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Lavinia Flavi

Io sono Vera: vite parallele in un racconto di fantascienza

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Io sono Vera, in uscita al cinema il 17 febbraio, è il primo lungometraggio di finzione prodotto da Macaia Film, con le musiche dei Marlene Kuntz. Una pellicola di fantascienza ambientata in parte in Cile, che racconta una storia di vite che inspiegabilmente si intrecciano, «in grado di utilizzare il genere per trattare una questione esistenziale». Abbiamo intervistato Simone Gandolfo, uno dei produttori, che in quest’occasione ci ha parlato dei retroscena del film e di cosa significhi occuparsi di cinema di genere in Italia. Per leggere di più sul suo lavoro abbonati a Fabrique: l’intervista continua nel prossimo numero!

Di che progetti si occupa Macaia Film e qual è il tuo ruolo all’interno della casa di produzione?

Macaia (di cui io e Manuel Stefanolo siamo fondatori e soci al 50%) si occupa principalmente di quattro grandi branche: i contenuti originali, di cui Io sono Vera finora è il più importante, insieme a un altro progetto sempre di fantascienza in sviluppo che si chiama Aspettando i naufraghi, tratto da un romanzo di Orso Tosco. Ci occupiamo di comunicazione per enti pubblici, di produzione esecutiva sia per società italiane che per società estere che devono girare in Italia. C’è poi anche una parte legata alla formazione: organizziamo infatti corsi professionalizzanti per varie figure del cinema. Io sono il fondatore, il produttore esecutivo e diciamo il frontman, vado sui mercati internazionali a cercare clienti, sto sul set, ma se non falliamo è merito di Manuel.

Come è nato Io sono Vera?

È nato quando il regista Beniamino Catena, che conosco da molti anni, è venuto da me con la sceneggiatura, dicendomi di voler realizzare un film indipendente, girato tra la Liguria e il Cile. Mi è parsa da subito una bella sfida, una storia delicata che valeva la pena di raccontare, in grado di utilizzare il genere per trattare una questione esistenziale, ancestrale quasi. Prima di partire per Berlino alla ricerca di coproduttori mi sono rivolto a un amico regista per sapere se conoscesse qualcuno che potesse fare al caso nostro: produttori non ne conosceva, ma mi ha presentato Maura Morales Bergman, che sarebbe diventata la direttrice della fotografia del film. L’ultimo giorno di Berlino ho incontrato invece Karina Jury, una produttrice cilena che da subito si è dimostrata interessata. La partenza di Io sono Vera è stata travagliata, ci sono stati momenti in cui abbiamo pensato di abbandonare il progetto. Il budget non faceva che diminuire, ma nel momento più buio il regista mi ha trasmesso un entusiasmo tale da permettermi di andare avanti. Tutti quelli che hanno lavorato a questo progetto lo hanno fatto per amore ed è questo l’atteggiamento che mi piace e che cerco di mantenere anche nel momento in cui lavoro a produzioni più grandi. 

Io sono Vera

Si tratta di una coproduzione con il Cile, cosa ha comportato?

L’aspetto più positivo delle coproduzioni è che hai già due mercati a disposizione. Da un punto di vista burocratico non è stato complicato, perché con il Cile l’Italia ha dei contratti bilaterali di coproduzione, ci sono quindi delle regole molto chiare da rispettare. La coproduzione è ovviamente artistica e non finanziaria, ciò significa che ci devono essere dei capo reparti di ambo i paesi. Questo permette di creare un ponte tra le due realtà, il che rende tutto sia più interessante che più difficile. Ma la cosa più complicata, soprattutto in un paese come il Cile dove la moneta non è stabile, è gestire il flusso finanziario. Quando firmi il contratto lo fai in base al cambio di quel giorno, a quel punto inizia l’avventura, perché magari una settimana hai il 10% in più e quella dopo il 10% in meno, in base all’oscillazione.

Io sono Vera è un film di fantascienza. Sembra essere un buon momento per i film di genere in Italia.  Cosa implica produrne uno?

Ho delle riserve sul fatto che sia un buon momento per il cinema di genere. Per fortuna finalmente ci sono delle società ben più grosse della nostra che hanno cominciato a produrlo: Groenlandia su tutte, Propaganda Italia, Mainetti. Però l’Italia da un punto di vista istituzionale è ancora molto legata a un certo cinema d’autore, guardando le graduatorie dei finanziamenti è evidente. Il pubblico italiano inoltre fa fatica, perché il cinema di genere, come la fantascienza, è abituato a vederlo arrivare dall’estero e noi siamo almeno dieci anni in ritardo rispetto al resto d’Europa, però abbiamo cominciato a muoverci. Produrre un film di genere implica quindi confrontarsi con un mercato quantomeno europeo, cosa ovviamente più complicata che restare entro i confini nazionali.

La svolta, un buddy-movie riuscito a metà

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La pioggia inonda l’inquadratura iniziale de La svolta, primo lungometraggio di Riccardo Antonaroli che vede come protagonisti Brando Pacitto e un bravissimo Andrea Lattanzi. Una pioggia che però non riesce a lavare via lo sporco e i peccati di una città in cui tutti sembrano aspettare l’occasione giusta, quella che permetta di svoltare. O quella che fa l’uomo ladro.

Jack l’occasione la trova in una squallida sala giochi, quando ruba una borsa piena di soldi. Per Ludovico invece, un ragazzo timido e appassionato di fumetti, l’occasione si presenta proprio quando Jack, per nascondersi dai criminali a cui ha sottratto il denaro, gli piomba in casa. Una casa i cui muri sono costellati di poster, tra i quali ce n’è uno che spicca particolarmente: quello de Il sorpasso di Dino Risi.

Non è una fortuita coincidenza, dal momento che l’esordio di Antonaroli, presentato fuori concorso alla trentanovesima edizione del Torino Film Festival, si rifà interamente alla pellicola degli anni ’60, a partire proprio dal rapporto che i due protagonisti instaurano, centro intorno al quale si sviluppa la storia. Jack diventerà infatti un vero e proprio mentore per Ludovico, aiutandolo a crescere e a scrollarsi di dosso quelle ansie che gli impediscono di prendere in mano la sua vita, così come accadeva nel film di Risi.

