia Grieco nei panni di Rosa, ad altre già consolidate ma in ruoli non meno importanti, come Paolo Calabresi che interpreta Tullio Gabrielli.
La nuova serialità di Luna Park
Il gioco è sempre lo stesso, per ogni reparto tecnico: un’abile tessitura tra innovazione e il casalingo. La recitazione esce dagli stereotipi attoriali delle piattaforme multimediali ma allo stesso tempo, però, ricalca lo stampo teatrale tipico del clima italiano. Il gusto fresco di trame dal respiro più internazionale, s’interfaccia con il ricordo dei film che un tempo rendevano il nostro panorama cinematografico invidiabile in tutto il mondo. La maestria della serie sta proprio nella sua capacità di intessere queste due anime, con semplicità, senza svelarne l’artificio. La stessa regia, di Leonardo d’Agostini e Anna Negri, tra particolari piani sequenza e tagli più classici, evidenzia la fluidità dell’intera operazione, schioccando come in un numero di magia, in cui, attratti dal sorriso splendente dell’assistente, non ci rendiamo conto di alcun trucco.
Con Luna Park la serialità italiana fa segno in un mondo del tutto nuovo. Un mondo che ti fa sentire mancanza di un futuro, fremendo sul divano in attesa di nuovi prodotti del genere. Impazientendo come i giovani degli anni Sessanta di fronte alle prime magie del mondo circense. Fremendo come Nora e Rosa, nel tentativo di incamminarsi dentro un percorso che va oltre ogni possibile immaginazione, ma che riporta con sé quel fragrante e caldo odore di casa. Il profumo, appunto, di un passato che apre le porte a un luccicante futuro.
C’è un’immagine ne La ricerca del tempo perduto di Proust: lo scrittore, seduto in treno, cerca di rincorrere il tramonto, senza riuscire però mai a raggiungerlo. Appena pensa di poterlo vedere bene da vicino, il treno avanza e il sole sembra spostarsi. C’è qualcosa di proustiano nelle immagini ruvide e melanconiche di Accamòra (In questo momento), il cortometraggio della giovanissima Emanuela Muzzupappa presentato in concorso alla prima edizione del Cinelido, festival dedicato ai cortometraggi fondato da Giulio Mastromauro, Andrea Cicini e Alberto De Angelis e organizzato da Zen Movie al Porto Turistico di Roma. Al Cinelido Accamòra ha vinto il premio per il miglior attore andato ai due protagonisti, Carmelo Macrì e Giovanni Spanò.
Con diverse metafore, come il rito estivo della raccolta dei fichi (contemporaneamente faticoso e dolce) o l’aneddoto dell’arcobaleno e dei bossoli dei proiettili del fucile (un gioco innocente dell’infanzia legato però a qualcosa, come i bossoli, che è concettualmente opposto alla purezza infantile), Emanuela Muzzupappa affronta con semplicità un concetto profondo come quello dell’ineluttabilità del tempo, dandogli un sapore familiare.
Come nasce Accamòra?
Accamòra nasce in un momento difficile della mia vita e infatti conserva qualcosa di molto autobiografico. In quel periodo, io e tutta la mia famiglia temevamo che il terreno che aveva sempre fatto da sfondo alla mia infanzia, potesse essere venduto; inoltre, per una serie di vicissitudini, da Roma sono dovuta ritornare a vivere in Calabria. Mi sono sentita mancare la terra sotto i piedi, sia metaforicamente che letteralmente. Accamòra racchiude quei sentimenti di estrema paura e perdita di ogni certezza, assieme a quel sapore dolce e amaro che il passaggio dall’infanzia all’età adulta porta con sé e che la perdita di quel terreno, che conservava tutti i miei ricordi da bambina, ha esemplificato.
Sia a livello di dialoghi che di regia, si ha la sensazione di giocare con un non detto, cosa volevi enfatizzare?
