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Francesco Di Brigida

Cosa fai a Capodanno? Quando la commedia sexy incontra il noir

Un elegante chalet in montagna e una coppia che all’improvviso riceve ospiti inattesi. Entrano un uomo in sedia a rotelle, Alessandro Haber, accompagnato da una Vittoria Puccini in versione bellezza emo. Poi una signora attempata, Isabella Ferrari, insieme a un ventenne, Ludovico Succio. In questo cast ognuno nasconde qualcosa agli altri, e a tenere le fila degli ospiti sgraditi sono i misteriosi padroni di casa Luca Argentero e Ilenia Pastorelli, ai quali si aggiungono la coppia scambista interpretata da Riccardo Scamarcio e Valentina Lodovini, più il contrappunto comico-filosofico di Massimo De Lorenzo e Carlo De Ruggeri, corrieri sfigati tra le nevi, ingaggiati per consegnare una cena di crudi, crostacei e champagne. Si presenta così Cosa fai a Capodanno? commedia nera firmata dallo sceneggiatore, qui regista esordiente, Filippo Bologna.

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Scrittore toscano venuto fuori tra romanzi e sceneggiature, Bologna è anche tra gli autori di Perfetti sconosciuti. E questo film ne ricalca la modalità della storia corale in interni tra coppie che pian piano scoprono il gioco. Qui però si punta alla black comedy, e vista qualche situazione pulp, si propone uno stile da fratelli Coen, anche se spesso si sfiora L’ultimo Capodanno di Marco Risi. Ma siamo lontani da quella corrosività dirompente. Complici la presenza di Haber, che nel cult ultrasatirico del ’99 interpretava un notaio sadomaso, qui invece uno scambista guardone. La neve e la notte stringono da fuori questa decina di personaggi infidi e sconosciuti tra loro al calduccio di una magione montana. Il pensiero allora andrebbe anche a The Hateful Eight, il western pulp di Tarantino tutto neve e sangue. La riuscita di Cosa fai a Capodanno? rimane però un tantino diversa.

Sinceramente coraggiosa l’intuizione di mettere insieme così tanti ingredienti all’esordio registico assoluto per Bologna. Il ricco cast lo ripaga abbastanza bene, magari Haber appare un po’ scolastico, ma funzionale al suo personaggio altisonante che s’involerà in una scena madre tutta sua. La coppia Pastorelli/Argentero va forte. Lei raro animale da macchina da presa, talento puro che va per giunta raffinandosi; lui attore umile cresciuto con l’esperienza, e ora, superati i 40 e abbandonato il viso pulito da Postal Market riesce in ruoli sporchi, personaggi con stratificazioni (im)morali da scoprire, tutto intrecciato ad arte con una gamma espressiva in piena espansione. Buone anche le incursioni di Arianna Ninchi e Sidy Diop. Mentre un’altra nota felice sono le musiche di Pasquale Catalano più una selezione di brani editi non male.

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Quel che rimane avvolta da qualche difficoltà è la storia. Alcuni nodi risultano forzati e certe linee narrative tra personaggi faticano a ritrovarsi producendo inutili attese e piccoli squilibri nel pastiche. Come nel caso, senza troppo spoilerare, della sparizione di Scamarcio e Lodovini o nel dubbio incontro tra la Ninchi e Succio. Soffre allora anche una regia alle prime armi. Il film non è brutto, scorre tutto sommato discretamente, ma tra cast, coralità narrativa e compresenze numerose sul set, citazioni e importanti rimandi più o meno voluti più un sostanzioso e cercato intreccio dei generi, era un’opera sinceramente difficile per esordire. Bologna ne esce con qualche graffio e cerotto magari, ma nessun osso rotto. L’intrattenimento c’è e la noia se ne sta sempre a debita distanza.

Come pregi spiccano la voglia di un cinema italiano anche un pochino osé. Forse non come il marketing che recentemente ha promosso, o promesso il film, pubblicandone il red band trailer nientemeno che su PornHub. Al cinema dal 15 novembre, e al netto delle sue fragilità, Cosa fai a Capodanno? è un piccolo tassello che potrebbe rivelarsi significativo sul pubblico italiano in quanto a voglia di trasgredire dai soliti dettami buonisti o telefonati della commedia italiana più prevedibile.

Menocchio, un uomo tra fede e inquisizione

Domenico Scandella era un mugnaio friulano che a fine cinquecento per supposte eresie verso il Papa e il cattolicesimo fu travolto dall’Inquisizione. Il suo soprannome, ma anche il titolo del film che ne racconta la prigionia è Menocchio. S’immerge in un mondo antico, con la sua quarta regia, Alberto Fasulo. Ha sempre curato la fotografia dei suoi film e in questo salto nel tempo inizia visivamente col regalare pennellate di luce quasi caravaggesca squarciando il buio delle inquadrature.