Antonaroli dalla commedia all’italiana impara anche la commistione di toni: ne La svolta riescono ad alternarsi con naturalezza scene dalle sfumature più leggere a momenti di tensione. Tutta la narrazione, a ben guardare, vuole giocare su questo contrasto, creando un tessuto di violenza e ilarità, il cui risultato è un buddy-movie riuscito per quanto a tratti ingenuo. Il regista sembra essere particolarmente interessato all’amicizia maschile, sentimento che all’interno della narrazione diventa quasi un metro di giudizio tramite il quale capire chi assolvere e chi no. Diverse declinazioni di rapporti amicali si trovano infatti anche all’interno del gruppo degli antagonisti, i personaggi riusciti meglio a livello di scrittura.

Perché paradossalmente è proprio nei protagonisti e nel loro rapporto che si riscontra anche la debolezza maggiore della pellicola: in favore della coppia si è infatti sacrificato il singolo e i personaggi sono spesso stati ridotti alla loro dimensione di stereotipi. L’impressione generale è che, come spesso capita negli esordi, ci si sia appoggiati troppo ai film citati, negando a La svolta l’occasione di camminare sulle proprie gambe.

Ciononostante il film di Riccardo Antonaroli resta un’opera prima di un certo interesse, che riesce a inserirsi in un filone molto frequentato negli ultimi anni – quello dei film in periferia – senza risultare ridondante e anzi arrivando ad aggiungere al discorso quella dolcezza che spesso manca. 

Omeostasi: la crisi di una coppia secondo Paolo Mannarino

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L’omeostasi è una tendenza naturale alla stabilità e all’equilibro. Ed è proprio l’equilibrio a incrinarsi fino al punto di rompersi nel nuovo cortometraggio di Paolo Mannarino, un equilibrio precario alla base della quotidianità di una coppia che dovrà confrontarsi e indagarsi, dopo aver saputo di aspettare un figlio. Il giovane regista tenta di sondare l’intimità dei protagonisti, che caotica si contrappone alla simmetria delle inquadrature scelte per incorniciare la fragilità dei rapporti umani. La volontà è quella di avvicinarsi, il più possibile, per osservare, scoprire e, magari, ricominciare.

Da dove nasce l’idea per il corto?

La mia idea era quella di raccontare le dinamiche più intime di una coppia, entrare in casa loro durante un giorno all’apparenza normale che si trasforma completamente, diventando scenario di una litigata violenta, sintomo di una crisi più profonda. Volevo osservare quella coppia da vicino come un semplice spettatore, elaborare insieme ai protagonisti il loro dramma, derivante dall’aspettare un figlio e prima ancora dal dover affrontare la vita insieme mettendosi a nudo. Semplicemente, volevo raccontare la crisi di una coppia.

Omeostasi – Trailer from Paolo Mannarino on Vimeo

La crisi di coppia è un tema molto rappresentato al cinema, spesso anche da grandi autori, non era quindi facile inserirsi nel discorso. Quali sono stati i tuoi riferimenti?

Direi Terrence Malick, con i suoi silenzi, i suoi take sospesi e quell’intimità nel raccontare con la macchina da presa senza dover spiegare troppo. Però mentre giravo non ho pensato tanto a dei riferimenti specifici, perché quello che abbiamo cercato di fare con gli attori [Margherita Laterza e Edoardo Purgatori ndr] e e con il direttore della fotografia è stato farci guidare dalle sensazioni. Abbiamo cambiato le battute, abbiamo cercato di illuminare il meno possibile, provando per tre giorni nella casa dove è ambientato il corto. Tant’è che dovevamo girare circa in cinque giorni e invece ne abbiamo impiegati due, perché c’è stato un lavoro che ci ha permesso di essere sia pronti che spontanei durante le riprese.

Perché hai scelto di girare in 4:3?

Inizialmente ho girato in 2:35, ma poi durante il montaggio mi sono reso conto che era troppo poco intimo, quindi ho cambiato tutto. Ho scelto il 4:3 perché mi restituiva contemporaneamente una sensazione di claustrofobia e di intimità. Inoltre rendeva Omeostasi sospeso nel tempo, come se fosse una vecchia fotografia. È stato il mio primo corto in 4:3, escludendo qualche videoclip che avevo girato tempo fa.

La vera protagonista di Omeostasi sembra essere l’acqua. Cosa simboleggia?

C’è un continuo richiamo all’acqua, al mare, al surf e ognuno ci vede quello che vuole, però per me simboleggiava la placenta in cui è immerso il feto che forse dovrà nascere. È quindi il simbolo di quella vita che si sta generando, ma al contempo l’acqua è ciò che dà vita al dramma tra lui e lei. Un dramma che deriva dal rifiuto, dalla fuga di fronte alla cosa più importante per loro: capirsi e cercare di entrare nei rispettivi pensieri e universi. C’è infatti anche un richiamo all’universo nel corto.

Oltre a vari cortometraggi hai girato molti videoclip. Come comunicano questi due aspetti del tuo lavoro?

I videoclip sono stati un’ottima formazione, sia da un punto di vista tecnico che di scrittura. Mi hanno permesso di fare tanta esperienza, ma nell’ultimo anno e mezzo ho deciso di fermarmi, perché mi portavano via tanto tempo senza darmi appieno la possibilità di esprimermi come volevo. Ho quindi deciso di dedicarmi a un percorso più intimo e personale, scrivendo cose che fossero interamente mie.

Che progetti hai per il futuro? 

Ho finito di scrivere un lungometraggio e ho in porto una miniserie di quattro puntate. Riguardo al film posso anticiparti che, in poche parole, si tratta di una storia d’amore in un contesto ostile.