È una scelta stilistica con la quale volevo far sentire lo spettatore che qualcosa che non va. Il non detto, inoltre, è anche il riflesso del mio dolore e di come, in quel momento, ho vissuto i rapporti familiari, il tentativo degli adulti di trattenere informazioni al fine di proteggere l’altro. Così ho “puntellato” il corto con gli sguardi del fratello maggiore che dissimulano, ma ci segnalano anche la presenza di qualcosa da cui però siamo ancora esclusi.
Già dal titolo fai riferimento a un “qui ed ora”: che ruolo ha il tempo all’interno del tuo racconto?
Nel corso del film il protagonista vive costantemente dei momenti che non fanno che finire e il rito della raccolta dei fichi è rappresentativo di tutto questo, proprio perché ha un inizio e una fine. Un’idea che arriva al culmine quando il ragazzo ritrova i cimeli d’infanzia che sono anche visivamente sepolti da un telo e che rappresentano un momento che ha già avuto fine. La parola “accamòra” vuole rappresentare perciò proprio l’incedere molto lento di un tempo che finisce e ricomincia continuamente, che sembra mettere un punto, ma poi riparte.
È per questo che hai scelto un finale aperto?
Sì, da un lato il finale aperto mi serviva perché proprio lo scorrere del tempo non può essere descritto come qualcosa che ha una fine, dall’altro lato volevo enfatizzare, anche con lo sguardo e la domanda senza risposta del giovane protagonista, quella sensazione di dolore e insieme dolcezza che porta con sé la consapevolezza. Il finale aperto rendeva questo binomio tra la bellezza e la malinconia, come quando si pensa a un ricordo passato e sei felice perché il ricordo è bello, ma al contempo triste perché non c’è più. Anche ciò che releghiamo alla quotidianità avviene in quel preciso attimo: inizia, ma è destinato a una fine e se ciò per un verso ci “toglie la terra sotto i piedi”, per un altro ci fa capire l’importanza di ogni singolo momento.
Il concetto di “grassofobia” è una nozione che negli ultimi anni si sta pian piano dilagando nei social, con numerose modelle o attrici o figure di spicco che si oppongono al “body shaming”. Ultime fra queste Kate Winslet che ha accusato l’HBO di “fat shaming” per aver photoshoppato la sua pancia in occasione del poster pubblicitario di Mare of Eastown. La lotta contro l’idea che sia necessario avere un corpo sempre perfetto e impeccabile naviga sul web a una velocità impressionante, spesso però perdendo “corporeità” ed è proprio per questo che un film come Mi chiedo quando ti mancherò, uscito in sala il primo luglio, assume ancora più importanza.
Tratto dal romanzo di Amanda Davis, Wonder When You’ll Miss me, e coprodotto con la Slovenia, il secondo lungometraggio di Francesco Fei (che nel frattempo ha dedicato la sua carriera a numerosi videoclip e documentari) vede come protagonista Amanda, una liceale che si ritrova a lottare contro lo stigma di non avere un corpo “magro”. Stigma che non solo la isola (aspetto in effetti già trattato in diversi film statunitensi), ma che la catapulta dentro violenze sempre più gravi, che se per chi si è trovato in una situazione simile a quella della protagonista non hanno nulla di scioccante, allo stesso tempo permettono ai restanti spettatori di comprendere la gravità di un dramma del genere.
Seguiamo così la giovane protagonista in una fuga, raccontata con numerosi flashback che disvelano a mano a mano cosa le è successo, ma soprattutto come si sente. Amanda, infatti, in seguito a una “sfida” che la vede coinvolta in un episodio molto simile al revenge porn, si spezza, scindendosi in due. Improvvisamente mostra la sua voglia di non stare in silenzio e subire, di non essere semplicemente gentile, ma di essere irriverente, audace e forte. Giunta in un circo, incomincia pian piano a capire cosa voglia davvero e, di conseguenza, cosa debba fare per riunire i pezzi della sua vita e poter andare avanti, sebbene ciò la porti a un necessario addio a una parte di sé (da qui il titolo), ponendo fine a quella scissione tra ciò che si è davvero e ciò che si è secondo il pensiero stereotipato degli altri.
