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Gabriele Landrini

Venezia 75: il mondo in fiamme di Roberto Minervini

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La cinepresa si muove veloce tra corpi e volti indistinti, mentre un bianco e nero elegante conduce lo spettatore in uno dei più noti quartieri afroamericani di New Orleans. Fin dalle prime scene, What You Gonna Do When the World’s on Fire? (qui il trailer ufficiale) sembra fondere il proprio intento documentaristico con uno sguardo tipico del cinema narrativo, muovendosi quasi sospeso tra reportage e finzione. In questo micro-cosmo tanto reale quanto onirico, diversi sono i personaggi che si susseguono davanti all’obbiettivo di Roberto Minervini. Judy, donna impetuosa ma volitiva, gestisce un bar sull’orlo del fallimento e racconta ai clienti la sua storia fatta di droga e violenza. Accanto a lei, Ronaldo e Titus, due fratelli rispettivamente di quattordici e nove anni, affrontano i problemi quotidiani, imparando a convivere con i bulli e con i brutti voti. Krystal Muhammad è al contrario dedita ad una lotta più grande, in quanto capo delle Black Panther, un gruppo rivoluzionario che, dopo i fasti degli anni Sessanta e Settanta, sopravvive ancora oggi chiedendo pari diritti per le persone di colore.

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Un affresco di individui tra loro diversi, ma accomunati dal medesimo retaggio, ovvero quello afroamericano. Attento e mai banale, Roberto Minervini racconta con destrezza queste storie, offrendo fin da subito un ritratto chiaro e definito, ma centellinando le informazioni tra i vuoti del cinema documentario e i pieni di quello di finzione. La storia, capace di far riflettere e di coinvolgere nonostante un ritmo disteso, colpisce per la sua estrema attualità, riuscendo più volte ad emozionare. Soprattutto in alcune sequenze, i personaggi sembrano infrangere lo schermo, chiamando direttamente in causa il pubblico senza ricorrere allo sguardo in macchina. Emotivamente perturbanti sono soprattutto le digressioni di Judy, nelle quali il suo passato emerge come frammenti di un triste quadro.

Meno ispirati sono invece gli espedienti visivi che, pur essendo coerenti nel corso di tutta la narrazione, non colpiscono per inventiva. Minervini sfrutta come accennato un pacato bianco e nero, destinato probabilmente ad evidenziare anche stilisticamente la dicotomia etnica che pervade la società contemporanea. L’utilizzo di una fotografia bicromatica è tuttavia ormai un cliché in svariate pellicole di stampo artistico-concettuale, che vi ricorrono quasi con fini nobilitanti. Parallelamente, la cinepresa alterna movimenti di macchina volutamente confusi a primi piani quasi fissi, in una sorta di cortocircuito visivo sicuramente tutt’altro che inedito. Numerosi sono inoltre le scene in cui i protagonisti – ripresi di spalle ma chiaramente riconoscibili – sono pedinati: Minervini tenta in questo modo di rendere ancora più partecipe lo spettatore, pur non riuscendoci completamente.

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Narrativamente interessante ma stilisticamente non troppo innovativo, What You Gonna Do When the World’s on Fire? è un perfetto esempio di cinema del reale che, tralasciando i sotto-testi più dichiaratamente didascalici del documentario propriamente detto, dialoga con il passato e il presente del cinema tout court. Sebbene sia ormai giunta l’ora di abbandonare costanti (e, permettetemi, anacronistici) paragoni con un Neorealismo ormai morto e sepolto, è invece significativo notare come un cineasta italiano sia riuscito ad avvicinarsi allo sguardo di Gus Van Sant in Elephant, di Tony Kaye in American History X o di Alfonso Cuarón nel suo recentissimo ROMA, visto sempre in questa edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Perdendo originalità, il lungometraggio di Roberto Minervini sembra quindi guadagnare qualcosa d’altro, ovvero la capacità di rischiare intrecciando le logiche del nuovo cinema d’autore con lo scopo ultimo del reportage.