Saverio Raimondo: con “Luca” inizio una nuova carriera al cinema

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Il 18 giugno arriva sulla piattaforma Disney+ Luca, il nuovo film Pixar con cui Saverio Raimondo arriva invece al cinema. Dopo la satira, la televisione, la radio e dopo Netflix, il comico presta infatti la voce a Ercole Visconti, il cattivo della prima storia ambientata in Italia della celebre casa d’animazione. Inoltre il 22 giugno Saverio Raimondo riceverà  il Premio Cinema e Parole all’11esima edizione del Figari Film Fest, kermesse tradizionalmente dedicata ai corti cinematografici e al mercato audiovisivo, in programma a Olbia dal 19 al 24 giugno.

«Luca racconta un’estate di crescita, esattamente ciò che è stata per me l’estate scorsa da un punto di vista professionale» afferma Raimondo parlando della sua esperienza, un’esperienza che ben presto alimenterà i suoi spettacoli di stand-up comedy, ma che nel frattempo ha raccontato in quest’intervista.

Il 18 giugno esce Luca, al quale hai partecipato prestando la voce a Ercole Visconti, il cattivo della storia. Come sei stato coinvolto nel progetto?

Sono stato contattato direttamente dalla Disney Pixar, un anno fa circa, nell’agosto del 2020. Volevano farmi un provino proprio per Ercole Visconti, il personaggio che alla fine ho interpretato. Questo perché il regista, Enrico Casarosa, dopo avermi sentito ne Il satiro parlante, il mio spettacolo di stand-up comedy su Netflix, ha pensato potessi essere la voce giusta per lui. E si è rivelato essere così.

Parlami del tuo personaggio.

Ercole Visconti è il bullo del paese. Un prevaricatore, ma anche un cialtrone in verità, sicuramente molto vanitoso. È un cattivo, ma come molti cattivi è anche divertente, perché è ridicolo. Per certi aspetti mi ha ricordato il Geometra Calboni, l’antagonista di Fantozzi, e infatti è una reference che ho condiviso con Casarosa. Date le somiglianze che avevo riscontrato tra i due mi sono anche un po’ ispirato a lui per dare la voce a Ercole Visconti.  

Nonostante tu abbia già lavorato esclusivamente con la voce in radio, l’esperienza del doppiaggio è ben diversa. Come l’hai affrontata?

Con grande curiosità, proprio perché era la prima volta per me. Tra l’altro è stata una duplice esperienza, perché ho dovuto doppiarmi sia in italiano che dare la voce al personaggio nella versione originale. E se mentre mi doppiavo in italiano avevo davanti agli occhi il film, quando ho recitato nell’originale invece, il film ancora non c’era. Questo perché prima arriva la voce e poi le immagini, infatti le animazioni vengono fatte a posteriori, proprio sulla voce. Ho quindi dovuto tirare fuori il personaggio da dentro. In questo ovviamente le indicazioni del regista sono state necessarie per potermi muovere al buio.

Questa è la tua prima esperienza con il cinema. Vorresti continuare in quest’ambito?

Io sono sempre stato un cinefilo, infatti mi iscrissi al DAMS proprio perché il mio interesse per lo spettacolo era prevalentemente cinematografico, tanto che sono laureato in Analisi del film. Poi il talento comico ha preso il sopravvento e già a diciotto anni ho cominciato a lavorare in televisione. Alla fine mi sono concentrato sulla comicità e sulle possibilità televisive, radiofoniche, live. Ma adesso è arrivato il momento di approfondire quelle cinematografiche. Luca è la mia prima esperienza ma non sarà l’unica: ho preso parte ad altri progetti che presto vedranno la luce. Mi piacerebbe continuare sia per la mia antica passione, ma anche perché il mio personaggio comico è cresciuto e vorrei esplorarlo anche dal punto di vista cinematografico.

Saverio Raimondo doppiatore in Luca
Saverio Raimondo è la voce del cattivo in “Luca”, Ercole Visconti.

Tu ti occupi principalmente di satira politica. Secondo te a che punto è il genere in Italia?

Sicuramente prima della pandemia si era affacciata finalmente in Italia una scena comica nuova, una vera e propria new wave, che aveva nella stand-up comedy il suo sbocco principale. La pandemia è stata poi una botta d’arresto per molti, senz’altro per lo spettacolo dal vivo. Ritengo però che attualmente la satira in Italia non stia né molto meglio né molto peggio che in altri paesi. Credo sia evidente a tutti che la satira politica non basti a fare critica alla società, perché molti degli aspetti sociali sono extra politici. La satira dunque dovrebbe esercitarsi su altri aspetti, però in Italia si è abituati a fare battute sui politici e meno su altro. Ma anche noi stiamo cominciando ad accorgerci che dell’altro c’è e ci stiamo attrezzando.

La Disney è stata più volte al centro di polemiche legate al politically correct, argomento che riguarda spesso anche l’ambito della comedy e in particolar modo proprio la satira, dietro la quale a volte ci si nasconde. Qual è la tua posizione in merito?

Innanzitutto penso che ormai il politicamente corretto non riguardi più solo i film o la satira, ma davvero qualunque aspetto della vita. Questo rischia di trasformarlo in qualcosa di banale però, perché quando riconsideri tutto non riconsideri nulla in realtà. La satira certo non deve essere una foglia di fico dietro la quale nascondere qualunque eccesso, perché anche se prevede l’eccesso, lo fa quando è motivato da un uso artistico ed espressivo. L’eccesso insomma non dovrebbe essere usato come giustificazione. È il motivo per il quale ho sempre ritenuto che le battute online, ad esempio su Twitter, non possano essere considerate satira. Perché qualunque battuta, a maggior ragione quella satirica, ha bisogno di un contesto che le dia un senso. Dunque una battuta su internet, dove il contesto non esiste, non potrà mai essere una battuta satirica.

A breve riprenderai a calcare i palchi con i tuoi spettacoli. Questo è un buon momento per la stand-up comedy in Italia. A cosa pensi sia dovuto?

