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La terra dell’abbastanza: vivere o morire con i fratelli D’Innocenzo

l percorso dei fratelli D’Innocenzo, gemelli ventinovenni provenienti da Tor Bella Monaca, ha poco a che fare con quelli più tradizionali che generalmente conducono i giovani registi a esordire nel lungometraggio. Sembra incredibile, infatti, ma senza una scuola di cinema o un solo corto alle spalle, Damiano e Fabio sono riusciti nell’impresa di realizzare il loro primo film, presentato con successo qualche mese fa al Festival di Berlino nella sezione Panorama. La terra dell’abbastanza (qui il trailer ufficiale), nei cinema italiani a partire dal 7 giugno e già venduto in diversi paesi stranieri, racconta una storia molto dura attraverso un approccio antiretorico e sorprendentemente autentico, che permette un’immersione completa dello spettatore nelle vicende narrate. Per approfondire il lavoro fatto sul film e la loro visione della settima arte, abbiamo conversato a lungo con i generosi e instancabili fratelli, che oltre ad aver recentemente collaborato con Garrone per Dogman, hanno già pronta la prima stesura della sceneggiatura del prossimo progetto: un western sui generis che affronterà il tema archetipico del rapporto tra uomo e donna, le cui riprese sono previste per maggio dell’anno prossimo.

Del neorealismo il teorico Christian Metz sottolineava la capacità di far emergere «istanti di verità», riconducibili a una «verità di un atteggiamento, di un’in essione di voce, di un gesto, di un tono». Mi sembra che La terra dell’abbastanza abbia intimamente a che fare con questo concetto e sia in grado così di sprigionare un notevole grado di realismo.

Damiano: Cogli un aspetto importante. Per ricreare un forte effetto di realismo abbiamo puntato molto su componenti che forse non saltano immediatamente all’occhio, come la scenografia di Paolo Bonfini, la fotografia di Paolo Carnera e i costumi di Massimo Cantini Parrini. Si è trattato di un grande lavoro di squadra. L’obiettivo era quello di raccontare la nostra storia evitando tanto le edulcorazioni quanto, come ad esempio si è visto di recente in qualche film italiano, l’elogio al contrario di una periferia brutta e sciatta mostrata solo attraverso colori grigi e mancanza di linee prospettiche.

Fabio: C’è una profonda differenza tra il reale, che è una cosa che non mi piace per nulla al cinema, e il realistico, che invece è una cosa che adoro. Il film, anche dal punto di vista figurativo, ha degli elementi non puramente reali ma trasfigurati, dei primi piani e delle luci particolari che sono più sensoriali che reali. Cos’è veramente realistico, in fondo? L’emozione. E l’emozione spesso si lega al ricordo, che a propria volta si lega a pochissimi elementi che ci restituiscono un evento non in maniera nitida e oggettiva, ma attraverso il filtro del nostro stato d’animo connesso a quel particolare momento. Fare cinema nella nostra visione è proprio cercare di filmare il realismo, laddove però per realismo si intende una sorta di realismo antropologico, delle emozioni e delle percezioni.

La regia si alimenta soprattutto di primi piani e inquadrature ravvicinate, a cui si aggiungono inquadrature larghe sul contesto della periferia. Come avete lavorato sullo stile per ottenere un coinvolgimento così potente dello spettatore?

Fabio: È stato il film stesso a suggerirci la linea da seguire dal punto di vista estetico. Avendo scritto una storia che viaggia in parallelo con il protagonista e ha la carica immersiva molto forte di cui parli, era naturale andare a scavare sui primi piani per cercare di leggere quello che i personaggi stavano vivendo. Più che i fatti che si succedono, ci interessava mettere in luce come essi vengono percepiti dai personaggi. L’intento era di indagare il loro pensiero, la loro emotività, il loro senso di colpa e questa cosa era possibile farla solo standogli fisicamente addosso con la macchina da presa.

Damiano: Il nostro approccio alla regia è stato anche istintivo e lo vedo molto legato alla grande passione che abbiamo per il disegno. Disegnando entrambi da moltissimi anni ed essendo abituati a selezionare velocemente ciò che deve essere visibile o meno su carta, generalmente abbiamo un’idea piuttosto chiara di cosa vogliamo o non vogliamo mostrare in un’inquadratura. A proposito del contesto della periferia cui accennavi rispetto ai campi lunghi presenti nel film, ci tengo a dire che per noi La terra dell’abbastanza è un film che tratta essenzialmente il tema dell’amicizia, in maniera credo profonda e spero anche un po’ contraddittoria. Abbiamo deciso di ambientarlo in periferia perché è un mondo che conosciamo bene, ma si tratta semplicemente di uno sfondo.

Le interpretazioni di Matteo Olivetti e Andrea Carpenzano sono sorprendenti, così convincenti da sembrare quasi che i due attori interpretino se stessi. Come li avete guidati in questo percorso di immedesimazione?

Fabio: Il nostro copione, per il modo in cui descriveva odori, sensazioni ed emozioni dei personaggi, più che una sceneggiatura sembrava un romanzo. Sapevamo che diverse delle cose scritte non sarebbero state materialmente filmabili, ma hanno rappresentato un punto di riferimento importante tanto per gli attori quanto per i vari caporeparto. Matteo e Andrea non provengono dalla periferia ma conoscono benissimo la vita, hanno una grande curiosità nei confronti delle persone e dei loro mondi. Da questo punto di vista li vedo quasi come due antropologi: possiedono una sensibilità estrema e una capacità di capire l’animo umano che è veramente ammirevole.

Damiano: Io e Fabio abbiamo avuto diverse esperienze nel mondo del teatro collaborando con personaggi come Valerio Binasco ed Elena Arvigo. Tante figure del teatro contemporaneo conosciute nel corso degli anni ci hanno in influenzato per quanto riguarda la direzione degli attori. La cosa che non mi sarei mai aspettato lavorando con due ragazzi giovani come Matteo e Andrea era riuscire con una tale naturalezza e facilità a creare un dialogo così profondo e stimolante. Sicuramente in futuro continueremo a lavorare con entrambi, perché è stata un’esperienza molto bella.

Il film è prodotto da Pepito Produzioni con RAI Cinema e con il sostegno del MIBACT e della Regione Lazio. Come è nata invece la collaborazione con Matteo Garrone per Dogman? Come siete entrati in contatto con un regista del suo calibro?