La penna di Chiara Barzini, Luca Infascelli e dello stesso Francesco Fei non si limita semplicemente a tracciare la vicenda di Amanda, ma ci porta visivamente dentro questa scissione, senza mai fare ricorso all’uso di una spiegazione verbosa. Ed è proprio per questo, infatti, che il concetto di “body shaming” assume nuovamente tutta la sua forza. Sia a livello di sceneggiatura che di regia, infatti il racconto trova un modo elegante e profondo di entrare nei pensieri di Amanda, nelle sue gestualità, in ogni sua piccola piega, a partire dal battito cardiaco iniziale, fino al modo in cui la macchina da presa si sofferma a presentare la propria protagonista non nella sua totalità, ma attraverso piccoli dettagli.
Dettagli sia visivi, che narrativi, come per esempio il camion dove appare la scritta “Thelma” (in riferimento proprio a Thelma e Louise, ma, non a caso, senza Louise), la cover del cellulare, o il fatto che decida di chiamarsi “Annabella”, sottolineando come voglia con tutte le sue forze ricominciare una nuova vita per essere semplicemente “bella”. Concetto, quello della bellezza, come quello della diversità, che con sottigliezza e dolcezza percorre tutto il film, ricordando a tratti le famose parole di De Gregori e della sua Donna cannone.
La bellezza di Mi chiedo quando ti mancherò risiede proprio nella semplicità in cui mostra tutto questo, ricorrendo, appunto, a piccole sfumature di stile che giocano più sul visivo che sul parlato (d’altronde “Show, don’t tell” diceva un grande maestro del cinema come Hitchcock). Questo aspetto, che si manifesta armoniosamente dalla scrittura, alla regia, alla fotografia (che abilmente gioca con le ombre e le luci sul volto e intorno alla protagonista), insieme alla recitazione intensa di Beatrice Grannò, ma soprattutto di Claudia Marsicano, rende l’opera di Francesco Fei un film che supera le barriere di genere (del classico teen movie). Così, nelle note dolci e amare del finale, voliamo via anche noi, non più solo pensando, ma capendo realmente che cosa significhino la grassofobia, il body shaming e il bullismo, nell’ipocrisia generale e nella forza di chi, rialzandosi a testa alta, si chiede se alla fine le mancherà quella parte vulnerabile di sé che, canticchiando, saltella sotto un ombrello arcobaleno.
Cosa succede se a trent’anni, dopo essere sempre stati all’interno di una relazione, ci si ritrova improvvisamente single? Da questa premessa parte Maschile singolare, opera prima di Giuseppe Paternò Raddusa (alla sceneggiatura), Matteo Pilati (sceneggiatore, regista e produttore) e di Alessandro Guida (sceneggiatore e regista) con con Giancarlo Commare, Eduardo Valdarnini, Gianmarco Saurino, Michela Giraud, Lorenzo Adorni. Un racconto frizzante, che tratta temi contemporanei attraverso una struttura classica, ma mai scontata. Maschile singolare, disponibile dal 4 giugno su Amazon Prime Video, è un film che fa commuovere e divertire il pubblico, ottenendo ottimi riscontri. Ne abbiamo parlato con i tre autori in una conversazione a più voci.
Come è nato il progetto?
Giuseppe Paternò Raddusa: L’idea era quella di colmare un vuoto della narrazione cinematografica, ovvero l’assenza di una storia classica con all’interno personaggi appartenenti alla comunità LGBTQ+. La maggioranza di noi è cresciuta guardando film impostati sul viaggio dell’eroe, con determinati archetipi, e il mio dubbio è stato: è possibile svecchiare questi archetipi, modernizzandoli e inserendoli nella sfera queer? A questo punto, ho scritto a Matteo e abbiamo iniziato a lavorare e a ragionare su una storia che potesse ben agganciarsi a questo tipo di narrazione. Abbiamo perciò deciso di partire da una situazione sempre presente in questa tipologia di racconto: l’abbandono da parte della persona amata. Arrivati a una prima stesura soddisfacente della sceneggiatura abbiamo deciso di coinvolgere Alessandro, che si è mostrato subito interessato.