Penso che sia dovuto principalmente al fatto che da molto tempo mancava, dal punto di vista comico, una novità. I comici erano uguali tra loro e facevano cose vecchie, mentre nel frattempo c’era un pubblico più giovane che grazie a internet cominciava ad avere riferimenti anche internazionali. La stand-up si è trovata quindi a dover andare incontro a un nuovo gusto, se vuoi anche un po’ più interessato alla sfera personale. D’altronde la stand-up comedy fa ironia sulle persone a cominciare dal comico stesso, è un genere egocentrico e narcisista, perché il comico mettendosi alla berlina si mette in mostra. E anche se rischia di essere una comicità un po’ ombelicale a volte, quando il comico attraverso sé riesce a raccontare gli altri, ecco che fa il salto e diventa grande intrattenimento.

La stand-up comedy ha giocato un ruolo importante nel tuo arrivo al cinema, dal momento che sei stato contattato dopo Il satiro parlante. Invece quanto pensi che il lavoro fatto per il film influenzerà i tuoi futuri spettacoli?

Io sono abituato ad elaborare le mie esperienze e a raccontarle durante i miei spettacoli: quando mi sono esibito in Arabia Saudita poi ne ho tratto un pezzo, la mia esibizione per il Papa è diventata a sua volta materiale per i miei spettacoli, lo stesso è successo quando mi sono esibito a Porta a porta e ho incontrato Bruno Vespa. Quindi sono certo che negli spettacoli che porterò in giro quest’estate comincerò a raccontare la mia esperienza con la Pixar, ovviamente privilegiando gli aspetti più buffi a discapito della parte gratificante, che però debbo ammettere è stata quella predominante.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Riprenderò a collaborare con Caterpillar su Radio 2. Massimo Cirri si prende una meritata vacanza estiva e lo sostituirò al fianco di Sara Zambotti. Poi in autunno vedrà la luce un mio podcast. È un progetto al quale lavoro da un anno, una cosa nuova sia per me, sia all’interno del panorama podcast. Non anticipo molto, ma credo che sarà piuttosto divertente da ascoltare…

 

Futura: se è la musica a unire padri e figli

Sin dall’inizio di Futura, il nuovo film di Lamberto Sanfelice (nei cinema dal 17 giugno, distribuito da Adler Entertainment), la musica prende per mano lo spettatore e non lo lascia più andare.

Non detta solo il ritmo della storia, ma ne è il vero e proprio motore scatenante: in Futura tutti i personaggi vivono di (e per) la musica e inevitabilmente trascinano chi guarda all’interno di questo vortice fatto di note. Perché il protagonista Louis (Niels Schneider) si trova proprio all’interno di un vortice, dal quale dovrà tentare di uscire non tanto per realizzare i suoi sogni, quanto per riconquistare sua figlia. Futura è un viaggio che si dipana attraverso la musica, ma conduce inesorabile verso le proprie responsabilità: un percorso di crescita che comincia con la tromba di Louis, passa per la voce di Lucya (Daniela Vega) e termina con il pianoforte della piccola Anita (Aurora Onofri). Non sorprende che sia stata quindi proprio la musica il punto di partenza per Sanfelice.

Da dove nasce l’idea per il film?

Nasce in particolare dall’incontro con un tassista che suonava la tromba, ma poi si è sviluppato attraverso altri incontri con musicisti come Stefano Di Battista ed Enrico Rava, che fanno anche parte del cast. È un film che abbiamo voluto fare soprattutto con loro e per loro, per i musicisti. Dopo una pellicola silenziosa e fatta di atmosfere come Cloro (2015), dove a fare da colonna sonora erano il vento e l’acqua, avevo voglia di musica. Volevo che fosse il cuore della storia e soprattutto che raccontasse gli stati d’animo dei personaggi. Il jazz e la tromba sono il punto di partenza del film, ma ogni personaggio ha una propria musica, diversa: Daniela Vega ha la lirica, la piccola Aurora ha il piano, la stessa Matilde Gioli ha un’anima rock. I personaggi insomma con la musica comunicano e cercano il contatto con gli altri.

Futura
Niels Schneider e Aurora Onofri (ph: Adele Pozzali).

Il ruolo dei musicisti dunque è importantissimo. In che modo hai lavorato con loro?

Sì, il loro contributo va oltre la composizione delle musiche. Li ho conosciuti un paio d’anni prima di girare il film e sono stati fondamentali nel farmi scoprire il mondo del jazz, verso il quale provavo molta curiosità. Mi sono quindi lasciato guidare alla sua scoperta. Mi hanno raccontato le storie dei musicisti e molti dei racconti sono poi finiti nel film, ad esempio la figura del padre del protagonista è un omaggio ai musicisti degli anni Ottanta e Novanta e in particolare a Massimo Urbani. E poi devo dire che sono stati incredibilmente generosi, hanno sempre creduto nel progetto, anche quando il film non aveva ancora una produzione. Insomma, sono state delle figure importanti proprio a livello di scrittura.

Dalla visione si evince la cura con la quale hai costruito, aiutato dalla fotografia di Luca Bigazzi, l’atmosfera giusta per questa storia. Qual è stata la tua fonte d’ispirazione?

È stata sicuramente Milano, che ha plasmato il linguaggio del film: volevamo un’estetica metropolitana e contemporanea per portare il jazz al mondo d’oggi. Si tende a relegare questo genere al passato, mentre noi avevamo la voglia di attualizzarlo. Per questo ci siamo appoggiati a Milano, facendo anche ricerche sull’architettura e decidendo di raccontare soprattutto i quartieri riqualificati. L’idea era quella di immergere questa storia in una metropoli europea e sicuramente Milano lo è, molto più di altre città italiane.

Puntavi sin da subito ad un cast internazionale?

Anche in questo caso c’entra Milano: prima della pandemia aveva un’energia incredibilmente internazionale e abbiamo pensato che fosse un’idea interessante restituirla attraverso il cast del film. Nello specifico Daniela Vega l’avevamo vista su Una donna fantastica, mentre Niels Schneider lo seguo dai primi film con Xavier Dolan e ho pensato che per lui fosse arrivato il momento di interpretare un personaggio alle prese con il fatidico passaggio all’età adulta, un uomo che dovesse scendere a patti con il ruolo di padre.