Fabio: Ci siamo incontrati per caso una sera a cena, abbiamo avuto l’opportunità di parlare molto di cinema e fra noi è emersa subito un’affinità. Matteo proprio in quel momento stava scegliendo il nuovo progetto a cui dedicarsi. Dogman lo portava avanti da dieci anni, da prima di Gomorra. Ci ha fatto leggere le differenti stesure del film, e con lui e con i suoi sceneggiatori Massimo Gaudioso e Ugo Chiti ci siamo messi a lavorare su quel materiale. Essendo la storia ambientata in una periferia, che poi in realtà è andata progressivamente trasformandosi in una periferia dell’anima, una sorta di non-luogo, il nostro contributo è stato quello di fare in modo che dialoghi e situazioni risultassero reali. Le sceneggiature a casa di Matteo si scrivono attorno a un tavolo, quasi ad alzata di mano, ed è tutto ben pianificato. Io e Damiano dicevamo la nostra, rilanciavamo idee su personaggi che non c’erano nelle prime versioni, davamo tutto quello che potevamo offrire. Matteo ci ha fatto un regalo davvero straordinario.

Damiano: La nostra collaborazione alla scrittura di Dogman è durata circa due mesi. Tutti i giorni lavoravamo dalle 10 alle 18. Si spegnevano i telefoni e c’era solo una piccola pausa per andare in mensa a pranzare. Lavorare con Matteo ci ha fatto capire tanto sul cinema, che non è come spesso si dice una cosa per pochi eletti o per chi ha un dono particolare, ma più di ogni altra cosa presuppone impegno e lavoro quotidiano. A proposito del nostro primo incontro, ricordo che appena ci ha visto alla cena ci ha squadrato e ci ha detto che avremmo potuto fare gli italo-americani in un film. Noi gli abbiamo raccontato che stavamo preparando il nostro primo lungometraggio, lo abbiamo incuriosito e così ci ha chiesto se volevamo seguirlo in un altro locale dove stava andando. È iniziato tutto in questo modo e alla fine ci siamo ritrovati a collaborare con lui nella sua casa agli Studios della Tiburtina. Un sogno.

La terra dell’abbastanza: un esordio che lascia il segno

Ecco un’anticipazione della lunga intervista che Luca Ottocento ha fatto ai fratelli D’Innocenzo, autori di un’opera prima che ha fatto gridare al miracolo già molti critici. Troverete l’articolo completo sul prossimo numero di “Fabrique du Cinéma”.

Mirko e Manolo sono due ragazzi della periferia romana senza prospettive che, dopo un improvviso incidente, vedono la loro vita cambiare per sempre e si ritrovano invischiati nel mondo della criminalità. Alla loro opera prima, Damiano e Fabio D’Innocenzo dimostrano subito un innegabile talento per la scrittura e la messa in scena. Non a caso, Matteo Garrone li ha voluti al proprio fianco nel suo ultimo film.

Il percorso dei fratelli D’Innocenzo, gemelli ventinovenni provenienti da Tor Bella Monaca, ha poco a che fare con quelli più tradizionali che generalmente conducono i giovani registi a esordire nel lungometraggio. Sembra incredibile, infatti, ma senza una scuola di cinema o un solo corto alle spalle Damiano e Fabio sono riusciti nell’impresa di realizzare il loro primo film, presentato con successo al Festival di Berlino nella sezione Panorama. La terra dell’abbastanza, nei cinema italiani a partire dal 7 giugno e già venduto in diversi paesi stranieri, racconta una storia molto dura attraverso un approccio antiretorico e sorprendentemente autentico, che permette un’immersione completa dello spettatore nelle vicende narrate.

La terra dell'abbastanza, Matteo Olivetti e Andrea Carpenzano

Per approfondire il lavoro fatto sul film e la loro visione della settima arte abbiamo conversato a lungo con i generosi e instancabili fratelli, che oltre ad aver recentemente collaborato con Garrone per Dogman, hanno già pronta la prima stesura della sceneggiatura del prossimo progetto: un western sui generis che affronterà il tema archetipico del rapporto tra uomo e donna, le cui riprese sono previste per maggio dell’anno prossimo.

La regia si alimenta soprattutto di primi piani e inquadrature ravvicinate, a cui si aggiungono inquadrature larghe sul contesto della periferia. Come avete lavorato sullo stile per ottenere un coinvolgimento così potente dello spettatore?

F: È stato il film stesso a suggerirci la linea da seguire dal punto di vista estetico. Avendo scritto una storia che viaggia in parallelo con il protagonista e ha la carica immersiva molto forte di cui parli, era naturale andare a scavare sui primi piani per cercare di leggere quello che i personaggi stavano vivendo. Più che i fatti che si succedono, ci interessava mettere in luce come essi vengono percepiti dai personaggi. L’intento era di indagare il loro pensiero, la loro emotività, il loro senso di colpa e questa cosa era possibile farla solo standogli fisicamente addosso con la macchina da presa.

D: Il nostro approccio alla regia è stato anche istintivo e lo vedo molto legato alla grande passione che abbiamo per il disegno. Disegnando entrambi da moltissimi anni ed essendo abituati a selezionare velocemente ciò che deve essere visibile o meno su carta, generalmente abbiamo un’idea piuttosto chiara di cosa vogliamo o non vogliamo mostrare in un’inquadratura. A proposito del contesto della periferia cui accennavi rispetto ai campi lunghi presenti nel film, ci tengo a dire che per noi La terra dell’abbastanza è un lungometraggio che tratta essenzialmente il tema dell’amicizia, in maniera credo profonda e spero anche un po’ contraddittoria. Abbiamo deciso di ambientarlo in periferia perché è un mondo che conosciamo bene, ma si tratta semplicemente di uno sfondo.

La terra dell'abbastanza, i registi fratelli D'Inocenzo

Come è nata invece la collaborazione con Matteo Garrone per Dogman? Come siete entrati in contatto con un regista del suo calibro?

F: Ci siamo incontrati per caso una sera a cena, abbiamo avuto l’opportunità di parlare molto di cinema e fra noi è emersa subito un’affinità. Matteo proprio in quel momento stava scegliendo il nuovo progetto a cui dedicarsi. Dogman lo portava avanti da dieci anni, da prima di Gomorra. Ci ha fatto leggere le differenti stesure del film, e con lui e con i suoi sceneggiatori Massimo Gaudioso e Ugo Chiti ci siamo messi a lavorare su quel materiale. Essendo la storia ambientata in una periferia, che poi in realtà è andata progressivamente trasformandosi in una periferia dell’anima, una sorta di non-luogo, il nostro contributo è stato quello di fare in modo che dialoghi e situazioni risultassero reali. Le sceneggiature a casa di Matteo si scrivono attorno a un tavolo, quasi ad alzata di mano, ed è tutto ben pianificato. Io e Damiano dicevamo la nostra, rilanciavamo idee su personaggi che non c’erano nelle prime versioni, davamo tutto quello che potevamo offrire. Matteo ci ha fatto un regalo davvero straordinario.

