Grosseto, 2008. Siamo in una Toscana piatta, sonnacchiosa, senza colline dolci e verdeggianti. Niente raffinatezze turistiche, ma giusto un capoluogo che sembra provincia, dove tutto resta lento e immutabile. Così il punk scorre poderoso tra le dita e sugli strumenti rumorosi di questi tre giovinastri neanche trentenni che cercano di mordere la vita attraverso la musica. Opera prima di Niccolò Falsetti per la Settimana Internazionale della Critica alla settantanovesima Mostra del Cinema di Venezia, Margini potrebbe essere ascritto in quell’alveo di film giovanilistici dove piccoli antieroi della working class che ancora non trovano la loro strada, cercano con le unghie e con i denti di realizzare i propri sogni.
I Waiting for nothing – questo il nome del gruppo street punk di Edoardo, Iacopo e Michele – cercheranno di suonare a tutti i costi di fronte a un folto pubblico. Basta con le Feste dell’Unità mezze vuote o le piazzette di periferia senza piglio né attenzione. Si punta a un gruppo americano più conosciuto, e attirarli in città per un concerto da scolpire sui calendari a venire appare come la ghiotta occasione di una vita. Da questo punto di vista il pastiche, dai tratti estetici del road movie, ricorda vagamente anche certi intenti di The Commitments di Alan Parker, ma con personaggi in stile La Guerra degli Antò. Il ché non è neanche male a ben vedere.
Peccato la vita reale, i conti in famiglia con una bimba da crescere, gli impegni con la musica classica, gli idealismi sfacciati o i problemi di gestione della rabbia incombano sui nostri scavezzacollo. Ma soprattutto la difficoltà a crescere e il rifiuto – molto punk – nel prendersi le proprie responsabilità segnano e pesano sui personaggi con i volti di Matteo Creatini, Francesco Turbanti e Emanuele Linfatti. Tutti e tre centrano bene il proprio character, e le presenze di Silvia D’Amico, Valentina Carnelutti e Nicola Rignanese rinforzano ulteriormente il film.
Forse il pubblico italiano, ma soprattutto gli esercenti sempre più legati a volti scontatamente famosi del cinema non daranno molto spazio a questo film quando uscirà in sala l’8 settembre. A meno ché il caro vecchio passaparola non lo tocchi spesso con la sua bacchetta magica. Speriamo inizi comunque dal Lido. Essendo una creatura della Fandango, però, c’è da augurarsi che la distribuzione superi le Alpi per raccontare all’Europa la piccola epopea di questi sfigatissimi rocker toscani ai quali nel bene o nel male, non si può non voler bene.
Dopo tre cortometraggi i registi Andrea Brusa e Marco Scotuzzi escono al cinema con la loro opera prima, Le voci sole: il protagonista è Giovanni Storti del Trio Aldo, Giovanni e Giacomo, «una delle persone più belle che abbiano mai calpestato questo pianeta».
Uniti da un sodalizio nato ai tempi dell’università, Andrea Brusa a firmare la sceneggiatura e poi la regia con Marco Scotuzzi, i due cineasti milanesi affidano a Giovanni Storti il suo primo ruolo drammatico, affiancato da Davide Calgaro e Alessandra Faiella. Giovanni è un operaio gruista delocalizzato in Polonia, dove inizia una vita di videochiamate alla famiglia che sfoceranno per caso in una fama social destinata a mettere alla prova la famigliola. Abbiamo parlato a tutto tondo con questi due artisti che si completano a vicenda e con Le voci sole hanno già vinto il Gran Premio della Giuria al Festival di Seattle.
Dopo tre cortometraggi insieme siete arrivati all’opera prima. Com’è nata la vostra collaborazione?
Marco Scotuzzi Ci siamo conosciuti allo IULM quindici anni fa durante un corso di filmologia di Gianni Canova. Poi in un viaggio a Berlino organizzato dall’università io e Andrea ci siamo conosciuti meglio realizzando i cosiddetti corti universitari. Quelli orribili che non faremo mai vedere a nessuno.