Futura Daniela Vega
Daniela Vega è Lucya in “Futura” (ph: Adele Pozzali).

Daniela Vega ha un ruolo davvero interessante e quando canta Un bel dì vedremo crea uno dei momenti più d’impatto all’interno della pellicola. Parlami del suo personaggio.

È un personaggio che è l’antitesi del protagonista. Lui cerca l’isolamento dal mondo ed è un emarginato per scelta, mentre lei lo è perché si trova a vivere le difficoltà delle donne che affrontano la transizione. Anche per questo stanno bene insieme: lei non chiede niente che lui non possa darle e si tengono compagnia girando per questa città notturna. Persino nel rapporto con i figli sono agli opposti: lei ha il forte desiderio di tornare dal suo bambino, un desiderio che esprime anche attraverso la Butterfly, una donna alla quale tentano di portare via il figlio, appunto, mentre invece il protagonista fa fatica a prendersi le responsabilità paterne e rifiuta quasi questo ruolo. Daniela poi ha un’energia davvero incredibile e la trasmette al film, senza contare che ha anche una formazione da cantante lirica e quindi ci ha permesso di giocare con la sua voce.

 

 

 

L’incredibile successo della comedy italiana: Lundini, LOL & Co.

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Anche in Italia la comedy sta diventando una cosa seria, come si è potuto notare soprattutto da quando su Prime Video è approdato LOL, game show dal successo incredibile . Da poco rinnovato per una seconda stagione, il gioco prevede che dieci comici competano tra loro, con l’obiettivo di non ridere per sei ore consecutive, pena l’eliminazione. Tra i concorrenti vecchie glorie della comicità nostrana, ma anche volti nuovi, provenienti da vari ambiti del settore, tra cui la stand-up comedy, realtà che va affermandosi sempre di più anche in Italia. Una spinta notevole al genere è stata sicuramente data dal web: come per molti prodotti audiovisivi è stato Netflix a ricoprire un ruolo fondamentale nel diffondere, all’interno dell’immaginario comune italiano, un tipo di comicità di importazione come la stand-up.

comedy LOL chi ride è fuori
Elio e Lillo in “LOL – Chi ride è fuori”.

Sulla piattaforma di streaming è possibile trovare anche tre comedian italiani: Edoardo Ferrario, Francesco De Carlo e Saverio Raimondo. I tre live, girati al Santeria di Milano, sono stati prodotti da Dazzle, una realtà molto attenta alla stand-up comedy, che si è occupata anche di produrre il primo show di Luca Ravenna, tra i concorrenti di LOL. In comune questi comici hanno uno sguardo disincantato verso il proprio paese, prevalente nel caso di Raimondo che si occupa principalmente di satira. Questo disincanto poi si estende nei confronti della propria generazione negli special di De Carlo e Ferrario. La riflessione sui thirties negli ultimi anni è infatti il leitmotiv di molta stand-up comedy d’oltreoceano, e arriva così anche in Italia. Agli spettatori, per lo più trentenni, si chiede di riconoscere ironicamente il disagio di quell’età, e a farlo è qualcuno che si trova in quella fase della vita, una fase costellata ora più che mai da incertezze condivise, che quindi, da fonte di più o meno piccole preoccupazioni personali, diventano spunto per una risata collettiva.

Ed è proprio la giovane età di chi adesso fa e guarda la stand-up comedy a rendere i nuovi media fondamentali per la sua diffusione. Se infatti per un comico lo svezzamento avviene ancora in buona parte in televisione, è sempre di più il web a decretarne il successo. Le performance che hanno avuto luogo su canali tradizionali, come può essere Comedy Central, punto di raccolta di tutti gli stand-up comedian italiani, vengono condivise e ottengono così nuova linfa vitale grazie a un pubblico più ampio [qui la nostra intervista a Michela Giraud].

Comedy Central Michela Giraud
Michela Giraud in “Comedy Central”.

 

E che il web sia fautore della comicità di nuova generazione lo dimostra un caso come quello del programma Una pezza di Lundini. In onda su Rai 2 in seconda serata, è il tentativo da parte della televisione nazionale di rivolgersi a un pubblico giovane e soprattutto di sfruttare la piattaforma di streaming Rai Play.

La possibilità di servirsi dell’on-demand, interesse della TV nazionale da qualche anno, è intrinseca nel concept stesso del programma, che gioca con il fatto che sia improvvisamente saltata un’altra produzione, lasciando un buco nel palinsesto al quale Lundini deve mettere, appunto, una pezza. Da qui dunque la natura incostante della messa in onda della prima stagione, resa possibile proprio dal poter recuperare le puntate in un secondo momento su Rai Play. Il profilo Instagram del conduttore Valerio Lundini diventa così il canale privilegiato tramite il quale avvisare gli spettatori sulle sorti del programma serata per serata, portando all’estremo l’intersecarsi di comicità, televisione e nuovi media. Questi ultimi, inoltre, sono tra i principali punti di interesse dello show stesso che, con sfumature nonsense, riflette sullo stato attuale della TV e sui suoi tentativi di intercettare una generazione che predilige l’intrattenimento offerto dalla rete.

A fronte del grande successo, anche Una pezza di Lundini è stato rinnovato per una seconda stagione, questa volta con una programmazione costante. Ciò a riprova del fatto che conviene sempre scommettere sulla comedy di qualità, che sia in grado soprattutto di aggiornarsi e di stare al passo con i tempi. Perché se c’è qualcosa che invecchia male e velocemente è proprio la commedia. 