D: La nostra collaborazione alla scrittura di Dogman è durata circa due mesi. Tutti i giorni lavoravamo dalle 10 alle 18. Si spegnevano i telefoni e c’era solo una piccola pausa per andare in mensa a pranzare. Lavorare con Matteo ci ha fatto capire tanto sul cinema, che non è come spesso si dice una cosa per pochi eletti o per chi ha un dono particolare ma più di ogni altra cosa presuppone impegno e lavoro quotidiano. A proposito del nostro primo incontro, ricordo che appena ci ha visto alla cena ci ha squadrato e ci ha detto che avremmo potuto fare gli italo-americani in un film. Noi gli abbiamo raccontato che stavamo preparando il nostro primo lungometraggio, lo abbiamo incuriosito e così ci ha chiesto se volevamo seguirlo in un altro locale dove stava andando. È iniziato tutto in questo modo e alla fine ci siamo ritrovati a collaborare con lui nella sua casa agli Studios della Tiburtina. Un sogno.

Il talento che piace a Scorsese: Jonas Carpignano e “A Ciambra”

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Nato a New York da madre afroamericana con origini caraibiche e padre torinese vissuto per molti anni a Roma, Jonas Carpignano è cresciuto muovendosi tra la Grande Mela e la provincia della capitale italiana (fra Monte Porzio Catone e Frascati) e oggi è considerato uno dei più promettenti talenti cinematografici emergenti a livello internazionale.

Dopo l’esordio nel 2015 con Mediterranea, in cui raccontava il viaggio di due migranti dal Burkina Faso a Rosarno, distribuito solo recentemente in Italia ma che ha avuto un’ottima accoglienza all’estero e in particolare negli Stati Uniti, il 33enne cineasta italoamericano è nelle sale in questi giorni con la sua seconda opera A Ciambra, presentata con notevole successo allo scorso Festival di Cannes (Quinzaine).

In questo stimolante spaccato della comunità stanziale romena di Gioia Tauro che prende vita attraverso gli occhi del quattordicenne Pio Amato, Jonas Carpignano conferma la tensione verso un cinema di finzione dalla forte impronta realista che non rinuncia alla costante ricerca di uno sguardo cinematografico potente e raffinato. D’altronde, non è certo un caso che il suo talento sia stato riconosciuto da Martin Scorsese, tra i produttori esecutivi di A Ciambra. Con Jonas, che vive da anni a Gioia a stretto contatto con i protagonisti dei suoi film, abbiamo avuto l’opportunità di parlare a lungo di influenze cinematografiche, prossimi progetti e, soprattutto, del suo peculiare modo di intendere e di vivere il cinema.

un'immagine di A Ciambra di Jonas Carpignano

Come sei entrato in contatto con un autore del calibro di Martin Scorsese e qual è stato il suo contributo a livello creativo?

Alcune persone che lavorano con Scorsese, tra cui il suo agente e la sua produttrice, sono sempre alla ricerca di progetti per aiutare i registi emergenti. Alcuni co-finanziatori di questo fondo avrebbero già voluto investire in Mediterranea e dopo averlo visto mi hanno subito comunicato l’intenzione di collaborare con me al secondo film. Per me si è trattato di un sogno e il ruolo di Scorsese è stato molto importante per trovare il giusto equilibrio tra i momenti più narrativi del film e quelli in cui senti di stare vivendo a contatto con Pio e la sua famiglia. Mi ha fatto capire quali erano i momenti più forti e quali i più ripetitivi, sacrificabili in fase di montaggio. Insieme abbiamo ad esempio lavorato molto alla scena della cena, che per lui doveva essere mantenuta senza tagliarla più di tanto in quanto fondamentale per capire i rapporti all’interno della famiglia Amato e i motivi per cui Pio non potrà mai uscire dal suo mondo.

Qual è il cinema a cui ti senti più vicino e quali sono i tuoi punti di riferimento?

Come per la mia storia personale sono legato a più culture, così mi sento vicino a tipi di cinema anche molto diversi tra loro. Non sono uno alla Spielberg che ha sempre saputo di voler fare il regista, ma quello del cinema fin da piccolo l’ho sentito un mondo non lontano da me, anche grazie al rapporto con mio nonno, che ha lavorato molti anni per Carosello ed era sposato con la sorella di Luciano Emmer. Lui mi ha fatto conoscere le opere di Visconti e Bertolucci, due miei grandi punti di riferimento insieme a Rossellini e De Sica. Però sento presente in modo forte anche il cinema americano degli anni Settanta e Novanta, di cui mi nutrivo quando andavo con gli amici nelle sale del Bronx a guardare i film di registi come lo stesso Scorsese, Altman o Coppola.

un'immagine di A Ciambra di Jonas Carpignano

Per quanto riguarda invece i cineasti più contemporanei?

Tra gli italiani sicuramente c’è Alice Rohrwacher, che conosco bene. Stimo tutto quello che fa e mi dà sempre una mano quando mi serve. Adoro poi tutti i lavori di Andrea Arnold, la regista britannica di American Honey e Fish Tank. Tra gli americani, invece, ammiro molto Benh Zeitlin, un carissimo amico che per me è stato sempre come un fratello maggiore. Lavorando con lui in Re della terra selvaggia ho imparato che non c’è necessariamente bisogno di fare un film con una struttura cinematografica tradizionale e solida, ma che è possibile adattare la narrazione ai ritmi del luogo in cui si gira. Passare da assistente di Spike Lee in Miracolo a Sant’Anna al film di Benh mi ha arricchito molto, dandomi la possibilità di toccare con mano due modi di fare cinema assai differenti. Personalmente tento di rimanere fedele a me stesso, seguendo l’influenza del cinema che amo e con cui sono cresciuto. Non riuscirei mai a fare, ad esempio, un cinema asciutto come quello dei Dardenne, che non ha quei momenti surreali e musicali che a me invece interessano molto.

L’uso delle musiche in effetti è molto importante nei tuoi film. In Mediterranea, e ancora di più in A Ciambra, sottolineano i momenti di maggiore intensità emotiva dei protagonisti.