La scena bucolica di un parto bovino, i cunicoli di tufo che avvolgono la prigionia del protagonista, poi la luce nordica che si dipana sulle pietre, i legni e i tessuti ruvidi segnano un cinema carnale, materico, che sospinge visivamente lo spettatore verso alti quesiti morali e di fede. Si parla di «Dio della ricchezza e Dio della povertà», di un contestato sfarzo della Chiesa. Temi francescani già caldi un secolo prima per il clero, ma in quel periodo di tardo rinascimento, l’Italia del contado viveva ancora in un medioevo culturale. La nuova forma di controllo per proteggere il Cattolicesimo dal Luteranesimo era il sacramento della confessione, che Fasulo sintetizza con inquadrature frontali di rivelazioni e soffiate intorno al povero Menocchio.

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Splendore pasoliniano e imperfezione estetica di quest’opera si celano nell’utilizzo di un cast di non-attori presi da un lungo street casting del regista tra Friuli e Trentino, dalla Val Pesarina alla Val Cimolana. Scelte basate sulla pura fisiognomica e non su fama e curriculum. Da qui viene fuori una partecipazione calorosa dai neo-attori locali come fosse la natività di un presepe vivente, ma emerge soprattutto un protagonista straordinario: Marcello Martini.

Rughe d’espressione e segni del tempo ne rendono il volto impresso nella memoria come un quadro senza età. Allora dai suoi occhi celesti e sfuggenti, l’espressione di chi la sa lunga ma sceglie di tacere e il profilo acuto ricordano facce contemporanee ma antiche come quelle degli ultimi Carlo Monni e Sergio Fiorentini, e pure la modernità di certi tratti di Marco Giallini.

La colonna sonora con giri di fisarmonica è quasi impercettibile, se non assente in quasi tutto il film, ma segue esattamente alcune importanti linee emotive, mentre ha lavorato di più sul set, dietro la macchina da presa, dove un vero fisarmonicista aiutava il regista a portare gli attori di strada al mood per raggiungere il giusto livello d’interpretazione. Poi il montaggio respira in maniera cadenzata tra piani sequenza naturalistici su vari scenari e lunghe pause silenziose, ieratiche, in piani fissi concentrati sui volti.

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Fasulo ha basato il suo film sugli atti del processo a Menocchio, una documentazione notarile dell’epoca conservati presso l’Archivio Arcivescovile di Udine, mentre i passi sul libro Domenico Scandella detto Menocchio, i processi dell’Inquisizione (1583 – 1599) di Andrea Del Col sono serviti molto all’ambientazione e alla ricostruzione dell’epoca, come anche una fitta ricerca artistico estetica dell’autore sui pittori del tempo.

Il film è una co-produzione tra Rai Cinema, la Nefertiti Film di Fasulo e Nadia Trevisan e la rumena Hai-Hui Entertainment. Presentato al Festival di Locarno e in Francia, ha vinto il Grand Prix de la Jury all’Annecy Cinéma Italien. Nelle sale dall’8 novembre seguirà un lungo tour nelle città italiane accompagnato dal regista e introdotto negli incontri col pubblico da storici e critici.

Bene ma non benissimo, l’esordio alla regia di Francesco Mandelli al RomaFF13

A fine anni novanta lo vedemmo per la prima volta sullo schermo di MTV Italia Francesco Mandelli. Al tempo era un adolescente curioso, un po’ brufoloso e saputello che duettava allegramente con Andrea Pezzi in un talk sperimentale chiamato Tokushò, e il suo soprannome era Nongiovane. Ora il Nongio è cresciuto, ha fatto tanta tivù, cinema come attore, e la Festa del Cinema di Roma corrisponde al suo esordio dietro la macchina da presa. Bene ma non benissimo prende il titolo da una canzone di Shade, stella rap del nuovo panorama discografico rivolto agli under 18, presente anche guest-star.

Una ragazzina si trasferisce insieme al padre dalla Sicilia a Torino, dove dovrà affrontare compagni di classe bulli e un compagno di banco timidissimo. L’una paffutella, l’altro proveniente da famiglia molto agiata attraverseranno insieme piccoli e grandi problemi adolescenziali per integrarsi nella classe. Il plot parte da presupposti e cliché piuttosto semplici ma scorrendo si rinforza con tante buone trovate che complicano piacevolmente il film moltiplicandone i temi. Così oltre al bullismo si tocca l’immigrazione interna. Quella che ci siamo dimenticati, dal sud al nord, di chi per lavorare cambia città e vita.

Si esplora il rapporto padre/figlia, dove manca la madre. Rosario Terranova e Francesca Giordano sono Salvo e Candida. Lei è un piccolo tornado, sia nel personaggio che come attrice. Una bella rivelazione proveniente dalla Trinacria. Senza spoilerare troppo, il ruolo della madre lo veste Maria Di Biase, caratterista proveniente dal cabaret di Mediaset capace non solo di far sorridere, ma anche di toccare tasti più melodrammatici utilizzando un linguaggio strutturalmente comico. Abbiamo addirittura un cameo di Ugo Conti, mentre i genitori dell’amichetto ricco di Candida hanno i volti di Gioele Dix e Euridice Axen.