Alessandro Guida: Sì, perché ho da subito pensato che il tema di fondo (essere single a trent’anni) fosse un’idea con un grande potenziale d’immedesimazione da parte del pubblico, ma allo stesso tempo poco esplorata nel cinema italiano. Quando ho letto la prima stesura ero a un matrimonio e mi sono reso conto che spesso le persone tendono ad associare l’essere single a quell’età come sinonimo di essere soli. Invece in Maschile singolare questo assunto viene scardinato dalle scoperte che Antonio fa mentre sta ricercando se stesso in un percorso paradossalmente all’incontrario rispetto al solito. Ci siamo messi subito al lavoro tutti insieme e Prime Video è stato fondamentale per portare a termine il progetto.
Matteo Pilati: In realtà non avevamo da subito pensato a Prime Video. Già in fase di sviluppo avevamo cercato delle case di produzione interessate, ma si sono tirate tutte indietro vedendo che eravamo degli esordienti per quanto riguardava i lungometraggi. In quel periodo, poi, in sintonia con il nostro protagonista, mi sono ritrovato a perdere anche io un punto fisso. Lavoravo per un’emittente televisiva, ma sono stato licenziato. Allora ho deciso di fare quello che per me era un rischio calcolato, ovvero investire la mia buona uscita in questo progetto. Ci siamo rimboccati le maniche e aiutati da MP Film (una casa di produzione piccola con cui avevano già collaborato Alessandro e Giuseppe), abbiamo iniziato a formare il cast, a fare numerose prove e poi abbiamo girato il film in tre settimane, tra il gennaio e il febbraio del 2020. Quando abbiamo finito la postproduzione, che abbiamo dovuto fare totalmente da remoto, abbiamo avuto ulteriori problemi a trovare una distribuzione perché, nonostante venisse riconosciuto il potenziale del film, il periodo attuale è ancora molto incerto per quanto riguarda le uscite in sala ed è qui che, come diceva Alessandro, siamo stati fortunati a trovarci in una situazione nuova rispetto a quella del mercato audiovisivo del passato, ovvero in cui piattaforme come Prime Video stanno dando sempre più spazio ai giovani e a progetti originali.
Uno dei motivi dell’originalità del film è proprio il porre al centro l’incertezza che caratterizza l’età di transizione che si vive tra i venti e i trent’anni. Come avete costruito il personaggio di Antonio?
Alessandro: Questo focus lo abbiamo reso anche con il montaggio, che è sempre una forma di riscrittura. Abbiamo deciso, infatti, che il montaggio dovesse ricalcare lo stato d’animo del protagonista. Si parte con uno stile più posato perché Antonio è in attesa, e successivamente le scene diventano più frenetiche perché ha una scossa a livello emotivo. Tutto il film è costruito sul suo protagonista anche a livello stilistico. Abbiamo adottato una regia invisibile, nascondendo orpelli tecnici e facendo muovere la macchina da presa solamente con il suo protagonista (non ci sono campi lunghi o dettagli), al fine di far partecipare di più lo spettatore con la sua vicenda, con il suo percorso e con le sue emozioni. Abbiamo lasciato tutto lo spazio alla mimica degli attori, lavorando di sottrazione.
Matteo: Esatto, una sottrazione che di fatto permea il film da tutti i punti di vista, anche nella scelta delle musiche. È stata una cifra stilistica deliberata che voleva mostrare, con la sua delicatezza e la sua semplicità, uno sguardo diverso dal solito e proprio per questo abbiamo lasciato fuoricampo i momenti salienti della storia o anche l’aspetto sessuale, ricalcando appunto le emozioni di Antonio e la sua educazione sentimentale.
Quali sono stati i cambi dalla carta allo schermo?
Giuseppe: Il personaggio di Luca, per esempio, è cambiato molto grazie al lavoro di Gianmarco Saurino (inizialmente il suo era un personaggio più frivolo, il classico maschio alfa che non s’innamora mai) e al suo stile di recitazione che ricalca il less is more. A lui basta uno sguardo per far capire tutto un mondo interiore con enorme lucidità.