Parto sempre dal presupposto di voler inquadrare i miei personaggi in maniera diversa rispetto a come siamo abituati nel cinema europeo di stampo realista o nei telegiornali. Se si vuole aderire davvero al loro punto di vista e vedere il mondo con i loro occhi è importante cogliere non solo i momenti più drammatici ma anche quelli più leggeri e spensierati, che ci permettono di non perdere delle importanti sfumature della loro esistenza e che spesso sono accompagnati proprio dall’ascolto della musica. Anche per le persone che vivono nelle circostanze più pesanti, la vita non è mai solo una tragedia. Inoltre, la musica pop presente in A Ciambra ci fa sentire queste persone più vicine a noi, dato che è un tipo di musica conosciuta da tutti i ragazzi italiani, da Milano a Gioia Tauro. La componente musicale unisce e permette al pubblico di sentirsi sulla stessa lunghezza d’onda emotiva dei personaggi.

un'immagine di A Ciambra di Jonas Carpignano

Del tuo cinema colpisce molto la capacità di proporre uno sguardo che osserva senza giudicare, oggettivo ma non per questo freddo o distante.

L’idea di fondo alla base del mio cinema è proprio questa: mostrare la vita di alcune persone senza giudicarle. Giudicare è una cosa che non faccio mai e questo si riflette in maniera naturale nel mio modo di intendere il cinema. Ciò che mi interessa davvero è entrare nei mondi che voglio raccontare senza porre un filtro tra pubblico e personaggi, rimanendo il più possibile fedele al loro sguardo. Per questo cerco sempre di evitare di contestualizzare troppo: Pio in A Ciambra non si ferma ad ammirare il mare o non si meraviglia delle cose brutte che lo circondano. Se il contesto per lui non è importante perché lo dà per scontato, allora per me non ha senso soffermarmici. Anche perché nel momento in cui cerchi di dare una visione che va oltre il punto di vista del protagonista, inevitabilmente anteponi una tua opinione e inizi a giudicare. In A Ciambra, così come in Mediterranea, non si ha tempo per giudicare perché si è immersi nel punto di vista dei protagonisti.

Pensi di continuare a vivere a Gioia Tauro lavorando nella direzione di questa tua poetica o ti dedicherai a qualcosa di diverso?

Negli anni ho imparato che per me è essenziale lasciare spazio alla curiosità. Se ci sarà qualcosa in futuro che mi stimolerà cercherò di analizzarla e di spostarmi per farne un film. Forse un giorno un parente di mia madre dei Caraibi mi inviterà nelle Barbados e lì troverò qualcosa che vorrò raccontare. Tutto è possibile nella vita. Detto questo, ora come ora a Gioia Tauro sto molto bene perché ho il tempo di guardare tanti film, leggere libri e ho gli stimoli giusti per continuare a fare il mio lavoro. Se abitassi Roma o New York non troverei tutto questo tempo da dedicare al cinema. In questo momento ad esempio sto scrivendo il mio nuovo film, che sarà ambientato sempre a Gioia Tauro ma racconterà una realtà diversa, quella di una ragazza italiana che vive nel centro storico insieme alla famiglia e deve decidere se rimanere a Gioia o partire. Questa famiglia la conosco da anni, ma nei prossimi mesi cercherò di stare ancora di più con loro per approfondirne ulteriormente la storia.

 

Festival di Cannes 2017: “Dopo la guerra”

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Qui al Festival l’attesa per Dopo la guerra, opera prima di Annarita Zambrano in concorso a Un Certain Regard, era molta e la lunghissima fila di spettatori fuori della sala Debussy per la prima proiezione del film l’ha ampiamente confermato. In molti, come chi scrive, non sono riusciti a entrare e si sono così dovuti accontentare di vedere Dopo la guerra alla proiezione serale.

fotogramma dal film Dopo la guerra di Annarita Zambrano

La forte curiosità intorno all’esordio nel lungometraggio di finzione della 45enne Annarita Zambrano era dovuta a tre fattori in particolare: da una parte si tratta di una coproduzione franco-italiana a prevalenza francese; in secondo luogo la cineasta, romana che vive e lavora ormai da vent’anni a Parigi, viene da una serie di apprezzati cortometraggi presentati nei festival più prestigiosi del mondo, come lo stesso Cannes (Ophelia fu in gara per la Palma d’Oro nel 2013, Tre ore alla Quinzane des Réalisateurs), Venezia (À la lune montante) e Berlino (Andante mezzo forte); infine, Dopo la guerra affronta il delicato tema del terrorismo rosso e il rapporto fra Italia e Francia tra i primi anni Ottanta e i primi Duemila in materia di estradizione e diritto d’asilo.

Dopo aver fatto parte insieme al deceduto fratello di un gruppo terroristico italiano ed essere stato condannato all’ergastolo per l’uccisione di un magistrato, Marco Lamberti (Giuseppe Battiston) si è costruito una nuova vita in Francia, dove per vent’anni ha usufruito del diritto d’asilo garantito a partire dal 1982 dalla dottrina Mitterand. Qui ha avuto una figlia, la 16enne Viola (Charlotte Cétaire), che sa ben poco del drammatico passato del padre. Tutto cambia radicalmente quando nel 2002, in seguito alla decisione del Presidente francese Raffarin di abrogare la dottrina Mitterrand, un insegnante universitario viene assassinato a Bologna. L’ipotesi del governo italiano è che Marco sia la mente dell’attentato e così padre e figlia si trovano all’improvviso costretti a fuggire.

fotogramma dal film Dopo la guerra di Annarita Zambrano

Ambientato tra la Francia e l’Italia, Dopo la guerra si concentra non solo sulla fuga di Marco e Viola ma anche su come le passate attività terroristiche dell’uomo si ripercuotano ancora drammaticamente, a distanza di oltre vent’anni, sulla famiglia italiana: la madre Teresa (Elisabetta Piccolomini), la sorella Anna (Barbora Bobulova), il marito di quest’ultima Riccardo (Fabrizio Ferracane) e la loro figlioletta. Annarita Zambrano evita abilmente di prendere banali posizioni ideologiche e focalizza la propria attenzione sulle sofferenze e il travaglio esistenziale dei vari personaggi. La sceneggiatura, scritta a quattro mani dalla stessa regista insieme a Delphine Agut, colpisce per la solidità e sul piano drammaturgico alterna in maniera particolarmente efficace le vicende francesi e quelle italiane. In questo contesto, i percorsi emotivi dei protagonisti vengono raccontati con delicatezza, senza mai calcare la mano, optando per un approccio asciutto ed essenziale che allontana qualsiasi tipo di enfasi.

fotogramma dal film Dopo la guerra di Annarita Zambrano

Nonostante qualche piccola sbavatura registica iniziale (i primi minuti ambientati all’università e nella palestra in cui Viola gioca a pallavolo non convincono appieno), Dopo la guerra rivela il talento di Annarita Zambrano non solo come sceneggiatrice ma anche dietro la macchina da presa. Affascinanti sono ad esempio alcuni primi piani dedicati a Viola, in primis quello abbinato a un carrello laterale che la ritrae mentre va in bicicletta in uno dei momenti più intensi del film. Accolto da un lungo applauso al termine della proiezione ufficiale, Dopo la guerra uscirà in Italia in autunno e noi di Fabrique vi consigliamo fin d’ora di andarlo a vedere.