Francesco Mandelli regista di Bene ma non benissimoLa macchina da presa di Mandelli cerca la spettacolarità del quotidiano.  Condisce i panorami su Torino e Terrasini con pezzi musicali pop. Diverse sonorità sono in stile anni ottanta, a un certo punto buca anche un pezzo dei The giornalisti. Quella sana ingenuità narrativa che caratterizza tanti film della stessa epoca abbelliscono la superficie di questo esordio che superficiale, invece, non è. Mandelli, imbastendo un melò per famiglie, si confronta con bullismo e amicizia tra adolescenti, rapporti genitoriali. L’esordio resta convincente nonostante alcune piccole leggerezze tecniche e qualche incertezza nella scrittura di certi dialoghi. Alla base però c’è una storia raccontata a viso aperto. La sua morale bonaria ne fa un film perfetto per tutta la famiglia ma anche per visioni organizzate dalle scuole.

RomaFF13: Il vizio della speranza, la natività laica di Edoardo De Angelis

È stato presentato questa mattina a Roma Il vizio della speranza, il nuovo lavoro di Edoardo De Angelis tra i selezionati alla Festa del Cinema. Dopo la storia umanamente ipnotica delle gemelle siamesi in Indivisibili, il regista campano torna a girare a Castel Volturno. Stavolta però la location regina è la foce del fiume omonimo. Maria, Pina Turco, è una donna che vive il giogo di traghettare donne incinte per un traffico di neonati. «Avere un bambino bianco o nero, per chi lo desidera a tutti i costi, è la stessa cosa»: le sibila la sua aguzzina, boss di quartiere interpretata da una inquietante Marina Confalone. Maria scopre di essere incinta, e questo la porterà a scappare dal luogo a cui appartiene. In un limbo di immigrate africane liberate dai loro figli nati per prostituzione, riuscirà Maria a conquistare la libertà per sé e la vita per il suo bambino?

«In questo film vince chi resiste all’inverno. Vince chi ha la pazienza di aspettare che qualcosa cambi. E quando qualcosa cambia riesce, come nel caso di Maria, a servire quell’imperativo etico che nasce dalla scoperta di avere una possibilità. E cioè, agire»: il regista ha sintetizzato così il meccanismo alla base di questo film che utilizza le immagini più delle parole. Maria aspetta un bambino, ma non vediamo il padre. Il suo percorso è tortuoso. Non i deserti di pietre verso Nazareth, ma il fiume Volturno, con le sue barche, la mondezza e i suoi scarti umani che cercano di sopravvivere come possono. Tanti riferimenti al Natale, il Presepe, i Dieci Comandamenti alcune volte sullo sfondo e tanti altri dettagli che il regista infila nella visione, questa Natività laica girata da De Angelis rappresenta una piccola fetta di mondo immigrato da noi in Italia. Si vive quell’accoglienza negata, trasformata in sfruttamento del corpo e consumo delle anime.

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Da una parte, per la location post-apocalittica scelta nello stesso comune, il film si potrebbe accostare al Dogman di Garrone, girato al Villaggio Coppola, poche centinaia di metri dalla foce del Volturno. Dall’altra si tratta di donne, immigrati, sfruttamento e solitudini, quindi il pensiero va a Caina, di Stefano Antonucci, anch’esso uscito quest’anno. In queste due pellicole però mancava una ben precisa aura che invece avvolge Il vizio della speranza. «Quando mi chiamò, Edoardo mi disse che voleva fare un film che avesse un tema spirituale, mistico, religioso, esplicitamente cristiano». Ha raccontato lo sceneggiatore Umberto Contarello. «E vedendo ora il film ho trovato l’andamento, la partitura di una parabola».

De Angelis manipola gli spazi desolanti di un certo sud Italia rendendoli non-luoghi. Spazi liminali che si staccano dal quotidiano puntando a sensazioni quasi oniriche, da incubo. Gioca con le messe a fuoco sui suoi personaggi, quasi tutte donne eccetto Massimiliano Rossi, nella parte di un barcarolo. Immigrate, donne come merce, non vengono raccontate direttamente, ma trasversalmente, con presenze che accompagnano la fuga per la vita di Maria. «È doveroso per chi racconta storie cercare nuove forme di linguaggio che si adattino alla trasformazione del sentimento di chi queste storie le deve godere». Ha continuato De Angelis. «Quindi sembra una follia l’innovazione, ma in realtà è un dovere».

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Nel ruolo della madre partecipa anche Cristina Donadio. Un personaggio, il suo, che passeggia nella sua doppiezza sessuale quanto morale, ma non viene mai giudicata dalla macchina da presa. De Angelis ci fa attraversare il suo presepe post-moderno, capace di inumanità allucinanti ai confini del reale quanto di tenerezze inaspettate da chi mai immagineremmo. Non è un cinema facile quello di De Angelis, ma involato su un’iperbole dalla significazione sempre più alta. Così Il vizio della speranza si presenta più profondo di Indivisibili e più complesso di Perez. Musiche sensoriali e trascinanti di Enzo Avitabile e per la distribuzione italiana Medusa, ed estera True Colors, sarà nelle sale dal 22 novembre.

RomaFF13: In viaggio con Adele, il felice esordio di Alessandro Capitani

Osserva con sensibilità e intelligenza il rapporto tra un attore di teatro che scopre di avere una figlia un po’ particolare In viaggio con Adele, di Alessandro Capitani. Il regista, esordiente sul lungometraggio, ma formato da importanti esperienze tra regie televisive e cortometraggi, tra i quali Bellissima, è stato premiato con il David di Donatello nel 2016. Nei panni del padre attore abbiamo Alessandro Haber e in quelli rosa di Adele Sara Serraiocco.