Matteo: Un altro elemento che inizialmente non c’era in sceneggiatura, ma che è emerso durante le prove con gli attori, è quello della musica lirica, che è servita per rappresentare a pieno la sensualità e la libertà a cui auspica Antonio e che rivede in Denis. Nel finale, infatti, i mondi di Antonio e Denis collidono, e la musica d’opera diventa cantata in chiave moderna.
Classe 1983, Alessandro Grande ha presentato il suo primo lungometraggio, Regina, all’ultimo Torino Film Festival, unico titolo italiano in concorso: il film è finalmente ora in sala, dopo il lungo stop dovuto al lockdown.
Regina nasce dal bisogno di elaborare il trauma contemporaneo del conflitto generazionale tra genitori (assenti o privati del loro ruolo) e figli (oppressi da un profondo senso di colpa). Per il giovane regista, d’altronde, è proprio a questo che serve il racconto per immagini, a esternare dei sentimenti e delle emozioni che, per trovare la loro massima espressione e libertà, hanno bisogno di spingersi oltre i limiti della carta e della scrittura. Un lavoro, dunque, quello del regista, che Alessandro Grande vede proprio come un’urgenza personale: «È un discorso di sensibilità. Portare avanti un film o un corto richiede uno sforzo di energie tale che devi necessariamente credere in quello che racconti e, per farlo, ciò deve per forza nascere da un bisogno soggettivo di esplorare determinate corde del nostro animo, dei nostri pensieri, del nostro mondo interiore».
Cosa ti ha spinto a scegliere la strada della sceneggiatura e della regia?
Il cinema, prima di intraprendere il percorso universitario, lo percepivo solo come un intrattenimento: qualcosa di affascinante, ma totalmente distante da me. Durante l’università, però, mi ci sono avvicinato in modo più approfondito e ho capito che era ciò che volevo fare nella vita. Così, quasi in punta di piedi, ho realizzato un primo cortometraggio: una rivisitazione de La sequenza delfiore di carta di Pier Paolo Pasolini [episodio del film collettivo Amore e rabbia, 1969 ndr], in chiave contemporanea e totalmente opposta rispetto all’originale, per dimostrare come la tematica fosse talmente universale da mantenere comunque intatta la stessa valenza significativa. Da quel momento, ho incominciato un vero e proprio percorso nel cinema breve, che poi è terminato nel 2018 quando ho vinto il David di Donatello con Bismillah.
Regina è il tuo primo lungometraggio, come sei arrivato all’elaborazione di un’opera più lunga?
Alla base c’era la volontà di intraprendere un ulteriore step nella mia vita professionale e artistica. Con i corti avevo già toccato diversi argomenti, per cui sentivo l’esigenza di raccontare una storia a più ampio respiro. Tutto ciò è avvenuto in maniera abbastanza naturale, per cui non mi sono posto il problema della durata, mi sono invece lasciato andare liberandomi da ogni vincolo di tempo.
In Regina è molto interessante il ruolo genitoriale che emerge, dove i padri partono e le madri sono assenti. Cosa puoi dirci a riguardo?
Se l’assenza della figura materna è un aspetto che sto ancora cercando di metabolizzare per ampliarlo in futuro, in Regina emerge soprattutto l’idea di un conflitto generazionale tra un padre e una figlia che si ritrovano, da soli, a dover superare insieme un percorso di crescita. Lui deve diventare uomo e padre, prendendosi le sue responsabilità; lei deve, invece, fare i conti con un peso che è più grande di lei, un enorme senso di colpa. Questi due aspetti, emersi già durante l’ideazione del soggetto, si sono rafforzati quando ho letto Il complesso di Telemaco di Recalcati. Grazie a questo saggio, sia io che lo sceneggiatore Mariano Di Nardo ci siamo maggiormente resi conto di quanto oggi ci sia sempre più bisogno di genitori che si assumano la propria responsabilità e di quanto i figli necessitino, per crescere, di una figura che possa guidarli e indirizzarli per non andare allo sbando.