 

 

 

Festival di Cannes 2017: “A Ciambra”

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Alla 70a edizione del Festival di Cannes è stato il turno di un’altra attesa opera seconda: A Ciambra di Jonas Carpignano, giovane regista italo-americano già presente due anni fa alla kermesse cinematografica più prestigiosa del mondo con Mediterranea, film di finzione in cui mediante uno stile diretto ed efficace si mostrava l’esperienza dei migranti africani che ogni giorno giungono in Italia nella speranza di una vita migliore.

Un'immagine dal film A Ciambra di Jonas Carpignano

L’esordio del cineasta 33enne, nato a New York da padre italiano e madre afroamericana, aveva ottenuto un’ottima accoglienza alla Semaine de la Critique ed era stato particolarmente apprezzato all’estero e in primis negli Stati Uniti, dove ha ricevuto numerosi riconoscimenti e il plauso di alcune delle testate giornalistiche più importanti. L’attenzione da parte della critica d’oltreoceano avrà senz’altro contribuito a far conoscere l’opera di Carpignano a Martin Scorsese, il quale ha agevolato la realizzazione di questo nuovo progetto attraverso il suo neonato fondo di supporto ai nuovi talenti del panorama internazionale e, come ha affermato lo stesso regista di A Ciambra, in qualità di produttore esecutivo è stato una sorta di guida spirituale prodiga di indicazioni preziose.

Se Mediterranea mostrava le disavventure di Ayiva e Abas dal Burkina Faso a Rosarno, il secondo film di Jonas Carpignano propone uno sfaccettato e stimolante spaccato della comunità stanziale romena di Gioia Tauro, concentrandosi sul quattordicenne Pio Amato e la sua famiglia. A Ciambra, in cui tutti i protagonisti interpretano se stessi, mette in scena fedelmente la quotidianità di questo poco conosciuto microcosmo tra furti per guadagnarsi da vivere e, sullo sfondo, il rapporto con la ’ndrangheta che controlla in maniera più o meno evidente ogni attività della cittadina calabrese.

Un ritratto di Jonas Carpignano

Dopo aver vissuto tra New York e Roma, Carpignano abita a Gioia Tauro ormai da sette anni e negli ultimi cinque ha lavorato al nuovo lungometraggio entrando in stretto contatto con i personaggi del film (Pio aveva già un ruolo in Mediterranea, mentre l’africano Kudous Seihon ne era il protagonista), da lui considerati quasi come una seconda famiglia. Questa intimità ha permesso al cineasta di proporre un inedito racconto “dall’interno”, il più possibile privo di filtri e colmo di umanità, attraverso uno sguardo che si limita a osservare senza giudicare, oggettivo ma non per questo freddo o distante.

A Ciambra è un esempio nobile di cinema del reale che riesce nella complessa impresa di coniugare palpabile autenticità ed evidente raffinatezza stilistica (notevole anche il lavoro di Affonso Gonçalves, montatore tra gli altri degli ultimi film di Jim Jarmusch e Todd Haynes). Siamo certi che in futuro sentiremo parlare ancora di Jonas Carpignano, sperando più nell’immediato che A Ciambra, a differenza di Mediterranea, riuscirà presto a trovare la via della distribuzione italiana.

Festival di Cannes 2017: “Sicilian Ghost Story”

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A quattro anni di distanza dal sorprendente esordio con Salvo”, Fabio Grassadonia e Antonio Piazza sono tornati alla Semaine de la Critique del Festival di Cannes (che questa volta hanno avuto l’onore di aprire) e alla loro opera seconda confermano tutto quanto di buono si era già visto nel primo lungometraggio. In Sicilian Ghost Story, in realtà, alzano ulteriormente l’asticella per realizzare un’opera ambiziosa, matura e audace che magari non sarà per tutti i gusti, ma difficilmente potrà lasciare indifferenti.

L’affiatato duo di registi e sceneggiatori dà subito l’impressione, fin dai primissimi minuti del film, di essere in grado di osare senza cadere nell’autoreferenzialità o in una sterile cripticità, ponendo al servizio della narrazione uno sguardo cinematografico personale e potente. D’altro canto, non è certo un caso che lo script del film si sia aggiudicato il premio alla sceneggiatura del Sundance Institute, riservato dall’organizzazione fondata da Robert Redford ai lavori degli autori considerati più promettenti in campo internazionale.

Se Salvo raccontava con indubbia forza espressiva, tra realismo e atipica love story dalle evidenti sfumature surreali, la storia di uno spietato sicario della mafia redentosi per amore della sorella di un boss che avrebbe dovuto uccidere, Sicilian Ghost Story prosegue nella medesima direzione spingendosi oltre, in favore di una sorta di realismo magico in cui regna una suggestiva commistione tra onirismo foriero di una speranza per un futuro migliore e cupo disincanto proprio di una realtà funebre, nonché apparentemente immutabile.

I due protagonisti del film Sicilian Ghost Story

Giuseppe e Luna sono due tredicenni che abitano in un piccolo paese siciliano controllato dalla mafia, dove si erge un opprimente e invalicabile muro di omertà. I due vivono il loro amore come un sogno incontaminato ma ben presto, quando all’improvviso Giuseppe sparirà misteriosamente, si troveranno loro malgrado costretti a fare i conti con il tragico contesto che li circonda.

Considerato che il film si trova già nei cinema italiani distribuito da BIM, al fine di non rovinarvi il piacere della scoperta in sala, ci guardiamo bene dal proseguire con ulteriori indicazioni sulla trama. Vale la pena sottolineare, però, che Sicilian Ghost Story offre in dote al panorama cinematografico italiano due nuovi importanti autori che, nonostante si siano affacciati tardi nel mondo della settima arte (Grassadonia è del 1968, Piazza del 1970), hanno tutte le carte in regola per costruirsi un percorso artistico luminoso e denso.