Venezia 75: L’amica geniale tra fiaba, realtà e nostalgia

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In una casa buia suona il telefono. A rispondere è una donna anziana di nome Elena. Una voce dall’altro capo della linea la informa che Lila è scomparsa senza lasciare tracce. Elena si reca allora alla scrivania, accende il computer e comincia a scrivere. In un lungo flashback, la scena si sposta allora nei quartieri napoletani del secondo Dopoguerra, quando la donna, al tempo bambina, ha incontrato per la prima volta quella che sarebbe diventata la sua migliore amica. Questo è l’inizio di L’amica geniale, nuova serie firmata HBO, RAI Fiction e TIM Vision, le cui prime due puntate sono state proiettate in esclusiva in conclusione alla quarta giornata della Mostra del Cinema di Venezia.

Una produzione dal sapore internazionale, dunque, capace di raccontare una storia totalmente italiana debitrice nell’estetica al cinema d’autore e al panorama internazionale. Saverio Costanzo, regista di tutti gli episodi, crea un micro-cosmo lontano ma culturalmente radicato, che trasporta lo spettatore in una favola filtrata dallo sguardo della giovane protagonista. Il personaggio di Elena, che si spartisce equamente la scena con l’amica geniale Lila, racconta infatti gli eventi con ingenuità, lasciando trapelare un’innocenza tipica della giovane età. Grazie a lei, scopriamo i vari personaggi che popolano il rione napoletano, che si anima di figure tra loro opposte.

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Proprio in quest’ultimo elemento si cela la vera forza del progetto che, nonostante le due figure centrali, si delinea come un grande affresco di volti e di personalità, che permettono di suggerire un senso di dolce nostalgia. Naturalmente, questa multiformità narrativa si sviluppa in modo interessante anche grazie all’ottimo libro da cui è tratta, ovvero l’omonimo best-seller scritto da Elena Ferrante. Il merito non può però essere attribuito esclusivamente all’autrice del romanzo: la cinepresa di Saverio Costanzo si muove infatti con decisione tra le differenti figure, indagando senza essere invasivo le loro vite. Lo sguardo del cineasta, come si è detto coincidente spesso con quello della protagonista, girovaga tra i palazzi con sommessa raffinatezza, non entrando quasi mai nelle case ma spiando le vicende dalle finestre e dai corridoi.

La funzionale ricostruzione scenografica, curata da Giancarlo Basili, aggiunge veridicità a questo turbinio di storie, che acquistando gradualmente verosimiglianza. Al contrario, la fotografia di Fabio Cianchetti, tendente invece ad una colorazione calda, rifiuta il mero realismo, facendosi ambasciatrice di una velata malinconia, dovuta al ricordo di un mondo che ormai sembra essere mutato inesorabilmente. Queste due dimensioni, all’apparenza opposte l’una all’altra, sono in realtà perfettamente equilibrate, in quanto riflessi di una reminiscenza tanto tangibile quanto ormai effimera. L’espediente del racconto nel racconto, che proseguirà probabilmente fino all’ultima puntata, permette una maggiore libertà narrativa ed espositiva, merito chiaramente di una memoria che dissolve i confini tra realtà e finzione.

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La riuscita di queste prime due puntate non è tuttavia solo merito del regista e degli operatori, ma anche degli attori. Sebbene non sia ancora possibile giudicare gli interpreti degli episodi successivi, è più che possibile affermare che le protagoniste più giovani siano perfette nel proprio ruolo. Elisa Del Genio è abile nel caratterizzare in modo duplice Elena, bambina che nonostante un’estrema dolcezza non si nasconde davanti al pericolo. Più taciturna, Lila – incarnata da Ludovica Nasti – dialoga invece con lo sguardo e con il movimento del corpo, apparendo altrettanto espressiva. Se non è possibile commentare l’intera produzione, in uscita a partire dal 30 ottobre, le prime due puntate di L’amica geniale offrono dunque ottime premesse per una serie che non solo intreccia fiaba e realtà, ma convince sia nella narrazione, sia nella messa in scena.

Venezia 75: Zen sul ghiaccio sottile e la forza della diversità

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Il cinema italiano si sta sempre più spesso confrontando con le nuove generazioni, raccontando storie che vedono giovani adolescenti scoprire la propria identità, la connaturata sessualità e il problematico futuro. Se recentemente il filone cosiddetto giovanilistico ha invaso le sale cinematografiche grazie a interessanti pellicole come Piuma di Roan Johnson e Dei di Cosimo Terlizzi, anche la Mostra del Cinema di Venezia sembra confermarne il successo, scegliendo come vincitrice del programma Biennale College Cinema l’opera prima di finzione di Margherita Ferri, intitolata Zen sul ghiaccio sottile.