Andrea Brusa Poi lui è andato in Brasile per due anni, io alla UCLA a studiare sceneggiatura, così nel 2013 ci siamo ritrovati per iniziare a girare davvero qualcosa insieme.
Le voci sole parla di temi attuali in maniera sobria e pacata.
M.S. La scelta del cast è stata fondamentale, perché nonostante il passato da comici e la formazione teatrale dei nostri tre attori volevamo che non fossero sopra le righe. Io e Andrea non siamo per le scene troppo esasperate e per i colori troppo forti. Forse viene da qui la nostra pacatezza. Allo stesso tempo siamo molto affascinati da quel che chiamiamo “le discese agli inferi”.
A.B. Per noi accadono quando persone normali scivolano in situazioni molto più grandi di loro che li portano a fare i conti con se stessi, a non riconoscersi più e a doversi reinventare da zero per trovare una via di fuga salvifica.
Per voi i social sono gli inferi o c’è una salvezza?
A.B. Originariamente in questa storia non c’era molto sui social media. Noi raccontiamo sempre di personaggi intrappolati in situazioni paradossali, grottesche, kafkiane. In Magic Alps parlavamo del primo migrante arrivato in Italia con un animale, una capra, mentre l’ufficiale di turno doveva gestirne la pratica complessa di asilo politico. Ma anche in Respiro e Il muro bianco ritorna questa struttura narrativa. Nelle Voci l’idea era guardare a personaggi persi in un mondo grottesco e sempre più surreale, la caduta negli inferi che dicevamo. Ma nel cuore della storia raccontiamo due forme diverse di alienazione e solitudine.
M.S. Pensiamo al bellissimo titolo scelto da Andrea. Se inizialmente nel film sembra suggerisca un altro modo di chiamare gli haters, in realtà l’interrogativo che viene fuori dal film è: “Non è che le voci sole siamo noi?”. Insomma, potremmo esserlo tutti. In questo modo ci mette in guardia dalla trappola in cui ognuno di noi, in certe circostanze, può cadere. Quindi è meglio mantenere alta l’attenzione.
Il tema forte del vostro film però è il lavoro delocalizzato.
A.B. Assolutamente sì, perché volevamo raccontare la storia di una famiglia di fatto smembrata. I personaggi non sono mai tutti e tre in compresenza fisica. Era questo l’espediente per vedere come questa famiglia avrebbe mantenuto l’unità anche a distanza. Così la strategia per rimanere legati diviene anche la trappola che li fa precipitare. Inserirci il Covid invece è stata una scelta più legata a problemi produttivi e di rinvio della lavorazione che pura necessità narrativa.
M.S. L’alienazione vissuta da Giovanni in fabbrica lo porta a divenire estraneo da se stesso, seguendo più i ritmi delle macchine che quelli umani. Allo stesso modo, Rita pensa di governare i suoi follower ma poi ne cade in balìa, vivendo in funzione di ciò che il web le chiede di fare. C’è un parallelismo interessante tra fabbrica e web nel meccanismo che fa muovere una persona come un burattino.
A.B. In questo senso è un film sul potere.
Giovanni Storti è anche il poliziotto del corto Magic Alps: ma cosa avete scoperto di lui facendolo passare dal comico al drammatico nel suo habitat, il lungometraggio?
M.S. Per lui è tutto molto inconsapevole, d’istinto. Spesso ce lo ripeteva. Giovanni, fidandosi, provava a realizzare al meglio le nostre richieste. Noi eravamo già da tempo innamorati del suo volto, perché è così austero che abbiamo sempre pensato alla sua potenzialità drammatica. Già in alcuni film del trio veniva fuori questa vena. Perché non esplorarla ancora di più?
A.B. Giovanni è un ventiduenne! Fa maratone in tutto il mondo, è una forza della natura. Ma ha una voglia di sperimentare e divertirsi, di provare cose diverse, che lo rende coraggioso e libero. Non ha alcuna paura a prendersi rischi, non ha sovrastrutture, pregiudizi o preconcetti. Si butta con entusiasmo ed è anche una delle persone più belle che abbiano mai calpestato questo pianeta. Lavorare con lui è un sogno.