«Ci siamo incontrati 15 anni fa per scrivere un film in tre episodi che inizialmente si chiamava Cattive condotte». Ha raccontato Haber durante la conferenza di presentazione. La sceneggiatura di Nicola Guaglianone parte da un soggetto firmato dallo stesso autore, Haber e Tonino Zangardi. «Abbiamo iniziato a lavorare sull’idea di questi tre episodi. Poi sono passati anni e un giorno Alessandro mi dice che voleva riprenderne uno per trasformarlo in un film». Ha aggiunto Guaglianone. «Ogni tanto metto in ordine a casa, tra le mie sceneggiature». Ha risposto Haber. «A un certo punto mi sono ritrovato con questi fogli e ho pensato: un film! Questo potrebbe diventare un film! E così è stato».

in viaggio con adele

Siamo nella provincia di Foggia e la madre di Adele muore. La ragazza ha una diversità psichica, lei stessa si dirà neurodiversa. Ma si esprime spesso con parole su post-it che attacca sugli oggetti di riferimento. Haber per la prima volta dopo Da grande, dove faceva il padre rigido del cresciutello Renato Pozzetto, torna nei panni di un genitore. Però protagonista. Scopre l’esistenza di una figlia e inizia un roadmovie tra le lande del foggiano che intreccerà una profonda relazione tra i due. Da una parte Haber ha un personaggio burbero, egocentrico ed egoista che viene avvolto sempre di più dalla responsabilità paterna, dall’altro una ragazza problematica ma piena di vita e di una sincerità cristallina ha tutta la luce di Sara Serraiocco.

Si ride, ci si tuffa in un’avventura tra la fuga e i battibecchi dei due protagonisti, e ci si commuove anche. Capitani isola Haber e la Serraiocco in un paesaggio piatto dove non ci sono distrazioni visive dagli attori. Ci sono soltanto loro, due anime diversissime a rincorrersi per ritrovarsi. La Serraiocco, colorata di rosa dal suo pigiama a forma di coniglio, battute fulminanti e irresistibili in foggiano stretto, esprime risate e pianti sempre diversi. Osservarla è come attraversare il mondo interiore, la solitudine e la voglia di tenerezza della sua Adele. Il regista mette tutto perfettamente in ordine, così non trovano spazio giudizi, moralismi, ammiccamenti. Anche le musiche sono giustissime, un pezzo su tutti il Life on Mars di David Bowie nella cover dolcissima di Aurora. Partecipa anche Isabella Ferrari, agente acidissima del personaggio di Haber. Trova il giusto posto e il giusto peso per una commedia agrodolce, forse la migliore di questo inizio di stagione, presentata come Evento speciale alla Festa del Cinema di Roma.

Nessuno come noi. La commedia romantica che non ti aspetti

È uscito dal tunnel del cinepanettone Volfango De Biasi. E ha fatto centro con questa commedia romantica ambientata nel cuore degli anni 80 torinesi, Nessuno come noi. Dopo lo splendido esordio alla regia natalizia con Lillo e Greg, Un Natale stupefacente, si stava adagiando lasciandosi limitare nelle due commedie successive, insieme alla coppia comica, da un format cinematografico divenuto cliché ancora troppo duro da svecchiare. Allora vita nuova con la Italian International Film di Fulvio Lucisano. La storia che vede protagonisti Alessandro Preziosi e Sarah Felberbaum è tratta liberamente dall’omonimo romanzo di Luca Bianchini, edito da Mondadori.

nessuno come noi

Moncler, walkman, felpe Best Company e zainetti Invicta caratterizzano il look di Vince, Vincenzo Crea, e i suoi compagni di classe. Tra loro la sua migliore amica e amore segreto Caterina, Sabrina Martina, più il nuovo strafottente Romeo, Leonardo Pazzagli. Intanto scatta una liaison tra il padre di quest’ultimo e la loro professoressa più benvoluta, così iniziano i segreti di un marito fedifrago, le insoddisfazioni di un’amante e quella che oggi chiamiamo friend-zone dalle parti dei tre ragazzi. Nei novanta l’amore non corrisposto di una cara amica veniva ribattezzata la regola dell’amico. E negli anni ‘80? Ci pensa De Biasi a raccontarcelo con una commedia corale e squisita che incrocia le storie di giovani e adulti mettendone alla prova i sentimenti. «Vuole essere una storia che esplora la condizione dell’amante e dello sconfitto, di coloro che in amore rivestono, loro malgrado, la posizione di non-scelto, o almeno, di quello scelto a metà». Ha affermato lo stesso regista.