Racconto generazionale che oscilla tra il classico e moderno, il lungometraggio della cineasta italiana segue le vicende Maia, detta Zen, una sedicenne in costante conflitto con i coetanei e gli adulti, perché incapace di accettarsi in quanto ragazza: unica giocatrice di sesso femminile in una squadra di hockey degli Appennini, Zen si sente fisicamente e mentalmente un ragazzo e, proprio per questo, viene costantemente perseguitata da nomignoli dispregiativi e scherzi di dubbio gusto. Le cose sembrano cambiare quando Vanessa, una delle ragazze più popolari della scuola, decide di scappare di casa, nascondendosi segretamente nel rifugio di montagna di proprietà della madre di Zen.

zen sul ghiaccio sottile

Capace di confrontarsi con temi complessi con dolcezza e pacatezza, Zen sul ghiaccio sottile (qui il trailer ufficiale) affronta in modo sorprendente un argomento scottante come l’incapacità di comprendere e accettare la propria identità sessuale. Non limitandosi ad attingere dalle logiche dei coming of age movies a sfondo LGBT+ – con cui si sono confrontati diversi registi italiani, come Luca Guadagnino in Call Me By Your Name o Ivan Cotroneo in Un Bacio –, Ferri problematizza ulteriormente la narrazione, spostando l’attenzione sul complesso rapporto tra una ragazza e il suo corpo biologicamente inadatto. La velata transessualità della protagonista, costantemente in crescendo nel corso della visione, è sicuramente il punto forte della storia, che appare proprio per questo motivo estremamente coraggiosa e a tratti inedita nel panorama italiano.

Anche la scelta di focalizzarsi solo parzialmente sull’intreccio d’amore palesa il desiderio della cineasta di aggiungere veridicità alla narrazione, che non appare votata esclusivamente a proporre tradizionali leit motiv rosa. Parallelamente, la messa in scena gioca su tonalità fredde, accompagnate dalle pittoresche e in questo caso inospitali montagne dell’Appennino emiliano; la contrapposizione visiva tra gli spazi italiani e le riprese del ghiaccio artico che si sfalda si delineano inoltre come un’ottima metafora allusiva, che scandisce l’evoluzione della protagonista e la sua maturazione emotiva e identitaria. Nonostante la sceneggiatura scritta sempre dalla Ferri appaia acerba in certi passaggi, si spera dunque che in futuro la regista non perda il desiderio di sperimentare tematiche e stili inesplorati, proponendo con la stessa destrezza altre narrazioni, per così dire, differenti.

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Accanto all’interessante regia, degni di nota sono infine i giovani membri del cast, che rientrano nella felice ondata di rinnovamento che sta travolgendo lo star system nazionale. Eleonora Conti, protagonista assoluta nel ruolo di Zen, riesce a delineare solo con la mimica un personaggio complesso e non etichettabile. Meno sfacciata ma altrettanto multiforme, la Vanessa di Susanna Acchiardi colpisce per la semplicità con cui alterna i detti e i non detti, che puntellano il carattere fragile di una ragazza almeno all’apparenza felice. Accanto alle due figure principali, non mancano anche riusciti personaggi secondari, come la mamma con il volto Fabrizia Sacchi, dolce e risoluta, e il fidanzato dalle fattezze di Ruben Nativi, burbero ma protettivo.

Venezia 75: Suspiria, quando il sospiro diventa silenzioso

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Quando Luca Guadagnino ha annunciato il remake di Suspiria, celebre pellicola horror di Dario Argento, una domanda è subito sorta spontanea: è davvero possibile produrre una nuova versione di un vero e proprio cult del cinema italiano? Se molti affezionati fan hanno risposto fin da subito negativamente, solo dopo oggi è possibile esprimere un parere concreto e almeno parzialmente definitivo. Presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, Suspiria (qui il trailer ufficiale) è stato infatti il titolo principale di questa quarta giornata di proiezioni veneziane, dimostrandosi capace di sorprendere in quanto totalmente diverso dal suo predecessore.