Fin dall’inizio Regina appare come un’adulta che si prende cura del padre. Cosa puoi dirci rispetto al percorso di crescita di Regina e Luigi?
Ogni personaggio deve avere un carattere e un pensiero, deve essere reale. Abbiamo perciò deciso di costruire questi due personaggi in modo che fosse già da subito chiaro chi sono e come reagiscono. Se Regina non fosse stata caratterizzata da questo suo senso di responsabilità fin dall’inizio, se non fosse stata più matura e sensibile rispetto alla sua età, non avrebbe capito l’importanza di quello che è successo. Non avrebbe provato un enorme senso di colpa dal quale cerca di liberarsi durante tutto il racconto, salvo poi rendersi conto che è più grande di lei. Subentra allora il padre e il suo percorso di redenzione, generato proprio dall’impossibilità di Regina di accettare la realtà. I due personaggi compiono un percorso di crescita complementare.
Parlando più nello specifico della messinscena, ci sono numerose inquadrature che sostano su spazi vuoti, perché questa scelta visiva?
Essendo una regia totalmente al servizio degli attori e fatta di piani sequenza, sostare su degli spazi vuoti serviva per creare delle pause dal portato emotivo, ma anche per permettere allo spettatore di avvicinarsi ai personaggi, facendolo quasi entrare all’interno della scena. È dunque uno stile che ho deciso di sperimentare fin da subito: ero conscio dei rischi, soprattutto a livello di ritmo, ma ero sicuro che raccontandolo in questo modo avrei potuto far affezionare di più lo spettatore alle vicissitudini dei protagonisti.
Come hai costruito sul set il rapporto di complicità tra i due attori, Ginevra Francesconi e Francesco Montanari?
Sono due attori che hanno sposato in pieno il progetto, nonostante le difficoltà derivate dall’utilizzo costante del piano sequenza. Abbiamo fatto molte prove, siamo entrati nella mente dei personaggi: Ginevra ha addirittura preso lezioni di canto e di chitarra con il maestro Bruno Falanga, che poi ha fatto le musiche del film. Anche Francesco è stato bravissimo a spogliarsi di ogni restrizione e a mettersi a nudo per dare vita a un personaggio normale e non caricaturale, assolutamente reale come io desideravo.
Se si pensa a qual è una delle figure emblematiche nel panorama letterario italiano, non può non venir in mente il nome di Gabriele D’Annunzio. Figura da sempre associata al fascismo, ma, allo stesso tempo, unico uomo in grado di far tremare il regime dittatoriale instaurato da Mussolini, che, con il Vate, decide di intraprendere una “cordiale inamicizia”, paragonandolo a «un dente malato, che o lo si ricopre d’oro o lo si estirpa».
Da questa consapevolezza filologica parte il primo lungometraggio di Gianluca Jodice (regista e sceneggiatore), Il cattivo poeta, un film che si colloca in quel filone di opere contemporanee – di cui Matteo Rovere (qui in veste di produttore) è un anticipatore – che vedono nella storia italiana un substrato ricco di linfa per il cinema.
Con un tocco intimo, posato e artigianale, Gianluca Jodice conduce lo spettatore nell’intimo di un protagonista scomodo e controverso della nostra cultura, decidendo però di mostrarlo da un punto di vista originale. La sinuosità della macchina da presa si affianca, infatti, a Giovanni Comini (interpretato con delicatezza e discrezione da Francesco Patané, al suo debutto sul grande schermo), il cui occhio si pone allo stesso livello di noi spettatori: ospite silenzioso all’interno di un’amara e malinconica visione, quella di D’Annunzio (incarnato da un camaleontico Sergio Castellitto), che rimane però un eterno soggetto onnipresente e fuoricampo allo stesso tempo.