Per l’occasione Preziosi riplasma la voce in quella profonda e austera di un ricco docente universitario con un matrimonio claudicante che stenta sempre ad affondare. La relazione con il personaggio indipendente e sognatore della Felberbaum scatena scintille improvvise perché in questo lavoro vengono trattati amori adulti, e adulteri, quanto cotte adolescenziali. La mano di De Biasi parte dal melò, ma prende facilmente i ritmi di una commedia sentimentale a più marce. Allora i vari percorsi che si snodano intorno allo spettatore lo coinvolgono sì in un salto nel passato, gli anni ’80, ma in realtà si sviluppa una storia molto moderna, che poteva ambientarsi benissimo anche nel nostro millennio.

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Si tiene per l’uno o l’altro personaggio, innamorato o non ricambiato che sia. Si ride, a volte amaramente. Di cinepanettonesco oltre alla pratica architettura narrativa è rimasto il doppio sguardo su adulti e adolescenti. Come quando i Vanzina ci raccontavano la galleria umana di Sapore di mare o Vacanze di Natale. Manca l’innesto del comico vero. Questo sì. Ma non è un difetto, né un pregio, ma giusto una differenza. Anche gradita, d’altro genere. Il risultato è una storia appassionante che si avvicina non poco a certo cinema francese che tiene determinati a scoprire il finale attraverso un garbo brillante. L’attorialità si dimostra generosa, a volte verace o un po’ acerba per il comparto degli attori giovani, ma funzionale anche così al giusto intrattenimento con sorrisi e sentimenti. Nel 2018 non si può pretendere di riscrivere Il tempo delle mele, o Vacanze in America, o qualcosa che ne sintetizzi gli intenti. Ma il risultato ottenuto da Volfango De Biasi resta positivo e ottimamente preparato per un pubblico trasversale.

Il banchiere anarchico. Giulio Base e il suo Pessoa

Dopo la presentazione alla Mostra del Cinema di Venezia, in concorso nella sezione Sconfini, giunge nelle sale Il banchiere anarchico. A dirigerlo, interpretarlo e sceneggiarlo è Giulio Base. Un passato con tanta fiction e le candidature a David di Donatello e Nastri d’Argento per il regista romano, ma è questa la sua prova più difficile. Mette in mezzo Fernando Pessoa e il suo testo dalle miriadi di sfaccettature per farne un rigoroso bianco e nero dall’impianto teatrale. Tutto girato nel Teatro 6 di Cinecittà in appena tre settimane, il film di Base ha visto diversi mesi di prove con l’attore che gli fa da controparte, Paolo Fosso. Nei panni del fedele e danaroso dipendente del suo grande capo, si reca da lui a cena per il suo compleanno. In un’altera solitudine che cozza con le straordinarie ricchezze del banchiere, la conversazione tra i due girerà tutta intorno alla scoperta sconcertante della sbandierata anarchia del banchiere.

il banchiere anarchico

Si rincorrono teorie filosofiche e sociologiche tra teorizzazione dell’anarchismo e individualismo accelerato, che oggi potremmo applicare giusto alla neo-società dei social. Per il resto il quadro è rigidamente novecentesco. Si respira un’aria massonica intorno al protagonista, un uomo solo e singolarmente avvolto dal proprio eloquio che giustifica il suo stesso potere irrefrenabile. Lo enuncia del resto lo stesso regista apponendo a inizio film una frase di Pasolini che suonerebbe inizialmente come dura critica: “Nulla è più anarchico del potere. Il potere fa praticamente ciò che vuole”. Sfoggia piccoli segni esoterici quest’omino rileccato che vorrebbe somigliare allo scrittore portoghese ma forse potrebbe ricordare più le ombre contorte di un certo Hitler. La sua gestualità, elegantissima ma gelida, viene studiata al millimetro da Base come una cervellotica danza ridotta all’osso. La voce gli si fa profonda, tragicamente fredda nell’espressione pur nel calore sonoro che dovrebbe comunicare. Probabilmente la sua interpretazione della vita, ma sarebbe stata perfetta, gigantesca, se l’attore non si fosse lasciato a rialzare il tono in certi momenti dove il personaggio va su con la voce, riportando Base alle sue tonalità vocali, naturalmente più alte. A parte queste finezze, una buonissima prova attoriale.

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La tirannia dell’aiuto è un’altra delle barriere ove il suo interlocutore si arrovella fino al terrore di bruciarsi la carriera e una vita di soddisfazioni e ricchezze. Mai contraddire chi ti dà il pane, sembra dirci violentemente questo film, che parla in realtà di dittatura più di quanto volteggi la parola anarchia. L’estetica e la messa in scena strizzano l’occhio a Bergman. Si gioca anche a scacchi, come da testo originale di Pessoa. Il clima è teso per tutto il minutaggio, tranne un siparietto musicale dove il banchiere accenna a ballare con una canzonetta sull’essersi svegliati anarchici. Senza neanche l’ironia di un Gaber e per giunta un pezzo inspiegabilmente fuori dal mood rispetto alla ottima, rigidissima atmosfera del film. Anche il finale, o meglio la scena dopo i titoli di coda, tempistica un po’ in stile Marvel, si troverà un momento musicale di backstage con tutta la troupe a coreografare con le mani un pezzo rock ridotto a versione curiosamente happy. Forse da queste svirgolettate che ci appaiono come défaillance un po’ disturbanti, potendo essere un grido, un graffio critico contro il capitalismo borghese travestito da anarco-superliberismo dell’individuo, come dall’incipit pasoliniano, il film di Base si manifesta, invece, più come culla del più forte.