Le nuove avventure di Susie Bannion e della misteriosa scuola di danza che decide di frequentare appaiono fin dai contenuti estremamente più complesse e sfaccettate. Nonostante la storia originale sia conservata nelle sue premesse generali, la sceneggiatura di David Kajganich appare innovativa già dalla sequenza d’apertura, rievocando anche un contesto storico non facilmente trattabile nei film di genere: la Guerra Fredda e i drammi del dopoguerra berlinese sono elementi costanti nella pellicola, che intreccia le note vicissitudini sovrannaturali con un trauma più vasto e tangibile. In tal senso, linee narrative inedite si confrontano con quelle che i fan di Argento ben conoscono, aprendosi a nuove ed inquietanti svolte.

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Il ripensamento narrativo, che offre non poche sorprese nel corso delle due ore e mezza di visione, non è tuttavia esclusivamente additivo, poiché ripensa anche diversi elementi della storia ideata quattro decenni fa. I personaggi femminili appaiono in netta contrapposizione con le proprie antesignane, delineandosi come modelli di donne forti, lontane dalle scream queens – rubando un termine all’horror a stelle e strisce – del cult del 1977. Ottime in questo senso sono soprattutto le due protagoniste Tilda Swinton e Dakota Johnson: se la prima si è innumerevoli volte dimostrata una delle più brillanti attrici del panorama internazionale, la seconda è finalmente pronta a mettersi in gioco seriamente, dopo il terribile franchise di Cinquanta Sfumature.

Andando oltre il piano contenutistico, in controtendenza con il passato è anche la dimensione più propriamente tecnica, che abbandona l’asfissiante pienezza di Argento a favore della freddezza ispirata di Guadagnino. Proponendo inquadrature eleganti in ogni singolo dettaglio, il cineasta palermitano svuota la scena, operando principalmente su tre livelli: la scenografia, la fotografia e il sonoro. Nel primo caso, l’eccesso tipico del maestro del cinema horror italiano lascia spazio a luoghi più geometrici, estremamente spogli nelle forme ma non meno claustrofobici e disorientanti. Soprattutto le sequenze di ballo, dove i corpi delle attrici dialogano maggiormente con i pavimenti e le pareti, insinuano marcatamente nello spettatore un senso di piacevole inquietudine.

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Parallelamente, la fotografia abbandona quasi interamente i colori forti e tendenti al rosso sangue, giocando anche in questo caso con tonalità più fredde, che si adattano perfettamente al contesto post-bellico nel quale si svolgono le vicende. Questo minimalismo è rintracciabile anche nella controparte sonora, che è forse tra le più interessanti tra quelle fino ad oggi proposte da Guadagnino. Mentre la floridezza linguistica vista in Call Me By Your Name è mantenuta, nuovo è invece l’uso che il regista fa del silenzio e soprattutto del sospiro, che puntella tacitamente l’intera narrazione, accompagnando lo spettatore verso l’atteso e visivamente inaspettato finale.

Tornando infine alla domanda iniziale, sembra quindi giusto chiedersi nuovamente: è davvero possibile rifare un cult? Suspiria di Luca Guadagnino ci insegna che la risposta non può che essere affermativa ma, affinché ciò avvenga, è necessario rimodellare totalmente il passato, rispettandolo ma anche restituendolo a proprio modo.

Corro al cinema a vedere un concerto: quando il film diventa evento

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In un contesto sempre più poliedrico e sfaccettato, il cinema ha mutato negli ultimi decenni le proprie logiche commerciali, tentando di sperimentare inediti confronti con lo spazio della sala. La Nexo Digital, azienda italiana attiva nel campo della distribuzione dal 2009, si è mossa più di altre proprio in questo senso, ricorrendo sistematicamente all’escamotage dei film-evento.