In ciò, diventa fondamentale non solo lo scontro/incontro con Comini, che rappresenta tutto ciò che D’Annunzio stesso era e che ha ormai perso (se il primo ha più futuro che passato nelle proprie vene, il secondo ha invece più passato alle spalle che futuro davanti), ma anche il Vittoriale, luogo deputato in cui il poeta, finanziato da Mussolini, si era posto in auto-esilio, in attesa di quell’ultimo sussulto di vitalità, rappresentato proprio dall’incontro con la figura del giovane federale fascista.
Jodice e Rovere – come hanno sottolineato nella conferenza stampa di presentazione – fotografano il Vate in quel logorante cul de sac nel quale il poeta decadente si è rinchiuso in un vortice di ossessioni che lo hanno trasformato in un recluso, in un mitologico Nosferatu (nota Rovere), che riversa la propria anima tormentata dentro la geografia dello spazio che abita (quasi come in uno sperduto “deserto dei tartari”). Spazio che non viene visto tanto come un deposito d’antiquariato, ma come un luogo archeologico di potenza, decadenza e desiderio vitale.
La regia, all’opposto, decide di essere pulita e controllata, al fine di lasciar scolpire la figura del Vate non tanto tramite eventi o dialoghi (che, in ogni caso, la sceneggiatura ricostruisce con un lavoro meticoloso di documentazione), ma attraverso un’estetica affidata all’evocazione fotografica e scenografica (curate rispettivamente da Daniele Ciprì e Tonino Zera), in grado di restituire un taglio antico e classico con tonalità profonde come il giallo, il verde e il nero, che richiamano in più occasioni i dipinti metafisici di De Chirico.
Il cattivo poeta (coproduzione italo-francese che arriva oggi, con duecento copie, nelle sale) è dunque un’opera che si sgancia dal contemporaneo alla ricerca di nuovi codici, che tengano però sempre presente il tessuto culturale in cui siamo immersi. In questo contesto, sebbene l’aspetto filologico, soprattutto all’inizio, risulta eccessivamente pressante, si viene a delineare un film “epidermico”, dove, più che le parole, a risuonare sono le immagini
Un’inquadratura che si allarga, cercando la messa a fuoco sul terreno e sul riflesso di una pozzanghera. Così inizia Zero (trailer), la nuova serie italiana originale Netflix, coprodotta da Fabula Pictures (che aveva già collaborato con Netflix con Baby) e Red Joint Film (Zero rappresenta il primo progetto di questa giovane società di produzione, nata a Milano nel 2018) e liberamente ispirata al romanzo, edito da Mondadori, Non ho mai avuto la mia età di Antonio Dikele Distefano, una delle stelle nascenti nel contemporaneo panorama editoriale italiano. La ruvidezza dell’asfalto e della lente della macchina da presa, che cerca una precaria stabilità, esprime fin da subito come la serie voglia agganciarsi alla realtà con uno sguardo rivolto verso i margini. Il movimento d’apertura mostra, in modo chiaro e conciso, cosa Zero vuole essere e donare ai propri spettatori, allontanandosi da un primo misunderstanding che la tagline di presentazione – “Essere invisibile è il vero potere” – potrebbe creare nel suo ipotetico pubblico. Ma facciamo un passo indietro.
Zero nasce dalla mente di Menotti (qui in veste di showrunner), che s’ispira al romanzo di Distefano, portandolo però nel suo mondo: quello dei fumetti e dei supereroi periferici italiani (come nel celebre Lo chiamavano Jeeg Robot, del quale ha curato la sceneggiatura). L’idea di parlare di un supereroe nero e al contempo di una persona comune alletta subito la mente di Distefano, che quindi accoglie il progetto, non solo come autore del romanzo di partenza (di cui la serie, però, mantiene solo il mood dei personaggi), entrando a far parte attivamente anche del gruppo di sceneggiatura. Il motivo di questa enfasi, però, come ha sottolineato il giovane autore alla conferenza stampa di presentazione dei primi quattro episodi, non è legato tanto al concetto della diversity, ma a quello della normalizzazione di qualcosa che è già nel quotidiano, anche se si fa ancora fatica a percepirlo come tale.
