Tra le uscite del weekend spicca Lazzaro felice (qui la nostra recensione), conferma artistica di Alice Rohrwacher che, a pari merito con il film iraniano in concorso, ha ottenuto il Premio alla sceneggiatura al Festival di Cannes. Il suo Lazzaro (l’esordiente Adriano Tardiolo) giovane mezzadro tontolone buono come il pane, vive in condizione di semischiavitù. Da qui si parte per una parabola rupestre che si fa metropolitana, attraverso i decenni con delicatezza e una follia narrativa mirate, come nelle stesse parole dell’autrice, a un momento ben preciso: «Il passaggio da un medioevo materiale a un medioevo umano: la fine della civiltà contadina, la migrazione ai bordi della città di persone che non sapevano nulla della civiltà». Così il «maldicampagna» dei personaggi sedimenta in rivalsa sociale.
In una metafora cinema vagamente simile a quel Cercasi Gesù che vedeva un giovane Beppe Grillo cristologico, a margine della spiritualità il costo del lavoro viene tratteggiato come tragica asta al ribasso. L’elemento principale è la terra, i personaggi hanno anima pasoliniana, e tutto si lascia avvolgere di operetta morale, canto di libertà e sentimenti contro il suo contrario. Se nel Grande Inganno ordito dalla marchesa schiavista col volto affilato di Nicoletta Braschi la tenuta dell’Inviolata ci appare come periferia di ogni tempo, l’amicizia tra Lazzaro e il rampollo Tancredi oltrepasserà gli anni mostrandoci un epilogo inaspettato.
Dall’Italia appenninica della Rohrwacher ci spostiamo alle Alpi friulane di Renzo Carbonera. Il suo esordio registico s’intitola Resina, perché come dirà un suo personaggio, «è quella che lega tutto». È un film a marcia bassa, dove il legame lo fanno le panoramiche ipnotiche sui paesaggi montani, crepuscolari o nebbiosi: quasi fotografie che intervallano la vicenda di una giovane musicista in crisi. Un lutto spezza la sua famiglia, ma lei accetta di dirigere il coro cimbro del paese montano dov’è tornata. Il cimbro è una lingua germanica parlata da un centinaio di persone a Ruda e dintorni. Circondata di educato maschilismo cercherà di riapprodare al proprio equilibrio in una cornice cinematografica strettamente territoriale e sulle poche, esili note di una storia vera, che sul grande schermo presenta qualche leggerezza narrativa, un cast perfettibile e momenti abbastanza barbosi.
Quando si attraversa l’oceano per guardare al cinema americano ci si lascia sempre alle spalle ogni sensazione soffusa. Così al cospetto di Steven Soderbergh c’imbattiamo nel suo nuovo heist movie La truffa dei Logan. Channing Tatum e Adam Driver fanno due fratelli un po’ iellati: uno operaio licenziato per la sua zoppia, l’altro barista senza un braccio. Entrambi offesi dalla guerra in Iraq. Sgraffignare l’incasso della più grossa corsa del circuito Nascar è la soluzione per risolvere ogni problema. Così, un po’ alla Ocean’s, arruolano un Daniel Craig in tuta a righe, che in «libera uscita» dal penitenziario dove sta scontando la sua pena, li aiuterà a scassinare il caveau dell’autodromo. Intrattenimento da film di cassetta, non il carisma di Clooney e Pitt, cast pure in forma, la storia scorre benino in mezzo alle trovate tipiche del genere in questione. Senza infamie ma con poche lodi è uno di quei titoli per passare un paio d’ore spensierate, ma senza troppe pretese.
Quando Denzel Washington accetta un ruolo è una sicurezza. Magari i film possono deludere più un certo tipo di pubblico rispetto ad un altro, viste le sue alternanze di generi, ma la performance attoriale si mantiene sempre ad altissimo livello: infatti, la nomination all’Oscar gli è arrivata anche per End of Justice. Il suo avvocato esperto in diritti civili persegue la giustizia sociale al ritmo del suo iPod sparato in cuffia. Passo goffo e capelli alla Globetrotter non siamo di fronte al suo Malcolm X, ma a un omone sgraziato, un professionista preparatissimo con le sembianze di un americano medio che gira per Los Angeles in autobus. Raccogliere la tentazione di arricchirsi mettendo a repentaglio tutto ciò per cui aveva lottato sarà l’inizio di una strada apparentemente senza uscita. Dan Gilroy scrive e dirige esplorando come al solito la morale di un uomo metropolitano mentre la sua L.A. tentacolare e impassibile resta teatro preferito per le sue narrazioni. Non eccelso e ficcante come il suo Nightcrawler, in gran parte è tenuto in piedi da un imponente Washington.