Ritoccàti, la serie in cui la chirurgia estetica fa sorridere

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La risata è probabilmente tra i veicoli più potenti per trasmettere un messaggio, in grado di arrivare in questo modo a quante più persone possibili. Ecco perché in un paese in cui i pregiudizi sulla chirurgia estetica sono ancora tanti, si sceglie una commedia come Ritoccàti per parlarne con leggerezza, ma certamente non con superficialità. Ideata da Luca Rochira e dal chirurgo Giulio Basoccu, la seconda stagione è appena andata in onda su Sky Uno ed è ora disponibile su Now. Ad interpretarla alcuni tra i giovani attori più apprezzati nel panorama italiano, come Federico Cesari, Giancarlo Commare, Neva Leoni e Michela Giraud. A parlarne è proprio Michela, insieme al regista Alessandro Guida

Perché una sketch-comedy incentrata sulla chirurgia estetica?

Alessandro Guida: Ritoccàti nasce da un’idea di Giulio Basoccu. È stato lui a voler fare una serie televisiva dall’impronta comedy, sia perché la chirurgia estetica è un mondo poco esplorato dalla televisione, sia perché in Italia c’è ancora della paura intorno a questa pratica, a volte anche della vergogna. Questo è quindi un tentativo per sdoganarla. Abbiamo scelto un approccio che fosse il più lieve possibile perché la comicità è il modo migliore per agganciare il pubblico e riflettere su tematiche simili.

Michela Giraud: Giulio Basoccu ha avuto l’intuizione di costruire intorno al suo lavoro un prodotto di spessore: nella serie parla di accettare se stessi, non di fare degli interventi per cambiarsi. Io trovo che sia un’operazione di marketing-non-marketing molto intelligente. È una serie senza pretese e dopo un anno così pesante è bello vedere qualcosa che ti permetta di staccare, una serie leggera e non superficiale.

A chi si rivolge Ritoccàti?

Alessandro: A tutti. Nonostante all’inizio le intenzioni fossero quelle di coinvolgere principalmente un target di ragazzi, vista anche la presenza di un cast molto giovane, poi non è andata solo così. Io sono rimasto davvero colpito quando ci siamo accorti dell’ampiezza del pubblico, complice anche il fatto che Sky Uno è un canale molto seguito dalle famiglie. Ma soprattutto Ritoccàti è in grado di arrivare anche a persone non per forza vicine alla chirurgia estetica.

Ritoccati la serie
Giulio Basoccu, protagonista e ideatore di Ritoccàti.

Michela, come sei stata coinvolta nel progetto?

Michela: Sono stata chiamata da Alessandro, il regista che mi stima di più in Italia. Lui parla di me come se fossi Anna Magnani (per carità, non lo sono, ma mi ci fa sentire). Noi avevamo già lavorato insieme, anche in un’altra serie comedy, Involontaria. E poi mi ha voluta per Ritoccàti.

Alessandro: A me piace coinvolgere Michela perché oltre al talento porta un grande entusiasmo. È capace di fare gioco di squadra e in Ritoccàti questo è fondamentale. Molta della comicità della serie si basa su un lavoro di coppia e nonostante Michela provenga dalla stand-up comedy, dove è da sola sul palco, ha grande capacità di ascolto.

Rispetto all’ambito della comedy ultimamente la percezione comune è che non si possa più dire niente, da un lato per il politically correct dall’altro per evitare di essere sommersi dalle critiche sui social. Qual è il vostro pensiero in merito?

Michela: Ma non è vero che non si può più dire niente, è una falsità. Non si può dire niente se la tua vita è dentro al telefono e vai a vedere tutti i commenti negativi su di te. L’Italia è un paese in cui se vuoi dire una cosa la dici. E aggiungerei purtroppo a volte, perché veramente a me sembra che la gente possa dire proprio tutto, anche troppo. Quindi non è vero, semplicemente i tempi sono cambiati e non si possono più dire certe cose perché è anche giusto che uno non dica più certe cose. È chiaro che se però vuoi dire una parola forte, ma sei in grado di contestualizzarla dandole un senso, allora è un’altra questione. Perché è anche chiaro che quando una persona ha un suo codice etico, capisce da sé quello che si può dire e quello che non si può dire. Per me conta questo.

Alessandro: Per me questa è stata una sfida perché non ero abituato. A parte Involontaria, Ritoccàti è la prima serie comedy che ho realizzato. Mi ha colpito infatti ricevere da Sky tante note in cui ci veniva consigliato di toccare certi argomenti con sensibilità e attenzione. All’inizio è una cosa che ti spiazza, ma si è rivelata invece una bella sfida, perché a quel punto devi ragionare e riflettere per trovare un modo più sofisticato di far ridere la gente. In questo caso mi hanno aiutato tantissimo gli attori, che riescono a rendere divertente qualunque cosa.

Ritoccati regista Alessandro Guida
Ritoccàti, il regista Alessandro Guida al centro.

Oltre a Ritoccàti a cosa state lavorando?

Michela: Sono andate online da poco le ultime due puntate di Lol e poi a metà maggio usciranno i miei due programmi: CCN Comedy Central News con Michela Giraud e Il salotto con Michela Giraud. CCN è la parodia di un telegiornale, mentre invece ne Il salotto invito molti amici, colleghi comici, attori, cantanti e opinionisti di natura molto varia, perché comunque ricalca in qualche maniera l’ossessione per il politically correct (infatti ci saranno anche delle minoranze, tra cui maschi bianchi etero, aha). Ho poi girato i video di Persona By Marina Rinaldi, dove si passa dall’ossessione per la body positive, agli haters, alle etichette. E poi a giugno c’è un appuntamento molto importante, giusto Alessandro?

Alessandro: Sì, uscirà il primo lungometraggio che ho diretto con Matteo Pilati, Maschile singolare. Una piccola avventura che abbiamo realizzato insieme, con un cast giovane di cui fa parte appunto anche Michela, insieme a Giancarlo Commare, Eduardo Valdarnini e Gianmarco Saurino. Siamo molto orgogliosi perché siamo partiti in maniera coraggiosa realizzando un film indipendente e low budget, ma siamo riusciti a fare tombola, ottenendo di uscire su una piattaforma streaming ma avendo anche una distribuzione, per quanto adesso con il covid sia difficile andare in sala. Io poi come sempre faccio video musicali e fra poco ne usciranno diversi. Sto inoltre scrivendo due progetti che spero di realizzare presto.