Adriatic Film Festival: tutti i premiati, gli ospiti e i giurati della prima edizione

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Si è chiusa tra affetto del pubblico e un brivido notturno, ieri sera, la prima edizione dell’Adriatic Film Festival (qui il sito ufficiale). Sì, perché l’ultimo film in proiezione come evento speciale è stato il The End? di Daniele Misischia, spietato zombi-movie all’italiana ambientato nella Roma attuale. Lo stesso regista ci è venuto a trovare a Francavilla al Mare, in Abruzzo, per parlare con il pubblico accompagnando il suo film. Con AFF siamo stati in ballo da venerdì per una tre giorni di cinema a base di cortometraggi in concorso, ospiti e premiazioni.

Dopo la prima selezione dei 400 corti giunti da tutto il mondo, sono stati selezionati 21 titoli divisi in 4 sezioni, e i nostri 4 giurati si sono occupati di decretare i vincitori. Il presidente di giuria Gianluca Arcopinto, produttore di Gomorra, ci ha concesso tra l’altro una proiezione speciali di un estratto di 20 minuti dal suo documentario in lavorazione, Chimera, sulla prossima demolizione delle Vele di Scampia. Vice-presidente di giuria Michele D’Attanasio, che invece è stato con noi non solo per premiare la Migliore fotografia dell’AFF ma per parlarci della lavorazione ancora in corso di Freaks Out, il nuovo film di Gabriele Mainetti dove Claudio Santamaria nei panni di un uomo lupo e Pietro Castellitto truccato da albino compongono un gruppo di fenomeni da baraccone in fuga dai nazisti durante l’occupazione a Roma. Pier Cesare Stagni, saggista e docente di storia del cinema ha rappresentato la memoria e le radici del grande schermo con i suoi aneddoti sul cinema girato in Abruzzo e la presentazione del suo nuovo saggio Cinema forte e gentile, excursus su location della regione verde utilizzate dagli anni ‘30 fino agli anni ‘70. Cristiano Di Felice infine, regista, sceneggiatore e fondatore dell’IFA, scuola di cinema per ragazzi, a Pescara, che, oltre ad aver accompagnato come partner l’AFF, ha dato i suoi voti ai film in concorso.

I film in concorso sono giunti da 9 paesi e 3 continenti. Cina e Indonesia incluse, con dei documentari molto suggestivi. Tra i titoli italiani, casualmente proprio in apertura anche il Bismillah di Alessandro Grande, selezionato per l’Italia sul lungo cammino verso le Nomination per l’Oscar al Miglior cortometraggio. Tanti temi forti, attualissimi, spesso anche scottanti, qualche commedia, uno sguardo particolare alla famiglia in crisi e soprattutto al punto di vista dei bambini, più d’una volta protagonisti dei nostri cortometraggi. Ecco invece i premiati per le varie sezioni e categorie.

  • MIGLIOR CORTO ITALIA: Acquario, di Lorenzo Puntoni. Un bambino nuota in una piscina pubblica ma un evento imponderabile sconvolgerà tutto. Un mini thriller che tira le funi di tensione e azione utilizzando al meglio anche lo sguardo in macchina e gli effetti visivi.
  • MIGLIOR CORTO INTERNAZIONALE: Rise of a star, di James Bort. Essere ballerina dell’Opera di Parigi diventa ancora più difficile quando un segreto dolce ma inconfessabile cresce dentro. Nel cast anche Catherine Deneuve, per questo corto arrivato lo scorso anno tra i 10 titoli prima delle Nomination all’Oscar per il Miglior cortometraggio.
  • MIGLIOR DOCUMETARIO: The European Dream: Serbia, di Jaime Alekos. Serbia, oggi. Uomini e giovani scappati da scenari da persecuzioni e conflitti portano negli occhi e sulla pelle la guerra. Vite da fantasmi urbani chiuse tra confini politici appena al di là del mare Adriatico.
  • MIGLIOR CORTO SCUOLA: La faim va tout droit, di Giulia Canella. Un ragazzo combatte con sé stesso sotto il giogo dell’anoressia. E campi da battaglia sono il suo corpo e la sua solitudine.
  • MIGLIOR REGIA: Denise, di Rossella Inglese. Film che punta dritto alla riflessione sulle esistenze social. Nella periferia romana una ragazza vive la strada e le amicizie sbagliate tra notti brave e superficialità.
  • MIGLIOR FOTOGRAFIA: Marina Cocco per Parru pi tia, di Giuseppe Carleo. “Parlo per te”, in siciliano, racconta in forma di commedia la reazione delle donne di una famiglia palermitana alla rottura della relazione della giovane della casa con il suo fidanzato. Toni caldi mediterranei e un ritmo folkloristico e coinvolgente.
  • MIGLIOR ATTORE: Phénix Brossard, per La faim va tout droit. Vince proprio l’attore che ha interpretato un ragazzo anoressico. Attore francese emergente, Phénix è comparso in molte serie tv transalpine oltre che in film come Chocolat e Departure. Faccia estremamente interessante che si vedrà sempre più spesso.
  • MIGIORE ATTRICE: Marianna Di Martino, per Amici comuni. Una turbolenta doppia coppia a tavola durante un pranzo nel quale può succedere di tutto. Marianna interpreta una donna che annuncia una grande notizia, ma ne verranno fuori altre, impreviste e molto più grosse.