Sempre più diffusi e tematicamente variegati, i film-evento targati Nexo sono lungometraggi fruibili in sala per un tempo circoscritto a due o tre giorni, votati alla diffusione di contenuti particolari e non prettamente narrativi, che oscillano tra grandi cult della storia del cinema ed esperienze di teatro filmato, tra documentari di natura artistica e concerti pop-rock, spaziando perfino nell’ambito di importanti incontri sportivi o di para-informazione. Al fine di dare continuità ad un’offerta molto ampia e caleidoscopica, la società fondata da Franco di Sarro non si limita tuttavia a presentare una rosa di opere tra loro sconnesse, ma riscopre le logiche delle rassegne: tipico dei cineclub e dei cineforum, tale stratagemma permette infatti di accostare in calendario progetti dai caratteri simili, dando vita a cicli di proiezioni implicitamente propensi a fidelizzare spettatori interessati ad un determinato argomento.

Una struttura ibrida è dunque quella che accompagna il micro-cosmo dei film-evento che, come si è accennato, consente di eludere la semplice narratività a favore di temi e modelli meno inflazionati. Scorrendo la lunga lista di titoli presentati annualmente dalla Nexo Digital, è tuttavia lecito chiedersi quali siano le linee creative alla base e in cosa differiscano da quelle di qualsiasi altra casa di distribuzione italiana. Rifuggendo le tradizionali regole che muovono l’economia del cinema, l’azienda milanese mira anzitutto all’importazione di film poco noti al grande pubblico, non davvero introvabili ma non così facilmente reperibili sullo schermo. Si pensi ad esempio alle pellicole d’animazione giapponese che, raccolte nella quinquennale rassegna Nexo Anime, vengono proposte alternando piccoli cult ad operazioni inedite. In questo bacino di produzioni nipponiche, si sono succeduti grandi successi di critica e pubblico quali il cult Ghost in the Shell di Mamoru Oshii, l’indimenticabile Akira di Katsuhiro Ôtomo, l’acclamatissimo Your Name di Makoto Shinkai o parti di celeberrimi franchise come Yu-Gi-Oh!: The Dark Side of Dimensions di Satoshi Kuwabara.

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Parallelamente, la Nexo Digital ripropone sul grande schermo lungometraggi del passato i quali, per diversi motivi, hanno segnato in modo irreversibile la storia del cinema mondiale: svincolati generalmente da cicli o da accostamenti ad altre pellicole, film come Shining di Stanley Kubrick o Colazione da Tiffany di Blake Edwards sono approdati nuovamente in sala attirando un numero inaspettatamente elevato di spettatori, desiderosi di passare rispettivamente Halloween e San Valentino con i noti personaggi di Jack Torrance e Holly Golightly.

Da ultimo, la casa di distribuzione tenta di fondere il cinema con una concezione artistica tout court, aprendosi alla pittura, alla musica e al teatro. Contenuti profondamente alternativi come i concerti degli Aerosmith o dei Led Zeppeling, le rappresentazioni teatrali in diretta dal Royal Opera House di Londra o i balletti di danza classica ugualmente live dal Bolshoi di Mosca sfruttano o hanno sfruttato il grande schermo come un portale attraverso cui confrontarsi con l’arte ampiamente intesa: ricorrendo alla popolarità del mezzo cinematografico, eventi altrimenti proibitivi divengono quindi accessibili a tutti gli interessati, consentendo loro di vivere virtualmente esperienze che al contrario riuscirebbero difficilmente a concretizzare.

il lago dei cigni

Se l’offerta è ricca di opere nuove ed inaspettate, la formula distributiva è contemporaneamente caratterizzata dalla concentrazione temporale delle proiezioni, a cui si può assistere per un numero spesso estremamente ridotto di giornate. Accanto alle tradizionali logiche commerciali, il film-evento si muove pertanto in territori solo parzialmente esplorati, issando l’esclusività a fattore determinate per il successo al box office. Le limitate possibilità di fruizione favoriscono infatti la creazione di un’aurea di unicità e di conseguente imperdibilità attorno alle singole opere, che in questo modo attirano un vasto numero di spettatori affezionati. Analogamente, l’apertura ad un ventaglio di tematiche spesso non canoniche richiama un pubblico non abitualmente propenso a recarsi in sala: se i grandi blockbuster o le pellicole di finzione attraggono amanti del cinema nel suo complesso, queste piccole esperienze scisse tra differenti arti coinvolgono più direttamente gli amanti del teatro, della musica e delle esposizioni museali.