Umbrella, il corto italo-brasiliano in marcia verso gli Oscar

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Perché mai un bambino dovrebbe volere un ombrello al posto dei giocattoli? Lo raccontano Mario Pece e Helena Hilario, partner sul lavoro e nella vita, con il cortometraggio di animazione Umbrella, che dopo aver vinto numerosi premi (San Jose International Short Film Festival, Florida Animation Festival, New York Animation Film Awards sono soltanto alcune delle tante occasioni in cui ha trionfato) potrebbe addirittura arrivare agli Oscar. Realizzato da Stratostorm, la casa di produzione brasiliana fondata proprio dai due registi, il corto si ispira a quanto accaduto alla sorella di Hilario in un orfanotrofio. «Ci sentivamo di dover assolutamente raccontare questa storia» sono le parole di Mario Pece quando parla della genesi di Umbrella, che è stato in cantiere per anni prima di vedere la luce e trasmettere il suo messaggio d’empatia.

Da dove inizia il viaggio che porta Mario Pece in Brasile?

Tutto è cominciato tra il 2008 e il 2009: dovevo fare un corso di cinema alla New York Film Academy a Roma e invece mi offrirono un’esperienza nella sede di New York, quindi accettai. Dopo un anno iniziai a fare da assistente ai professori di montaggio e conobbi Helena. Cominciammo subito a lavorare insieme, ci spostammo a Los Angeles, ancora più vicino all’industria cinematografica e lì cominciamo a portare avanti dei progetti. Ci siamo occupati di alcuni videoclip di Katy Perry, poi della serie tv Brooklyn 99. Ma dopo tre anni che eravamo a Los Angeles la madre di Helena, in Brasile, si è ammalata e quindi abbiamo deciso di raggiungerla per starle vicino. Adesso sua madre è guarita, ma noi siamo rimasti perché nel frattempo avevamo deciso di iniziare la nostra attività: la Stratostorm.

Come nasce Stratostorm?

Nasce con me e Helena, dalla nostra volontà di metterci in gioco e in proprio nel campo degli effetti visivi. Il primo anno eravamo solo noi, dormivamo in ufficio per quanto lavoro c’era da fare. Poi a piccoli passi, un cliente dopo l’altro, siamo cresciuti fino a diventare una società di quaranta persone. Abbiamo aperto un’altra sede a Los Angeles, lavoriamo con Netflix curando i contenuti per il suo canale Youtube in Sudamerica, lavoriamo con Cartoon Network, ma ci occupiamo anche di progetti indipendenti. Stiamo scrivendo un altro cortometraggio attualmente, speriamo di iniziare la produzione quest’anno.

Parliamo di Umbrella: sta avendo molto successo, tant’è che potrebbe essere in corsa per gli Oscar.

Sì, siamo felicissimi infatti. Umbrella è un progetto speciale. È nato nel 2011, dopo che la sorella di Helena è andata in un orfanotrofio nel periodo natalizio per donare dei giocattoli e tra tutti i bambini ce n’era uno che invece dei giocattoli voleva un ombrello. La sorella non capiva perché, finché questo bimbo di quattro o cinque anni non le ha detto che suo padre lo aveva lasciato lì con la pioggia e che quindi se avesse avuto un ombrello forse sarebbe tornato a prenderlo. Sentivamo di dover assolutamente raccontare questa storia, ma all’epoca non avevamo abbastanza esperienza, quindi è rimasta a lungo solo un’idea, prima di riuscire a ottenere i finanziamenti. Il primo copione lo abbiamo scritto proprio nel 2011 e solo nel 2015 abbiamo cominciato a lavorare al design dei personaggi e delle location. Poi ci siamo fermati per riprendere nel 2017. A quel punto Umbrella è diventato un lavoro full-time, mentre prima ce ne occupavamo nel tempo libero. Sono stati praticamente venti mesi di produzione.

Perché avete scelto di raccontare una storia senza dialoghi?

Volevamo che fosse il più internazionale possibile. Poi la musica trasmette molte più emozioni di un dialogo. Le espressioni e i gesti, se accompagnati da una musica forte, raggiungono molti più cuori delle parole. Poi il nostro compositore, Gabriel Dib, ha fatto un lavoro davvero strepitoso [Umbrella ha anche vinto ai Global Music Awards ndr]. Il vero messaggio di Umbrella è quello di non giudicare, di provare sempre empatia verso il prossimo, perché non sai mai chi hai davanti, quel è la sua storia, quali sono i suoi problemi.

Non è la prima volta che qualcosa a cui lavori arriva agli Oscar, hai curato anche gli effetti visivi di Whiplash.

Sì, ho lavorato a Whiplash e andammo agli Oscar in quell’occasione. Però lì ero parte di un team che si occupava solo degli effetti visivi, questa è invece la prima volta che sono davanti a un progetto come scrittore, regista e produttore. È una responsabilità più grande, soprattutto considerando che Umbrella è stato una sfida: avevamo poco personale, siamo arrivati a un picco di nove o dieci artisti più quattro persone che lavoravano all’animazione, che è poco se si considerano progetti simili.

Maledetta primavera: il coming of age secondo Elisa Amoruso

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“C’è sempre il sole al Circeo”, anche quando a Roma il tempo non promette bene. Soprattutto quando si sente il bisogno di andarsene per dimenticare ciò che succede in città, lontano dal mare. Ma per Nina il Circeo è bello solo se a farle compagnia c’è Sirley, la sua unica amica. E anche qualcosa di più che una semplice amica. Così si sale in macchina all’improvviso, si mette una musicassetta, si canta Maledetta primavera (qui il trailer) e si va via, verso il Circeo, verso il mare.