Assai evocativo nella messa in scena (eccellente la fotografia di Luca Bigazzi), commovente e appassionante come un thriller intimista sospeso tra realtà e fantasia, Sicilian Ghost Story è un ottimo film capace di raccontare la Sicilia e il dramma della mafia in modo originale e inventivo. Per l’Italia il Festival di Cannes è iniziato davvero con il piede giusto. Da non perdere.

 

“La ragazza del mondo”

Ha appena trionfato ai David di Donatello come Opera prima: La ragazza del mondo di Marco Danieli (che, ricordiamo, a dicembre aveva già vinto il Premio Fabrique 2016) racconta la storia di Giulia, una diciannovenne Testimone di Geova soffocata dalle restrizioni impostele dal mondo di provenienza, la cui vita inizia a cambiare quando si innamora di un trentenne appena uscito di galera che non fa parte della sua comunità. 

Rispetto a tanti suoi colleghi Marco Danieli ha esordito tardi nel lungometraggio, all’età di 40 anni. Al Centro Sperimentale, dove si è formato e attualmente svolge l’attività di docente tutor nel corso di regia curato da Luchetti, è giunto solo ventisettenne («per diverso tempo non ci ho nemmeno provato, convinto che fosse troppo difficile entrare») e in passato, oltre a girare alcuni cortometraggi e documentari brevi, ha lavorato per una TV satellitare. Questi anni gli sono serviti per maturare una padronanza del mezzo filmico che l’ha portato a realizzare un’ottima opera prima, caratterizzata da una regia rigorosa e un approccio al contempo intimo e privo di retorica.

Cosa ti ha spinto a raccontare la particolare esperienza di una giovane Testimone di Geova?

Con il co-sceneggiatore Antonio Manca eravamo da tempo concentrati su un’altra storia e avevamo già un produttore, quando un’amica comune ci ha raccontato questo vissuto personale che ci ha folgorato. Abbiamo così deciso di spostarci su questa nuova storia, convinti che dovessimo darle la precedenza. All’inizio c’è stata una fascinazione quasi antropologica, perché sapevamo poco dei Testimoni di Geova ed era un po’ come se avessimo scoperto un mondo. A interessarci era però soprattutto lo specifico della vicenda di questa ragazza, che poi è l’aspetto che credo possa rendere il film più universale. La ragazza del mondo, infatti, è in fondo una sorta di romanzo di formazione di una ragazza alla ricerca della propria identità, che vive forti conflitti in un contesto molto rigido.

La ragazza del mondo si concentra molto sulla storia d’amore tra i due protagonisti, ottimamente interpretati da Sara Serraiocco e Michele Riondino.

Fin da quando tre anni fa ho realizzato un promo di 10 minuti, in cui ho girato le scene più importanti di quello che poi sarebbe stato il film, ho capito che la protagonista doveva essere interpreta da Sara. Mi sono talmente legato a questa sua idea di interpretazione del personaggio che non ho mai aperto un casting per il ruolo di Giulia. Oltre a essere molto espressiva, ha un naturalismo fortissimo e, nonostante abbia una sua tecnica di recitazione, quando è in scena sembra quasi una non attrice. Per me lei è davvero un’interprete cinematografica nata. Per quanto riguarda Michele, ho pensato immediatamente a lui non appena abbiamo deciso di alzare l’età del personaggio di Libero, che originariamente avevamo immaginato più giovane. Michele ha una formazione teatrale e tuttora alterna al cinema teatro e fiction: è un attore trasversale, preparato, scrupoloso e che compie un lavoro sul personaggio simile a quello di molti interpreti americani.

La sceneggiatura che hai scritto con il tuo abituale collaboratore è solida e priva di sbavature.

Tra me e Antonio c’è un feeling particolare. Ci siamo conosciuti sui banchi del Centro Sperimentale e da quel momento abbiamo fatto tanto insieme. In qualche modo ci completiamo a vicenda: lui ha una notevole cultura umanistica mentre io sono più tecnico. L’ambizione era proprio di dare vita a una sceneggiatura solida. Volevo in tutti i modi evitare di accorgermi sul set che c’era un passaggio che non funzionava a dovere e abbiamo lavorato parecchio in questa direzione. Diciamo che, avendoci messo più di qualche anno a trovare i finanziamenti per il film, abbiamo avuto parecchio tempo da dedicare alla scrittura. A ogni modo, sentivo che era fondamentale avere come base una sceneggiatura forte, matura e con un certo ritmo. Anche perché poi sul set, come regista, avevo il desiderio di lasciare spazio all’improvvisazione e aprirmi alle possibilità che possono riservare le intuizioni del momento. Non volevo in alcun modo perdere la capacità di emozionarmi e di capire la scena nei momenti in cui mi trovavo per la prima volta sul set.

A proposito delle difficoltà nel reperire i finanziamenti, cos’è che più di tutto ti ha aiutato a realizzare il film e quali consigli daresti a dei giovani registi che tentano di esordire?

Per trovare i soldi necessari c’è voluto davvero molto tempo e alla fine il promo a cui accennavo prima è stato fondamentale per reperire i fondi e convincere produttori e attori ad accettare di prendere parte al progetto. Il mio consiglio è quello di lavorare su una storia che sentono fortemente. Credo che non sia utile chiedersi cosa vada di moda al cinema, ma piuttosto cercare un tema che ti emoziona e che ti coinvolge, perché poi probabilmente ci dovrai lavorare per anni e a quel punto, se non hai un legame molto forte con quanto vuoi raccontare, c’è il rischio che nel frattempo te ne disamori. Sono riuscito a portare a termine il film anche perché questa vicenda mi aveva molto colpito, toccandomi delle corde profonde di cui probabilmente ancora oggi non sono fino in fondo consapevole.

Recentemente hai scritto insieme a Manca e ad Antonella Lattanzi 2Night di Ivan Silvestrini. In futuro pensi di dedicarti ancora a sceneggiature di film di cui non curerai la regia?

Attualmente mi sto concentrando sulla mia opera seconda e sono in fase di scrittura. Con 2Night è stata la prima volta che scrivevo un film per altri e devo dire che lo rifarei volentieri. Mi piacerebbe anche girare un film di cui non ho scritto soggetto o sceneggiatura. Secondo me è importante avere una certa elasticità che possa portarti a fare una volta lo sceneggiatore per un altro regista e magari la volta dopo il regista di un script non tuo. Non penso che questo tolga qualcosa alla vocazione autoriale di un cineasta. Come ci insegnano tanti importanti registi americani, se hai un tuo punto di vista e una tua personalità, alla fine questi emergono anche se non hai scritto il film.