Tra eventi e rassegne di breve durata, la Nexo Digital si è indubbiamente imposta negli anni come emblema di una distribuzione alternativa, palese sia nelle pellicole prescelte, sia nelle modalità in cui sono proposte. A quasi dieci anni dalla nascita, una domanda sorge tuttavia spontanea: tale modus operandi controcorrente può dirsi davvero riuscito? Osservando le cifre, la risposta non può che essere affermativa. Solo nell’ultimo anno, lungometraggi come Loving Vincent di Dorota Kobiela e Hugh Welchman o Pokémon. Scelgo te! di Kunihiko Yuyama si sono rivelate grandi successi al botteghino, tanto da rimanere in sala più giorni rispetto a quelli originariamente stabiliti. Constatato quindi il positivo riscontro del pubblico, l’operazione Nexo può dirsi non solo semplicemente vittoriosa, ma forse perfino necessaria: mentre il cinema nazionale deve fare i conti con fenomeni ormai inevitabili come lo streaming digitale e la pirateria imperante, l’idea di un nuovo modello distributivo permette infatti alla visione in sala di trovare nuova vita, aprendosi a temi e modalità che potrebbero riconquistare il consenso di innumerevoli spettatori.

Castello Errante: luglio tra cinema, cibo e bellezze paesaggistiche

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Il mondo del cinema non ha mai rifuggito lo scambio tra le diverse culture, rendendolo anzi una carta vincente da declinare in diversi modi. Collaborazioni, co-produzioni e idee differenti sono infatti state alla base dell’arte e dell’industria cinematografica che, nei momenti di massimo splendore, ha fatto del confronto inter-nazionale una risorsa da cui attingere. In un periodo dove questa sincronia di intenti non appare più così semplice e concretizzabile, Castello Errante mira proprio a riscoprire la vera forza dei linguaggi espressivi nati in differenti nazioni, dando vita ad uno spazio di dialogo capace di cancellare qualsiasi confine.

Castello Errante è dunque la prima Residenza Internazionale del Cinema, ovvero un progetto focalizzato sul confronto tra cinematografie diverse, in questo caso italiane e sud-americane. Giunta alla sua seconda edizione, dopo l’ottimo riscontro di quella precedente, tale residenza è attualmente in corso, inaugurata il primo luglio e destinata a concludersi a fine mese. Annualmente, si svolge in un piccolo borgo della regione Lazio: quest’anno la location è la splendida Abbazia dei Santi Quirico e Giulitta, a Micigliano (RI), ovvero un monastero fondato intorno all’anno 1000 da alcuni monaci benedettini e oggi prestatosi a questa iniziativa.

Puntando sull’interculturalità, Castello Errante coinvolge naturalmente molteplici enti: nata da un’idea di Adele Dell’Erario, la residenza è infatti organizzata da Occhi di Giove srl con il sostegno del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo (MIBACT) della Regione Lazio, dell’Unione di Comuni della Bassa Sabina e del Comune di Cottanello, in collaborazione anche con l’Istituto Italo Latino Americano-IILA e le Ambasciate dell’Argentina, del Cile, della Costa Rica, di Cuba, del Guatemala, del Nicaragua, del Perù e dell’Uruguay, oltre che la Roma Lazio Film Commission.

Se il connubio inter-culturale è lo scopo primario di questa esperienza, affinché esso si concretizzi gli studenti che vi partecipano – provenienti ovviamente dalle più importanti Scuole di Cinematografia italiane e dell’America Latina – realizzeranno nel corso dell’interno mese un cortometraggio, che sarà poi presentato e diffuso in festival nazionali e internazionali, al fine di valorizzare le bellezze paesaggistiche della regione Lazio, oltre che il progetto cinematografico stesso.

Non bisogna tuttavia pensare che questa iniziativa sia riservata esclusivamente agli studenti o agli addetti ai lavori. Proponendo come tema cardine il cibo, Castello Errante offre infatti anche quattro eventi destinati al grande pubblico, ovvero tre proiezioni e un convegno. Nel primo caso, si susseguiranno a cadenza quasi settimanale le proiezioni – con ospiti internazionali – del cortometraggio Nado de Invierno (Cile, 2017) di César González Álvarez e del film Cirqo (Cile, 2015) di Orlando Lüb-bert il 7 luglio; quelle del cortometraggio Oslo (Cuba, 2013) di Luis Ernesto Doñas Gó-mez e del film Hello Hemingway (Cuba, 1990) di Fernando Pérez il 13 e quella di Mr. Kaplan (Uruguay, 2015) di Álvaro Brechner il 26. Il convegno si svolgerà invece il 29 luglio, in conclusione all’iniziativa, e presenterà una serie di interventi dedicati al cinema, al cibo e al turismo.