Elisa Amoruso scrive e dirige un coming of age ispirato in parte alla sua storia personale, che racconta la primavera della giovane Nina, costretta a trasferirsi nella periferia romana insieme alla sua scapestrata famiglia. Lì incontra Sirley, e come cantava Loretta Goggi sulle note della canzone che dà il titolo al film, per innamorarsi basta un’ora. Perché il primo amore investe Nina repentino e inaspettato.

Sirley è una ragazza africana adottata da una famiglia italiana, che lotta tra il desiderio di integrazione e la volontà di non rinunciare alle proprie origini. Parla solo in francese, ma ciò non comporta l’esistenza di una barriera linguistica tra lei e Nina, che sa parlare a sua volta un francese fluido perché “mamma ci teneva”. Le cose in comune tra le due sembrano però terminare qui, perché Sirley è completamente diversa dalla protagonista: sebbene quasi coetanee, appare già come una donna, balla come una donna. È ribelle e, verrebbe da dire, “selvaggia”. Ed è questo il principale problema di Maledetta primavera, la rappresentazione che viene data di Sirley.

La prima volta che Nina la vede, Sirley sta ballando. Un ballo sensuale, che cattura lo sguardo della protagonista e direziona la macchina da presa. Sirley è sempre oggetto dello sguardo curioso e indagatore di Nina. Uno sguardo che ben presto però si dimostra interessato anche al lato più sessuale della ragazza. E sebbene in questi casi Elisa Amoruso si dimostri delicata e attenta a far vedere il meno possibile, con inquadrature fugaci metafora delle occhiate timide di Nina, il problema di fondo sono proprio i canoni stereotipici a cui si ricorre, che giocano su una rappresentazione bidimensionale e a tratti sessualizzata della figura femminile di colore.

Visivamente, il film è in grado di raggiungere dei picchi estetici degni di nota. In particolare, le scene ambientate al Circeo, con la loro scenografia essenziale, sono immerse in un’atmosfera quasi onirica, che contribuisce a sospenderle e a staccarle dal resto del film, trasmettendo perfettamente il senso di pace che probabilmente la stessa regista provava in quei luoghi.

Una nota di merito va anche al lavoro dell’acting coach Tatiana Lepore, che ha preparato ottimamente la giovanissima attrice protagonista Emma Fasano, perfettamente in grado di reggere il peso di un intero film sulle spalle, nonostante la presenza di molteplici primi piani. Amoruso mostra infatti un interesse particolare per il volto della giovane Nina, un volto attonito di fronte al mondo, il volto di chi è sulla soglia dell’adolescenza e guarda per la prima volta dall’altra parte. Perché in fin dei conti Maledetta primavera tenta di raccontare questo, la spinta che dà il primo amore aldilà della soglia, verso la crescita. Una spinta che coglie impreparati e lascia impauriti, perché in fondo che fretta c’era?

Fortuna: quando il sogno si rivela un incubo

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Il nome della piccola Fortuna suona come una promessa non mantenuta, perché la sorte con lei non è stata generosa quanto ci si augura lo sia con i bambini. La giovane protagonista del film di Nicolangelo Gelormini (interpretata da Cristina Magnotti) è costretta infatti a nascondere un segreto che si svela allo spettatore con l’incedere delle immagini in tutta la sua crudezza, fino alla conferma finale che appare impietosa sullo schermo: tutto questo è successo realmente.

Un altoparlante, un immenso palazzo bianco in mezzo al nulla, e poi improvvisamente delle giostre. Tutto rigorosamente deserto. Sono queste le prime immagini del film. Il vuoto, la mancanza, che sia essa delle istituzioni o dei genitori, si impone da subito come il problema al centro della pellicola. L’intuizione di Gelormini, ovvero quella di dividere il film in due parti all’interno delle quali la storia di fondo resta la stessa, ma a fare da sfondo sono scenari drasticamente diversi, si rivela ottima anche in quanto permette di sottolineare l’universalità della condizione di Fortuna.

Ciò a cui si assiste in sala è una tragedia che il regista sceglie di mettere in scena prima filtrandola attraverso gli occhi della protagonista, per poi aprire una breccia sempre più grande e permettere allo spettatore di intuire la realtà dei fatti ben prima che lo squarcio si allarghi tanto da rivelarla del tutto. Realtà che viene mostrata abbandonando in parte le scelte estetico-formali delle sequenze iniziali, che costituiscono a tutti gli effetti un capitolo a parte, per evitare di abbellire alcunché.

Assume una valenza particolarmente interessante che sia lo sguardo della piccola protagonista a rendere possibile l’impiego di un certo linguaggio filmico nella prima parte. Sono quasi i suoi occhi da bambina a liberare la pellicola dalla tradizionale forma drammatica, a permettere al regista di sperimentare tanto con le immagini in sé, quanto con il montaggio, che arriva a essere repentino in alcuni punti e a conferire una dinamicità ribelle che si oppone alla claustrofobia delle inquadrature. Inquadrature incorniciate da un quattro terzi che contribuisce a schiacciare Fortuna all’interno di una composizione simmetrica che la imprigiona, che aiuta lo spettatore a percepire la presenza di qualcosa di profondamente sbagliato già dall’inizio. Cosa che avviene anche grazie al sonoro, alle basse sequenze che uscendo dal subwoofer investono il petto di chi guarda, il più delle volte poi direttamente dagli occhi della protagonista, dal momento che è copioso l’utilizzo della soggettiva in questa prima parte, rispetto a quanto avviene nella seconda, narrata invece da un punto di vista sì più distante, ma mai distaccato.

Nicolangelo Gelormini dirige con delicatezza sia gli attori più giovani che i volti noti (nel cast figura Valeria Golino) all’interno di un film mutevole quanto i personaggi che vengono messi in scena. Fortuna è un’opera che timidamente osa prendersi delle libertà, seppur non sempre riesce nell’intento, trovandosi a percorrere un terreno accidentato che facilita le cadute. Ma è anche un film che resta in piedi nel suo percorso, forte dell’aver raccontato ciò che aveva da dire.