Smetto quando voglio – Masterclass

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L’esordio di Sydney Sibilia tre anni fa con Smetto quando voglio, vivace commedia incentrata sulle disavventure di alcuni improbabili ex ricercatori universitari squattrinati che si improvvisavano produttori e spacciatori di smart drugs, aveva lasciato un segno forte. Costituendo una vera e propria boccata d’aria fresca e aprendo la strada a una rinascita del cinema di genere italiano lungamente attesa. Non bisognerebbe dimenticarsi, infatti, che prima di film come Lo chiamavano Jeeg Robot, Veloce come il vento, Perfetti sconosciuti e Mine c’è stata proprio l’opera prima di Sibilia, il trentacinquenne regista salernitano tornato in questi giorni al cinema con Smetto quando voglio – Masterclass, un seguito spassoso e per diversi aspetti sorprendente cui seguirà nei prossimi mesi il terzo e ultimo capitolo della saga.

Masterclass è più ambizioso del primo capitolo sul piano della struttura narrativa. Il film sceneggiato dallo stesso Sibilia con Luigi Di Capua dei The Pills e Francesca Manieri spiazza fin dall’inizio, riprendendo la narrazione esattamente da dove si era conclusa con il primo film, per tornare però poco dopo indietro e concentrarsi in grandissima parte su vicende che a livello temporale si collocano tra la penultima e l’ultima sequenza del primo episodio.

Di conseguenza il film sfugge a una facile catalogazione: pur essendo un seguito, non può essere considerato né un sequel né un prequel. In buona sostanza, potremmo dire che si tratta della rivelazione di quanto accaduto durante un’ellissi narrativa del film del 2014. Una scelta vincente, questa, poiché funzionale a catturare fin da subito l’attenzione e la curiosità dello spettatore. Anche se c’è da segnalare che uno dei giochi d’incastro pensati con la precedente pellicola conduce a un’incongruenza forse sfuggita ai più: l’ispettore di polizia Coletti, che in Smetto quando voglio – Masterclass ricopre un ruolo di primo piano ed è interpretato da Greta Scarano, nella scena di Smetto quando voglio in cui veniva interrogato Alberto/Stefano Fresi (riproposta in questo nuovo film da una differente prospettiva) si udiva per pochi secondi fuori campo con una voce maschile.

Al netto di questa contraddizione, dettata probabilmente dalla volontà di introdurre un personaggio femminile di rilievo che prendesse il posto di quello interpretato da Valeria Solarino (qui meno presente), Smetto quando voglio – Masterclass si rivela un film d’intrattenimento appassionante e divertente, che rispetto al primo episodio punta con maggior decisione e in maniera felice sulla componente action. Trovando proprio nelle sequenze d’azione alcuni dei suoi momenti più esaltanti: a tal proposito, si faccia ad esempio riferimento alla scena in ralenti del capottamento della macchina guidata da Fresi o a quelle degli inseguimenti al treno e alla moto dentro Villa Adriana.

photo by Andrea Pirrello

L’idea di far evolvere in una trilogia un film coraggioso e importante nel contesto del cinema di genere italiano contemporaneo come Smetto quando voglio, sulla carta era davvero rischiosa. E per quanto un giudizio complessivo sull’operazione si potrà dare solo alla fine del terzo capitolo, per ora possiamo senz’altro affermare che Sydney Sibilia è riuscito nel non semplice compito di realizzare un secondo capitolo all’altezza, in grado di non perdere la freschezza, il brio e il ritmo che avevano caratterizzato l’originale.

“Sex Cowboys”

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Ha vinto l’ultima edizione del RIFF con una storia d’amore e sesso che poco lascia all’immaginazione. Così il 32enne Adriano Giotti racconta la sua opera prima: «Come nel punk con due accordi si riusciva a raggiungere una grande libertà d’espressione, in Sex Cowboys abbiamo cercato di sfruttare al massimo l’essenzialità dei mezzi a disposizione».

Adriano avrebbe voluto scrivere romanzi. L’incontro con Alessandro Baricco alla Scuola Holden però ha inaspettatamente modificato i suoi piani. Lo scrittore aveva infatti da poco realizzato il suo film Lezione ventuno e propose agli studenti un corso pratico di regia. Da lì in avanti la vita di Adriano è cambiata. Ora vive tra Madrid e Roma e dopo una gran quantità di videoclip e corti, ha appena realizzato il suo lungometraggio d’esordio Sex Cowboys, trionfatore al RIFF: un piccolissimo film indipendente (coprodotto con la Inthelfilm di Marco Simon Puccioni) incentrato su una coppia che per sbarcare il lunario riprende i propri rapporti per venderli sul web e dove il sesso viene messo in scena in maniera molto esplicita.

Fabrique ha incontrato Adriano, accompagnato anche dai due protagonisti Francesco Maccarinelli e Nataly Beck’s.

Cos’è che ti ha davvero fatto capire che il tuo ambito era quello dell’audiovisivo e non della narrativa? Come mai hai iniziato con i videoclip?

Perché il cinema a differenza della scrittura è un atto collettivo e per questo motivo mi stimola molto di più. Avendo suonato in un gruppo musicale per diversi anni, iniziare con i videoclip mi sembrava la cosa più naturale. Ne ho girati più di ottanta, spesso per gruppi indipendenti a basso budget, ma anche un paio per i Mallory Knox e gli Hermitage Green che sono stati prodotti dalla Sony. Ho scelto fin dall’inizio, nei clip e poi nei corti, di gestire in prima persona piccoli set, piuttosto che fare l’assistente in grandi set inseguendo i sogni degli altri, anche se avevo pochi mezzi. Ho fatto la stessa cosa con Sex Cowboys, dove siamo riusciti a fare cinema in quattro persone più tre attori.

A proposito di Sex Cowboys, com’è nata l’idea del film e come hai scelto i due protagonisti?

Le cose che scrivo nascono sempre da un’emozione, da esperienze personali o che sento molto vicine. Mi definisco un cercatore di storie, un esploratore, più che uno che si mette a tavolino e scrive. Sapevo che Francesco e Nataly erano i due attori perfetti, sia a livello fisico che di metodo di lavoro, per incarnare i protagonisti. Tanto è vero che Sex Cowboys è iniziato a nascere dentro di me mentre guardavo la relazione che si era instaurata tra loro sul set del videoclip degli Hermitage Green, che abbiamo fatto insieme. Lavoro sempre con attori di metodo che diventano i personaggi. Questo è fondamentale per arrivare a quella verità e a quella fisicità che cerco sempre nelle mie storie.