In questo tentativo di normalizzazione si sceglie allora come protagonista un rider. Se, in un primo momento, questa scelta, visto che la serie è ambientata a Milano, può richiamare alla mente l’attuale situazione pandemica, subito sia Distefano che i quattro registi (Paola Randi, Mohamed Hossameldin, Margherita Ferri e Ivan Silvestrini) specificano un intento differente. Il rider rappresenta, nella realtà di tutti i giorni, il cliché dell’invisibilità: di coloro che, senza nome, sono identificati semplicemente come “quelli della pizza”. Su questo concetto verte tutto il primo episodio, che vedrà il protagonista, Omar (Giuseppe Dave Seke), presentarsi agli spettatori solo a metà puntata, quando incontra Anna (Beatrice Grannò), una ragazza che a un primo sguardo può sembrare totalmente diversa da lui, ma con il quale condivide, invece, questo dramma giovanile dell’invisibilità.
L’invisibilità, che nella serie da stigma vuole diventare un potere (ispirandosi, ha detto Distefano, a Ferro tre, in cui il protagonista ha la capacità di diventare invisibile quando si emoziona), si trasforma quindi in una metafora più ampia. Non solo simbolo di un lavoro, quello dei rider, ma anche simbolo di una generazione, qui rappresentata con una doppia valenza. Intanto, si parla di una seconda generazione a cui appartengono lo stesso Distefano, ma anche quasi tutto il cast d’attori (a Seke vanno aggiunti Haroun Fall, Daniela Scattolin, Virginia Diop, Richard Dylan Magon e Madior Fall): ragazzi italiani, che però vengono ancora identificati come “quelli nuovi” («A ventott’anni, tutto mi sento eccetto che ancora “nuovo”», afferma il giovane scrittore alla conferenza stampa). Così, questa generazione diventa invisibile, perché considerata non abbastanza italiana, sebbene ne condivida mentalità e gusti culturali, né abbastanza straniera dalla propria famiglia d’appartenenza. Rispetto a quest’ultimo punto, già nelle prime linee di dialogo del primo episodio il protagonista sottolinea come l’incomunicabilità che ha con il padre non sia solo una questione di lingua. Qui, si apre allora allo spettatore la seconda valenza del termine “generazionale”.
L’invisibilità infatti non è quella solo della seconda generazione, ma in generale di tutti i ragazzi troppo timidi per avere il coraggio di affermare fortemente e ad alta voce le proprie scelte e i propri pensieri. L’invisibilità diventa quindi un segno di riconoscimento per una fascia di pubblico ancora più vasta, che si cerca di agganciare anche tramite una regia energica che stimola lo spettatore (rimediando a dialoghi spesso troppo didascalici, che funzionano meglio su carta che su schermo). Si ha dunque un piano d’ascolto emotivo particolarmente forte che, tornando alla figura del rider, trova un’ampia risonanza nella rappresentazione della città e, nello specifico, nella periferia (Zero è ambientata nel Barrio, quartiere periferico di Milano). Un ambiente anche questo, popolato dai giovani, spesso invisibile e che la nuova cultura musicale ha pian piano iniziato a far emergere.
Ruolo centrale nella serie, che vuole trattare una “storia di strada”, è quello assunto dalla colonna sonora, che si scandisce tra le musiche ideate appositamente da Yakamoto Kotzuga (già autore della colonna sonora di Baby), ai brani di Mahmood (che per la serie ha composto anche un inedito e che ha ricoperto il ruolo di musicsupervisor dell’ultimo episodio), fino ad arrivare a quello scenario che si muove tra R&B, urban, rap e trap.
Insomma, Zero (le cui prime quattro puntate su otto escono oggi su Netflix) è una serie che, nel raccontare la storia di un ragazzo timido con lo strano superpotere di diventare invisibile ogni qualvolta provi una forte emozione, cerca di allargare il panorama audiovisivo nostrano, per i protagonisti che sceglie, la regia e il genere che si apre al fantasy, seppur lasciandolo ancorato, tramite il racconto di formazione, a una realtà totalmente italiana e quotidiana.