Gli ospiti sono stati tanti, tra giurati e premiati. Ma sono accorsi, oltre a Misischia, per i loro film, anche Donatella Finocchiaro insieme al regista Samad Zarmandili e il Nastro d’Argento come Miglior attore emergente Luigi Fedele. Ma pure la presenza di Fred Martin, direttore artistico del Brussels Short Film Festival, per tutta la durata dell’AFF è stata fondamentale. Il suo Festival ha 21 edizioni alle spalle e sta per partire la 22esima. Per un gemellaggio con AFF ci ha portato in proiezione una selezione di 3 corti eccellenti, che l’Adriatic Film Festival ricambierà con il nostro direttore artistico Guido Casale, portando in Belgio altrettanti titoli tra i nostri vincitori. La caratura più importante sta nell’Oscar Qualifying rappresentata da questo Festival fiammingo. Significa che possono segnalare all’Academy titoli papabili per la corsa verso le Nomination agli Oscar. Presto online e sui social le gallery dell’evento dove era presente anche Fabrique du Cinema, media partner con il suo Numero 22, per la prima volta in distribuzione in Abruzzo, anzi all’AFF.

Adriatic Film Festival e la prima volta di Fabrique in Abruzzo

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Si apre il 28 settembre l’Adriatic Film Festival. È la prima volta che mi affidano la conduzione di un’intera kermesse. Sul palco ci sarà un critico che presenterà cortometraggi in concorso, ospiti registi, attori, attrici e personalità del cinema che parteciperanno alla prima edizione di un piccolo Festival con tante buone idee e altrettanti sogni, se non di gloria, quantomeno di buona riuscita nei confronti del pubblico a cui si rivolge. Siamo in Abruzzo, a Francavilla al Mare, cittadina spalla a spalla con Pescara. Su queste sponde è la prima volta anche per Fabrique, che in quanto partner dell’AFF sarà presente con la sua distribuzione del Numero 22.

Siamo di fronte ad una competizione tra cortometraggi sotto i 20 minuti provenienti da tutto il mondo. Più precisamente da 9 paesi e 3 continenti. Non mancano lavori italiani, uno di Pippo Mezzapesa e un altro con Lino Guanciale. La selezione è stata fatta su 400 opere giunte e domenica la giuria dovrà premiare i migliori tra i 21 shortfilm in gara. Abbiamo diverse sezioni: Corto Italia, Corto Internazionale, Corto Scuola, Documentario. E poi i premi immancabili: Miglior regia, Miglior attore, Migliore attrice, Miglior fotografia. Quest’ultimo premio lo viene a consegnare Michele D’Attanasio, direttore della fotografia tra i più importanti del panorama attuale. Pure pescarese come il sottoscritto, tanto per restare in tema territorio. Il presidente di giuria invece è un vecchio lupo della produzione, Gianluca Arcopinto, che con la sua opera e personalità creativa rispecchia la necessità di AFF: quella di definirsi Festival di Cinema Indipendente.

Qui c’è un bel po’ di lavoro umile su un territorio cinematograficamente desertificante. Tanti film d’autore qui neanche vedono la sala, i grossi multisala impazzano a scapito dei cinema storici e il pubblico è sempre più bisognoso di trovare nuovi stimoli, diversi dalle emozioni preincartate delle major. Saremo centro dell’attenzione, almeno si spera, dal 28 al 30 settembre. I temi dei film in concorso (il cui programma è consultabile anche sul sito ufficiale) toccano argomenti come anoressia maschile, terrorismo, famiglia in crisi, la riconquista di un ex, il gender nello sport, l’immigrazione clandestina, il lavoro in miniera, la ferita del caporalato, i crimini di guerra e l’adolescenza nelle grandi città. Un tono impegnato per una selezione di film molto solidi e di alto livello. Molti dei quali sono ancora sconosciuti in Italia.

A proposito di buon cinema, oltre ai corti abbiamo organizzato tre Eventi Collaterali, proiezioni di film italiani come Beate, Quanto basta e The End. Saranno accompagnati da Donatella Finocchiaro, protagonista nei panni di un’operaia tessile, e dal regista Samad Zarmandili per il primo. Tema, delocalizzazione in chiave umoristica. Con il secondo titolo avremo il Nastro d’Argento Luigi Fedele, giovane attore talentuoso nel costruire il personaggio di un ragazzo con la sindrome di Asperger; e per il film di zombie ambientato in un ascensore romano sarà con noi il regista e autore Daniele Misischia. Uno che segue la scia di Romero e Carpenter rigettando le lezioni horror da soap-opera alla The Walking Dead.