Da dove viene l’idea di usare immagini e suoni industriali come una sorta di onomatopea delle emozioni dei vostri personaggi?
M.S. Avevamo proprio questo intento. Era un meccanismo rischioso trattare in maniera così fredda e oggettiva la fabbrica con inquadrature fisse, ferme e lunghissime, quasi alienanti; e in maniera diametralmente opposta le videochiamate: camera a mano dove senti quasi il respiro dell’operatore, dove percepisci ancora di più le tensioni tra Giovanni e Rita. Ma ci ha convinto sin dall’inizio. Anche il percorso della camera dentro la fabbrica da esterno giorno fino alla bocca del forno, di notte, ci sembrava rappresentasse la discesa agli inferi di Rita e Giovanni.
A.B. Volevamo quasi piazzare il pubblico a metà strada tra Italia e Polonia. Nella fabbrica c’è più il punto di vista di Rita che immagina il mondo intorno a Giovanni, però senza vedere lui. Ci piacerebbe dire che la fonderia si trova davvero in Polonia, ma abbiamo girato in provincia di Pavia, lì abbiamo trovato moltissima disponibilità dell’azienda che ci ha ospitati per girare le scene industriali, fondamentali. E il merito è del nostro produttore Andrea Italia.
Ha pure un che di chapliniano l’alienazione della vostra fonderia. Forse l’ingrediente che vi ha fatto conquistare il Festival di Seattle?
A.B. Sì, in un festival molto attento alle nuove voci del panorama internazionale, col nostro piccolo film pensavamo di passare sottotraccia. C’erano tanti altri film in concorso, una giuria americana, e invece abbiamo vinto nonostante i dialoghi difficili da sottotitolare.
M.S. E poi ridevano come pazzi, avendo colto che gli attori sono tre comici. Li faceva molto ridere che un italiano mangiasse la pizza col ketchup. E ci hanno visto anche Chaplin, infatti hanno definito il film un “cautionary tale sui tempi moderni” e sull’attualità che ci circonda.
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Già autrice del dramedy Palazzo di giustizia nel 2020, Chiara Bellosi è passata per la Berlinale anche quest’anno con la sua opera seconda, Calcinculo, in uscita domani in sala. Benedetta (Gaia Di Pietro), quindicenne timida e vessata dalla madre Anna perché in sovrappeso, trova rifugio nella roulotte della nuova amica Amanda (Andrea Carpenzano), un giovane dall’identità sessuale liquida, con una vita dissoluta e solitaria. Abbiamo incontrato la regista per parlare dei tanti fili che percorrono il film, e soprattutto dei sogni che sono il cuore di ognuno dei personaggi coinvolti.
Il tuo esordio, Palazzo di giustizia, veniva da una tua sceneggiatura con più personaggi e molti intrecci narrativi. Mentre per la tua opera seconda adotti una sceneggiatura di Luca De Bei e Maria Teresa Venditti decisamente più asciutta e intima. Com’è avvenuta questa scelta?
È stata una proposta della casa di produzione Tempesta: era una sceneggiatura già pronta, l’ho visto come un regalo. Il mio immaginario e il mio modo di scrivere sono del tutto diversi da quello degli sceneggiatori, ma ho subito cercato dei punti di contatto con la storia e quello più forte è stato accorgermi che a un certo punto ho cominciato a voler bene ad Amanda e Benedetta. Mi sarebbe dispiaciuto lasciarle a qualcun altro. Poi con gli sceneggiatori abbiamo fatto dei tagli e degli aggiustamenti, ma tutto è iniziato da quel moto di affetto.
Ad alcuni personaggi le ali per volare verso i sogni sono state spezzate nel passato, altri hanno la speranza che la magia prima o poi funzioni.
Non c’è nessuno veramente adulto nel film. Anche i genitori hanno conservato il nucleo del sogno che avevano da bambini e che nutrono costantemente, anche se sanno che non si realizzerà. I sogni di Benedetta invece sono ancora confusi perché è piccola, ha solo quindici anni. Sicuramente ciò che cerca è essere libera come si sente dentro, non come viene vista dagli altri, in particolare dalla madre.