Francesco: Il fatto che noi tre ci conoscessimo bene e avessimo già lavorato insieme ci ha portato ad avere una grande libertà di comunicazione. Credo di parlare anche a nome di Nataly dicendo che, artisticamente parlando, ci siamo sentiti costantemente protetti da Adriano. Per un film così spinto in cui la fisicità viene messa parecchio a nudo, questa è una cosa straordinaria che ti fa lavorare in maniera serena.

Nataly: Per me recitare è una cosa istintiva e ho vissuto tutto in maniera molto naturale. Dal mio punto di vista fare scene di sesso, anche esplicite, è come girarne una in cui stai bevendo o mangiando. Non mi sono né scandalizzata né preoccupata, era tutto molto fluido e se sul set ero vestita o svestita non faceva alcuna differenza. Abbiamo lavorato molto prima di girare per entrare nei personaggi e questo mi ha davvero aiutato.

Tornando a te, Adriano, il tuo film per diversi aspetti ricorda il cinema di Cassavetes.

Nel progetto di Sex Cowboys che mandavo in giro in cerca di finanziamenti c’era proprio il riferimento esplicito a Cassavetes, di cui sono un grande estimatore. Nel mio film c’è lo stesso spirito: è sostanzialmente autoprodotto, visto che pur di realizzarlo ho investito i miei risparmi personali, e fa leva su attori con cui è stato possibile lavorare molto sul piano dell’improvvisazione. Nelle prove lavoro tanto sull’improvvisazione per tirare fuori ancora più verità di quella che posso aver scritto, perché è chiaro che nelle cose che scrivi c’è una verità intellettuale, mentre negli attori c’è una verità istintiva ed emozionale che è sempre bene cercare di sfruttare appieno.

In Sex Cowboys colpisce molto la costante vicinanza della macchina da presa ai corpi degli attori. Ti sei ispirato allo stile di qualche altro regista in particolare?

Il mio cinema in effetti è molto incentrato sullo stare addosso ai personaggi. La mia è una “visione con”, nel senso che empatizzo con i personaggi e cerco in tutti i modi di far vivere allo spettatore le cose molto da vicino. Da questo punto di vista i miei registi di riferimento sono i Dardenne. Quello che però sento di aver fatto in più in questo film è la combinazione delle riprese con la GoPro tenuta a mano dagli attori con quelle con la Red, che nelle scene di sesso dà un effetto di verità molto forte. Ovviamente per ragioni di censura non ho potuto spingere troppo. Il mio obiettivo in ogni caso non era scandalizzare ma raccontare una storia che fosse reale, anche sul piano della fisicità.

“Fai bei sogni”, Bellocchio torna a convincere

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Esce oggi nelle sale il nuovo lavoro di Marco Bellocchio, un dramma commovente e appassionante, già molto ben accolto allo scorso Cannes come film d’apertura alla Quinzaine des Réalisateurs. 

Se si esclude l’interessante e in fondo poco conosciuto Sorelle mai (2010), risultato dell’unione di una serie di cortometraggi realizzati nel contesto del corso di regia da lui curato da diversi anni a Bobbio, era dai tempi di Vincere (2009) che Marco Bellocchio non dirigeva un film davvero convincente e al livello della sua produzione dei primi anni duemila (L’ora di religione, 2002; Buongiorno, notte; 2003; Il regista di matrimoni; 2006).

Gli ultimi due suoi lavori Bella addormentata (2012) e il recente Sangue del mio sangue (2015) infatti, entrambi presentati in concorso al Festival di Venezia, per motivi e in misure differenti non erano risultati riusciti. Se il primo, pur potendo contare su dei buoni momenti, si caratterizzava per uno squilibrio tra le diverse linee narrative, il secondo era stato addirittura una vera e propria delusione, dividendosi in due macro-parti troppo lontane tra loro e in particolare con una seconda metà esplicitamente farsesca ben poco ispirata, forzata e troppo sopra le righe.

Con Fai bei sogni però, a sette anni di distanza dal potente e stilisticamente assai affascinante Vincere, Marco Bellocchio si è ritrovato. E piuttosto sorprendentemente lo ha fatto adattando l’omonimo best-seller autobiografico del 2012 di Massimo Gramellini, in cui il noto giornalista ha raccontato la propria vita e il lungo percorso che lo ha condotto ad affrontare il passato, la perdita della madre avvenuta quando era bambino e la verità su quel traumatico accadimento, scoperta solo in età adulta.

Pur rimanendo fedele al romanzo, il settantaseienne autore bobbiese ha modificato la struttura temporale del racconto originale (il cui cuore è rappresentato da un unico lungo flashback), affidandosi a numerosi salti in avanti e indietro nel tempo al fine di mostrare sul grande schermo i traumi infantili del protagonista e le difficoltà da adulto ad essi connessi con notevole pathos.

La forza di Fai bei sogni sta in primis nel riuscire a mettere in campo, ad ogni istante, uno sguardo sincero e vivo. Tra i momenti del passato in cui Massimo è bambino colpiscono ad esempio alcune immagini attraverso le quali viene restituito con tatto e semplicità il mondo della fanciullezza: il gioco con le dita della mani che simulano il movimento delle gambe a scuola, la raccolta delle molliche con un coltello mentre è a tavola con il padre, i salti sul divano per imitare i tuffi dal trampolino che sta vedendo in tv. Molto intensi sono poi alcuni momenti della vita da adulto, come quelli che lo vedono protagonista insieme alla dottoressa di cui si innamora (si pensi al bizzarro incontro in ospedale dopo l’attacco di panico e alla bella scena in piscina) o nel caso dell’incontro notturno rivelatore con la zia anziana.

In questo contesto, Bellocchio è anche molto abile ad evitare il ricorso a ogni tipo di retorica. Persino uno dei momenti da questo punto di vista più a rischio, in cui Piera Degli Esposti appare in un cameo, viene infine stemperato da una efficace battuta in grado di conferire alla scena un tono ironico e completamente diverso rispetto a quanto ci si potesse aspettare.

Nonostante alcuni passaggi narrativi possano risultare un po’ troppo veloci e non particolarmente approfonditi, dunque, Fai bei sogni non ha mai cali di ritmo per le oltre due ore di durata, si avvale di un ottimo cast (dal giovanissimo Nicolò Cabras a Valerio Mastandrea e Bérénice Bejo, passando per Guido Caprino e Barbara Ronchi) e rappresenta un convincente ritorno dietro la macchina da presa per uno dei registi più importanti del panorama cinematografico italiano.