Altra cosa interessante è il doppio gemellaggio con il Bruxelles Short Film Festival e l’Edimburgh Short Film Festival, importanti manifestazioni per i quali saranno con noi i rispettivi direttori artistici e Fred Martin e Paul Bruce. Porteranno in visione alcuni tra i loro gioiellini da mostrare al pubblico di AFF. Restando in tema di direttori artistici, il nostro, Guido Casale, sarà ambasciatore a sua volta in Scozia e Belgio per portare i nostri migliori corti. In realtà di ospiti ed eventi all’interno della tre giorni in riva all’Adriatico ce ne saranno anche altri, ma se ve li dico tutti poi perdete la sorpresa. Per chi sarà da quelle parti ci dovrà raggiungere da sé, o venirci a trovare tramite i social se resterete lontani.

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Ricchi di fantasia: Castellitto e Ferilli ricchi per caso

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Si è più ricchi quando si è innamorati veramente o per il biglietto vincente della lotteria nel taschino? Ce lo mostra Ricchi di fantasia (qui il trailer ufficiale), la nuova commedia di Francesco Micciché mettendo insieme Sergio Castellitto e Sabrina Ferilli. La struttura spinge l’imitazione di situazioni classiche in stile commedia all’italiana. I protagonisti hanno lo stesso nome dei loro personaggi, così Sergio e Sabrina amanti entrambi bloccati da rispettivi consorti e famiglie fanno saltare le loro unioni ufficiali per una forte vincita. Peccato sia soltanto uno scherzo dei colleghi di Sergio, giù al cantiere, capeggiati da Paolo Calabresi. Ma ormai i cocci sono rotti e la fuga in un pulmino scalcinato insieme a figli vari più madre/suocera petulante si trasforma in un roadmovie verso la Puglia.

Si tratteggia l’Italietta che vorrebbe ma non può. Non solo nel lavoro, dove Sergio subisce angherie economiche sfumate di truffa dal costruttore che lo schiavizza, un Gianfranco Gallo impeccabilmente sibillino. Ma dove i sogni artistici di Sabrina sono bloccati nei siparietti canterini da pianobar per neofascisti. A tal riguardo, Faccetta nera in versione animazione ristorante è chiaro segno dei nostri tempi: oggi il film vorrebbe criticare ma verrà frainteso dai più, per poi un domani essere osservato con inedito interesse per la ribellione stretta sotto i denti dei nostri artisti e autori attuali. E tutto per un comodo, condiviso meccanismo di valutazione timorosa dell’oggi. La Commedia all’Italiana girava intorno ai problemi, li avvolgeva, ma a un certo punto li colpiva frontalmente, non di striscio. E a suo modo cerca di fare lo stesso anche Ricchi di fantasia.

ricchi di fantasia

Andando avanti Micchiché mette in rilievo Antonio Catania e Antonella Attili, ricchi sfrenati e machiavellici. Escono frasi come: «La tristezza è per i ricchi» o «Per salvare la faccia rischiamo di perderla». Sì, perché ogni personaggio qui è impegnato a dimostrare quello che non potrebbe. La lotta di classe di una volta muta in guerra tra poveri. Tanto tra colleghi squattrinati con falsi biglietti vincenti quanto tra nuovi membri di una famiglia allargata per sbaglio. Si capovolgono anche le politicizzazioni. I ricchi diventano di sinistra e i poveri più destrorsi. Addio slogan come potere operaio e potere al popolo. È il ricco che ha tempo e potere per acculturarsi e diventare fine intellettuale dalla parte del giusto, seppur umettato di cupidigia. Al povero restano invece sole, cuore e livore. Ora vale un si salvi chi può generalizzato, apparentemente orizzontale. Ognuno con i propri mezzi. Ricchi o poveri che siano. Leciti o meno. Il ché ci richiede un’osservazione più complessa rispetto al passato.

Si ride amaro e di cuore in questa commedia che a ogni lettura è capace di mostrarci nuove sfaccettature. Finti poveri e finti ricchi si mescolano come carte ben orchestrate in un gioco di ruoli che ha solo rari momenti di stallo narrativo e un cast sempre frizzantino. «Viviamo in una società dove non c’è oggettività nella propria ricchezza»: ha ragionato durante la conferenza stampa di presentazione Paolo Calabresi, che interpreta il collega di Sergio, spalla d’appoggio e amico di sempre. «Ricchezza in sé è la finanza, ormai virtuale. Indipendentemente da questo siamo un paese che ha sempre fatto finta di essere più ricco di quello che è. Abbiamo voluto sempre aspirare ad essere qualcosa di superiore a ciò che eravamo. Chi fa finta di essere povero essendo ricco, lo fa per un piano deliberato. Invece chi finge di essere ricco, pur essendo povero, ha un piano di disperazione».

ricchi di fantasia

Tra gli attori spiccano poi la bambolosità new-age del personaggio di Matilde Gioli, che fa la figlia mitigatrice di Sergio, e il suo piccolo Art interpretato da Vincenzo Sebastiani. Viso pacioccone e linguetta pronta al tempo comico. Non manca nemmeno un curioso segno distintivo della commedia sentimental-familiare contemporanea lanciato da Moretti, poi perseguito da Muccino e tanti altri: la scena della canzone corale in automobile. E stavolta, scuserete lo spoiler, è il turno di Pupo. Con Su di noi. Cantiamo, ché ci passa.