Classe ’96, Alessandro Rebesani aka RBSN è un giovane e talentuoso compositore, produttore e musicista italiano. La sua strada si è intrecciata con quella di Fabrique nel luglio di questo anno, in occasione dell’evento estivo della rivista, dove Alessandro ha accompagnato la serata con le sue canzoni che fondono psichedelia, jazz, folk ed elettronica. Le sue esperienze accademiche iniziano a Roma con lo studio della chitarra, continuano nel 2015 al Berklee College of Music di Boston e poi nel 2018 al College of Music di Leeds. Dopo anni di esperienze internazionali accanto a importanti nomi europei, RBSN approda a Ropeadope, etichetta statunitense per cui ha pubblicato a maggio il nuovo singolo, Stranger Days, tratto dall’album omonimo da poco disponibile sulle piattaforme.
Quando hai capito che volevi fare della musica il tuo lavoro?
Il momento di svolta per il passaggio da musica-passione a musica-lavoro è stato il supporto dello studio di Trastevere Pyramid e del produttore Luca Gaudenzi. Con lui ho realizzato un EP che ha fatto sì che cominciassi a lavorare con il mio nome, i miei brani, il mio entourage. Da quel momento si sono aggiunte tutte le altre persone con cui ora collaboro. Se poi ti dovessi dire cosa mi ha fatto realmente capire di voler fare musica “da grande”, allora ti dico guardare School of Rock a 9 anni. Mi sono detto: “Sì, voglio fare questo!”.
Studi prima a Roma, poi negli USA e infine in UK. Che differenza hai notato tra le diverse concezioni di musica di questi tre paesi?
C’è sicuramente un modo diverso di vivere la musica. In USA e UK la musica è a ogni angolo, ed è anche un po’ più libera da scopi commerciali e modaioli. Chi fa musica lì non lo fa per farsi un nome o per guadagnare, ma per creare un ambiente sano e godibile da tutti. Quando penso all’Inghilterra, penso agli eventi di South London, dove ti scannerizzano il passaporto, ti tolgono il telefono e stai lì a ballare e ad ascoltare generi diversi per ore. In Italia invece gli eventi di ogni tipo, dai concerti alle degustazioni di vini, sono ancora troppo volti al networking e al chit-chatting. Non si guarda mai l’oggetto che in teoria è protagonista dell’occasione, ma si è sempre alla ricerca di qualcuno di nuovo da conoscere. E la fruizione di contenuti artistici di qualsiasi forma è ancora un po’ elitaria, mentre in altri paesi si abbassano i prezzi per far sì che tutti riescano ad accedervi.
La musica è parte essenziale del cinema: hai mai lavorato all’interno di un progetto audiovisivo?
Sì, mi è capitato più volte e in varie forme. Qualche tempo fa mi è successo di lavorare, sia come attore che come musicista, al cortometraggio Trittico, diretto da Flaminia Mereu e Filiberto Signorello, con Federico Majorana e Francesco Centorame. Lì ho capito che la musica all’interno di un film è un elemento centrale per stimolare l’emozione del pubblico. Sono cambiati i tempi degli Henry Mancini o Ennio Morricone che scrivevano pezzi incredibili che funzionavano benissimo anche da soli. Oggi c’è un sound design che amplifica la dialettica del film e non è un extra-layer, ma più un within.
C’è un film che secondo te non potrebbe esistere senza la colonna sonora?
Un esempio di brano che aumenta la suggestione già presente nella scena è The Wolves dei Bon Iver in Come un tuono. Il brano non è stato scritto per il film, ma c’è un’ottima comunicazione tra il pezzo e la scena, che la rende ancora più suggestiva. Se invece devo pensare a film in cui il soundtrack è qualcosa di totalmente intessuto alle immagini, mi vengono in mente due lungometraggi molto diversi, ma che usano la colonna sonora in modo simile. Il primo è Dune di Denis Villeneuve, dove Hans Zimmer con la sua tecnologia avanzatissima ha creato frequenze molto basse, di 45htz, che fanno vibrare fisicamente. Il secondo è Capri-Revolution di Mario Martone, dove le musiche di Apparat quasi non si distinguono dai rumori naturali delle scene. Grazie all’uso di sintetizzatori e macchine super moderne, il compositore riesce a dare un’impronta melodica a suoni assolutamente naturali, come il fruscio delle foglie o i rumori prodotti dagli uomini.
Con la pandemia abbiamo attraversato un momento in cui l’arte si è dovuta fermare. Come hai trascorso questo periodo di chiusura?
All’inizio del 2020 ero un ragazzo che veniva da un anno molto prolifico, da tanti successi e dal primo tour europeo. Mi sono rifugiato nello studio e nella scrittura, ho metabolizzato le esperienze vissute. Ho inoltre rimodulato la band, inserendo quello che ora è uno dei pilastri del progetto RBSN, il batterista Federico Romeo. Ti posso dire che la pandemia mi ha dato modo di capire come crescere e sicuramente mi ha aiutato a farlo! Perché firmare con una super distribuzione statunitense da Roma, fare un disco a Trastevere che viene masterizzato a Berlino e mandato a New York è un giro molto figo…
E ora che si può ricominciare, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Il nuovo disco è appena uscito su tutti i dispositivi digitali e sarà su Bandcamp, se uno vorrà ordinarsi un vinile. Su Roma ci sarà un delivery a mano fatto dal sottoscritto!
Mi fai il nome di una persona per te importante sotto il profilo artistico?
Ci sono molte figure che mi hanno guidato. Però, se dovessi sceglierne una, ti direi l’artista statunitense Nick Hakim: il suo è un suono nuovissimo per un mondo super post-moderno. Hakim mi piace anche perché è simile a noi, è uno che mentre componeva il suo primo album, Green Twins (2017, ATO Records), faceva le consegne a domicilio.