Poi arriva l’Amanda di Andrea Carpenzano, che per Benedetta è una specie di Lucignolo. Non solo fuga dagli adulti opprimenti ma simbolo di trasformazione.
Sì, con Andrea abbiamo lavorato proprio pensando a Lucignolo. Però lui faceva davvero male a Pinocchio, mentre Amanda fa male a Benedetta solo come sua pari. Amanda non prevale mai, casomai Benedetta che predomina. La loro relazione è una specie di sorellanza: tra loro c’è uno sguardo orizzontale, mentre la madre e la famiglia hanno uno sguardo “verticale” su Benedetta.
Come hai aiutato Carpenzano a raggiungere un livello di femminilità così profondo?
Abbiamo parlato molto di come immaginavamo Amanda. Una persona arrivata da una grande solitudine ma cresciuta in un contesto d’amore. Abbiamo immaginato una madre incapace di seguirla, al punto di farsela portare via, ma divertente e amorevole. Amanda infatti è empatica e calda, seppur precaria perché vive in un mondo che si smonta dalla sera alla mattina. Probabilmente trova in Benedetta un’ancora affettiva stabile. Hanno una necessità reciproca che le accomuna
Uscirà a maggio La tana, opera prima di Beatrice Baldacci. Intanto, dopo la sua prima alla Biennale Cinema alla Mostra del Cinema di Venezia lo scorso anno, a Roma sono già iniziate le prime proiezioni d’anteprima, come quella d’inizio febbraio al Cinema Aquila dove c’è stato un sorprendente doppio sold out. Bello riempire due sale anziché una, soprattutto in questo periodo.
Il film racconta l’incontro/scontro di Lorenzo, ragazzo che lavora la campagna dei genitori durante un’estate assolata, e Lia, nuova e misteriosa vicina di casa che scatenerà in lui sentimenti inaspettati. L’ambientazione bucolica estiva in un casale nella provincia laziale ricostruisce uno spazio-tempo silenzioso e pieno di possibilità in un periodo di non lavoro e non studio, l’estate, dove può succedere qualsiasi cosa. Ma l’autrice, attingendo forse inconsapevolmente a una certa Nouvelle Vague, scava più a fondo, dietro e oltre i suoi personaggi e soprattutto intorno alla sua Lia, portando a galla una difficile e inaspettata situazione familiare. Irene Vetere, che per questa interpretazione ha vinto i Fabrique du Cinéma Awards 2021, e Lorenzo Aloi sono i protagonisti scelti dalla regista che abbiamo incontrato per un’intervista, poi diventata una ricca conversazione sul suo cinema e il suo lavoro sul set.
La tana è il tuo film d’esordio, potremmo definirlo un coming of age alla Eric Rohmer per questo incontro brusco e non romantico tra due giovani. Da quanto ti ronzava in testa questa storia, e quando hai deciso che doveva diventare un film?
Quando scrivo una storia le prime cose alle quali penso e mi affeziono sono i personaggi e luoghi. Avevo in testa già da tempo le figure di Lia e Giulio. M’interessavano molto questa contrapposizione di spiriti – uno più innocente, l’altra più problematica e brusca all’apparenza – e i luoghi del film, ispirati a quelli della mia infanzia. Mia nonna aveva una casa in campagna e di fronte c’era un’altra casa semiabbandonata che per me è sempre stata un mistero. Poi volevo portare avanti una tematica che avevo sviluppato nel corto precedente, Supereroi senza superpoteri, così mi è venuto tutto in modo abbastanza naturale. L’occasione si è presentata con Lumen Film, che mi ha chiesto se, avendo una storia, volessi partecipare alla Biennale College. E la mia era molto adatta ad uno sviluppo di micro-budget. C’erano poche location, pochi attori, quindi ho proposto La tana.
Come hai vissuto questo set e come hai scelto la location?
Inizialmente l’idea era quella di girare in Umbria, nei luoghi che conosco. Ma a causa del budget, e avendo lavorato durante la pandemia in zona rossa, era complicato. Non siamo riusciti a portare il set in Umbria e abbiamo iniziato la ricerca nelle campagne romane. All’apparenza sembra facile trovare due case una di fronte all’altra, in campagna. Però dovevano avere caratteristiche specifiche: dovevano essere abbastanza vicine, guardarsi una con l’altra, e una delle due doveva sembrare quasi abbandonata. La ricerca delle location è stata la cosa più complessa forse, ed è arrivata alla fine della preparazione al set. Ma abbiamo avuto fortuna perché le case trovate erano molto adeguate all’immaginario che avevo in testa. Poi è stato fatto un grande lavoro di scenografia, soprattutto per invecchiare la scasa di Lia. Riguardo alle riprese, il periodo del set per me è stato quello più rilassante di tutto il percorso del film. Pur con tempi strettissimi. Abbiamo girato solo in diciotto giorni, riuscendo a ultimare fino a tredici scene al giorno. Con tempi così stretti hai pochi momenti per pensare o andare nel panico. Il set dunque l’ho trovato molto naturale, il peggio invece è stato prima, durante il percorso con Biennale, che richiedeva più nervi saldi e l’esser messi spesso alla prova, oltre alla preparazione con gli attori.
Nel tuo lavoro precedente, il corto di montaggio Supereroi senza superpoteri, hai lavorato prevalentemente sul montaggio di materiali video provenienti dal tuo passato familiare. Ora invece hai messo in scena importanti dinamiche familiari con gli attori. Continuerai questa indagine emotiva sulle relazioni più strette o pensi di aver chiuso un cerchio e guardi ad altre tematiche?
Ne La tana ci sono diverse tematiche che mi sono portata dietro dal corto. Il tema dei ricordi, della nostalgia per i tempi passati sono cose entrate inconsciamente nel film perché mi appartengono. Quindi l’indagine familiare m’interessa molto, soprattutto tutto quello che ci si nasconde dietro, e come influenza la vita di figli e genitori. Staccarmene completamente non credo ci riuscirei, ma non voglio rifare lo stesso film per tutta la vita.
Forse la nostalgia di cui parli visivamente l’hai inserita in questi 4:3, formato sia del film che del corto, e in alcuni dettagli che metti della natura. Fiori e foglie in inquadrature molto strette, quasi pixelate. Credo rivelino molto della tua sensibilità, anche se sono immagini di raccordo.
La ricerca che faccio sull’immagine riguarda l’emotività: cerco ciò che apparentemente si lega a un’immagine, magari non c’entra niente, ma può suscitare emozione nello spettatore. Avevo fatto lo stesso con Supereroi utilizzando immagini amatoriali. Qui invece si tratta di immagini fatte con il cellulare per dare una sensazione di vicinanza. Più che narrativa, hanno funzione di suggestione. E quella nostalgia ho cercato di restituirla anche dall’interno della casa della protagonista, perché rappresenta tutto quello che è stato e che ora non c’è più. Quindi di un passato che in qualche modo sopravvive.
Invece per quanto riguarda i protagonisti, che vivono in un certo qual modo un’iniziazione sentimentale immersi nella natura, un po’ come accade in Chiamami col tuo nome, o in Io ballo da sola, come hai lavorato con gli attori?
Il periodo estivo, soprattutto quando si è giovani, è quello in cui tutto può accadere. Le cose magiche accadono sempre d’estate, c’è una strana atmosfera. Io intanto volevo che le due case fossero quasi due personaggi del film perché rappresentano i protagonisti stessi. Dovevano rispecchiare la relazione che Giulio ha poi con Lia. Sia attraverso le finestre che in tutte le scene, una cosa molto importante era per me il gioco continuo tra il dentro e il fuori. Quindi con Irene e Lorenzo abbiamo preparato il film con quasi due mesi di prove. Ci vedevamo regolarmente due volte a settimana, ma io volevo che si creasse un rapporto sia tra loro due, che tra me e loro. Inizialmente non abbiamo lavorato sulle scene del film, ma facevamo esercizi slegati dal contesto, esercizi di fiducia e di rimozione delle barriere d’imbarazzo che stanno tra persone sconosciute. Per esempio, andavamo al ristorante e facevo loro interpretare Giulio e Lia in quella situazione. Solo successivamente siamo passati alle prove del film vere e proprie, perché poi sul set non ci sarebbe stato tempo di provare o improvvisare. Era importante impostare tutto il lavoro da prima.
Hai scritto la sceneggiatura insieme a Edoardo Puma. È piena di silenzi e sfumature non facili da rendere. I due attori, rispetto anche alle prove, cosa hanno apportato in termini personali a La tana? Hanno tirato fuori dal cappello a cilindro qualcosa d’inaspettato che ti ha sorpresa?
Alcune scene sono cambiate durante le prove perché la sceneggiatura originale, nei dialoghi, era ancora più scarna del film come lo vedi ora. Così in prova aggiungevamo delle “sporcature” per rendere più naturale la scena, grazie ai suggerimenti di Lorenzo e Irene che mi aiutavano a renderla più adeguata in certi punti. Irene mi ha stupita molto perché ha sciolto tutta l’emotività che tratteneva nei take per esigenza di copione: è andata oltre il suo 100% dandosi completamente al film. Infatti dopo mi ha confessato che durante le prove preservava il suo lato più emotivo per farlo uscire completamente davanti alla macchina da presa. Tanto che in alcune scene, dopo lo stop, scoppiava in un pianto liberatorio.
Hai appena iniziato il tuo cammino da regista, ma qual è il genere di film che non vorresti mai girare? E quello dove invece ti piacerebbe cimentarti in futuro?
Che non vorrei mai fare perché non lo sento nelle mie corde? Sicuramente qualcosa tra azione e fantascienza. Perché sono cose troppo lontane da me. In verità ti avrei risposto inizialmente l’horror, perché non lo guardo, ma girarlo potrebbe essere divertente. Un genere che mi piacerebbe fare invece è il comico. Anzi, il tragicomico, il grottesco.
Mai come oggi il cinema in sala è minacciato da quello digitale, da salotto. Secondo te perché la sala è il posto migliore per guardare un film?
Prima di essere regista nasco spettatrice. Andare al cinema è sempre stata una mia buona abitudine. Per me è un rituale, un’esperienza collettiva: uno dei motivi che mi spinge a fare i film è sentire l’energia che scorre tra le persone. Mentre giro o scrivo un film finalizzo tutto alla sola esperienza di sala. Lo stare insieme davanti a un grande schermo porta anche dibattito. Se un film divide e fa discutere significa che qualcosa si è smosso e il film è riuscito. Invece guardare un film nella solitudine di un salotto annienta le possibilità di scambio di riflessioni e appiattisce l’esperienza cinematografica. Da qualche parte ho letto che Cronenberg, alla sua prima volta in un cinema, da bambino, chiese a suo padre dove vivessero quelle persone sullo schermo. E il papà, girandosi indietro e indicando il proiettore, gli rispose che vivevano tutte in quella luce lì. Secondo me è esattamente questa la magia che si crea quando si sta in sala.
Nel 2013 il corto La legge di Jennifer è candidato ai Nastri d’Argento e vince una borsa di studio agli Studios Universal di Hollywood. Un paio di anni dopo Bellissima si aggiudica il David di Donatello per il miglior cortometraggio. Ma la storia di Alessandro Capitani parte da Orbetello, città dalla quale proviene, passa per Bologna e poi per Roma. Nel suo lavoro s’ispira molto a Daniele Luchetti, il primo a portarlo sul set. Dal regista di Io sono Tempesta e Il portaborse ha imparato la relazione con l’attore, ma ama anche il cinema dei fratelli Coen e di Alexander Payne.
Com’è iniziato il percorso che ti ha portato alla regia?
Sei il primo a cui lo racconto. Non ero un grande cinefilo. Da piccolo andavo a vedere i cinepanettoni con mio padre e i film di Van Damme. Mi piaceva quell’epica dei tornei. Poi insieme ai miei amici si dovette scegliere l’università così, avendo mio fratello a Bologna per l’Accademia di Belle Arti, decidemmo di andare lì, ma iscrivendoci al DAMS. Ci sembrava facile e divertente, invece studiando cinema fin dalle monografie su Kubrick si aprì un mondo. