Era il 1968 quando uscì nei cinema statunitensi La notte dei morti viventi, il primo capitolo della celebre saga che portò sullo schermo le inquietudini dell’America della guerra in Vietnam e delle profonde fratture sociali. In Italia arrivò solo due anni più tardi, nell’estate di cinquant’anni fa.
Una delle saghe più importanti del cinema USA
Quella dei morti viventi di George Romero è una delle saghe più importanti della storia del cinema statunitense. Probabilmente la più coerente e solida per quanto riguarda lo statuto artistico, socio-antropologico e simbolico-metaforico. Da La notte dei morti viventi fino all’ultimo Survival of the Dead del 2009, passando per Zombie (1978), Il giorno degli zombi (1985), La terra dei morti viventi (2005) e Le cronache dei morti viventi (2007), ogni capitolo è essenziale e si differenzia per la proposizione di determinate tematiche e l’approfondimento della natura degli zombi, cadaveri che misteriosamente riprendono a vivere.
Non è mai dato sapere con certezza, in nessuno dei film, quale sia effettivamente la causa del ritorno alla vita dei morti. La scienza non è in grado di dare risposte certe e gli uomini, seguendo alla lettera l’espressione hobbesiana homo homini lupus, invece di aiutarsi vicendevolmente danno il più delle volte prova della loro innata tendenza all’egoismo, allo sfrenato individualismo, all’intolleranza e alla totale mancanza di lucida razionalità. Persino in situazioni di eccezionale emergenza, gli esseri umani non sono in grado di solidarizzare e di formare un fronte comune al fine della sopravvivenza della specie: è da questo punto focale che Romero irradia quel radicale pessimismo e quella totale sfiducia nei confronti dell’umanità che piuttosto esplicitamente sottendono tutta la saga dei morti viventi, al netto dell’inaspettata quanto efficace incursione nel registro comico-ironico di Survival of the Dead.
Il contesto sociale e politico
Romero gira La notte dei morti viventi nel 1967. Gli Stati Uniti sono un paese in pieno tumulto, le fratture sociali all’interno della popolazione americana sono profonde. Il conflitto bellico in Vietnam ha prodotto morte e devastazione e il movimento pacifista che si oppone alle atrocità e all’insensatezza della guerra è sempre più diffuso e strutturato. Il razzismo è molto radicato nonostante la nascita del Movimento per i diritti civili e nell’aprile del 1968 viene assassinato Martin Luther King, mentre sempre in questi anni riemergono gruppi violenti che si rifanno al Ku Klux Klan.
Il cineasta del Bronx riprende le tematiche degli zombi, già care a registi come Jacques Tourner (Ho camminato con uno zombie, 1943), ma modificandone l’impianto concettuale nelle fondamenta. Quello di Romero è infatti il primo audace tentativo cinematografico di costruire uno strutturato discorso socio-politico su un tema che, in precedenza, era stato visto soprattutto in contesti esotici e legati alla magia voodoo. L’idea iniziale deve molto, per stessa ammissione dell’autore, a Io sono leggenda di Richard Matheson (da cui poi nel 2007 è stato tratto l’omonimo blockbuster con protagonista Will Smith), un classico della letteratura fantastica del Novecento che narra di un mondo apocalittico in cui l’unico superstite a una misteriosa epidemia deve combattere gli altri abitanti del pianeta, trasformatisi tutti in vampiri.
“La notte di morti viventi”, un horror atipico e innovativo
Girato in bianco e nero e con un budget di circa 114 mila dollari, il film rappresenta uno spartiacque essenziale nella storia del cinema horror. A partire dallo spaccato di banale quotidianità offerto dalla scena iniziale, Romero spazza via le convenzioni del genere con forza e convinzione sorprendenti.
Il film, ambientato quasi esclusivamente in una casa di campagna all’interno della quale i protagonisti cercano di difendersi dagli zombi, concede poco o nulla alle aspettative dello spettatore: Barbara, quella che sulla carta dovrebbe essere l’eroina, rimane perennemente in stato di shock; Ben, l’“eroe”, non solo è di colore, ma non prova alcuna attrazione per lei. Le altre coppie sono Harry e Helen Cooper, genitori di una giovane figlia che non si amano più (celebre è la caustica battuta della moglie al marito, che criticandolo per la decisione di chiudersi in cantina, gli dice: “Vivere insieme per noi non è una gioia, ma morire insieme non risolverà niente”) e due ragazzi, Tom e Judy, destinati ad una fine raccapricciante. Anziché cementare il gruppo, l’assedio fa emergere contrasti, debolezze, intolleranze. La violenza endemica e irrazionale scatenatasi all’esterno echeggia quella tutta umana che si consuma all’interno della casa e che culmina con il colpo di fucile con cui Ben ferisce Harry. Ed è proprio la scelta di Ben di restare al piano terreno invece di barricarsi in cantina che porterà i suoi compagni alla morte. Ben sarà quindi costretto a rifugiarsi in cantina, ma quando il mattino dopo uscirà dal nascondiglio, i soccorritori gli spareranno in fronte, scambiandolo per uno zombi: una conclusione beffarda che azzera ogni possibile happy ending o simbolica riconciliazione. La parabola dell’eroe, dunque, non è certo quella convenzionale, così come l’intero film si pone quanto più possibile al di fuori di ogni stereotipo.
La notte dei morti viventi getta un’ombra sinistra sull’America della fine degli anni Sessanta: la famiglia si è sgretolata (emblematicamente i Cooper vengono divorati dalla figlia trasformatasi in zombi), l’integrazione razziale è una mera utopia, la legge e l’ordine sono rappresentati da un gruppo di volontari che si fanno giustizia da soli, le immagini delle bande armate che pattugliano i campi, sparano e bruciano, evocano immediatamente lo spettro della guerra in Vietnam.
La regia e l’uso delle luci
Il primo capitolo della saga dei morti viventi è però anche un film molto interessante dal punto di vista registico e della messa in scena. La figura stilistica più ricorrente e significativa consiste nell’utilizzo sistematico della macchina da presa in posizioni più o meno oblique, nell’intento piuttosto esplicito di esprimere la precarietà della condizione dei protagonisti (e, di riflesso, di quella umana in generale) e il carattere inquietante e destabilizzante della assurda situazione in cui essi si trovano. Notevole è l’abilità nello sfruttare la povertà dei mezzi e in particolare il “ruvido” bianco e nero della pellicola: l’illuminazione sia negli interni che negli esterni ricorda l’espressionistico gioco di luci ed ombre di maestri quali Wiene (Il gabinetto del dottor Caligari, 1919), Murnau e Lang. La macchina da presa è spesso fissa e quando si muove lo fa il più delle volte in modo “classico”, con la precisa finalità di seguire gli avvenimenti e i movimenti dei personaggi. Il meno assiduo ricorso alla macchina a mano o a rapidi zoom (non di rado legati ad un punto di vista soggettivo) serve invece a sottolineare momenti narrativi particolarmente forti sotto l’aspetto emotivo e ha lo scopo di stimolare l’identificazione dello spettatore con il protagonista dell’azione.
Colmo di potenti e ancora attuali metafore socio-politiche, La notte dei morti viventi ha cambiato per sempre la concezione dell’horror aprendolo a orizzonti ben più ampi (nello stesso anno per la fantascienza fece qualcosa di simile Kubrick con 2001: Odissea nello spazio) e, al contempo, rappresenta una essenziale lezione di regia, che nel corso dei decenni ha ispirato molti registi dell’horror e non solo.