Per ulteriori informazioni e per il programma completo, è possibile consultare il sito ufficiale e la pagina Facebook.

Dei: adolescenza e crescita secondo Cosimo Terlizzi

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Il cinema italiano sta negli ultimi anni riscoprendo i racconti di formazione: pellicole come Scialla (Stai sereno) di Francesco Bruni, Un bacio di Ivan Cotroneo o Piuma di Roan Johnson hanno infatti intrecciato le classiche logiche del bildungsroman con nuovi modelli di intendere l’adolescenza, lontani da ciò a cui ci avevano abituato le produzioni commerciali dei primi anni Duemila. Ultimo in ordine di tempo, Dei (qui il trailer ufficiale) è una nuova ed interessante declinazione del micro-cosmo giovanile, indagato questa volta alla luce di una velata nostalgia che ricorda l’ultimo lavoro di Abdellatif Kechiche.

Martino (Luigi Catani) è un diciassettenne innamorato dello studio e della filosofia. Costretto a vivere nella povertà della campagna pugliese, tenta ogni giorno di fuggire dalla monotonia della vita contadina, infiltrandosi con l’amica Valentina (Angela Curri) alle lezioni di storia dell’arte dell’Università di Bari. Durante il corso, conosce l’affascinante ed enigmatica Laura (Martina Catalfamo), una studentessa che divide un appartamento in centro con un gruppo di ragazzi, tra cui il musicista Ettore (Andrea Arcangeli). Questi nuovi ed inaspettati amici stravolgono completamente la vita di Martino, convincendolo anche a ripensare il rapporto con il burbero padre (Fausto Morciano).

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Opera prima dell’artista e documentarista Cosimo Terlizzi, Dei intreccia fin dalle prime sequenze un interessante impianto narrativo con una dialettica di espedienti esteticamente ricercati. La storia, pur riprendendo logiche da coming of age movie ormai particolarmente diffuse, si svincola da qualsiasi stereotipo, restituendo con credibilità la crescita emotiva e umana del protagonista, nonché la ricontrattazione dell’instabilità connaturata alla gerarchia famigliare. Anche la metafora dell’albero di ulivo, che con cadenza regolare ritorna in sequenze dal sapore onirico, si intreccia coerentemente con la dimensione realista, offrendosi come perfetto contrappunto visivo.

Analogamente, la sceneggiatura venata di sotto-testi filosofici permette di intrecciare la concretezza di una storia estremamente veritiera con una dimensione-altra, lontana tuttavia dalle svolte sovrannaturali di lungometraggi come il recente Lazzaro Felice di Alice Rohrwacher. Da un punto di vista formale, la formazione pregressa del cineasta favorisce un utilizzo accorto di inquadrature dove l’equilibrio vige da padrone. Come in piccoli tableaux vivants, i personaggi assumo infatti pose dall’eco pittorico, interagendo con gli ambienti ma soprattutto con le luci. Sono proprio queste ultime che, alternando effetti bruciati ad altri quasi stroboscopici, permettono di caratterizzare in modo peculiare alcuni passaggi, tra cui i bellissimi primi piani del protagonista.

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Un conclusivo appunto deve essere infine mosso relativamente al cast. Luigi Catani, classe 2000, si dimostra nonostante la tenera età un perfetto protagonista, abile a giocare sui non detti e di trasmettere la profondità del suo personaggio ricorrendo spesso solo alle espressioni del volto. Ugualmente, il più navigato Andrea Arcangeli incarna un archetipico fratello maggiore, sensibile e duro contemporaneamente, capace di accompagnare il giovane amico nei cambiamenti della vita: l’interprete, già ottimo in The Startup di Alessandro d’Altri, si conferma pertanto uno dei più brillanti giovani divi del panorama contemporaneo. Degne di nota, anche le controparti femminili, come la convincente Angela Curri e l’incisiva Martina Catalfamo.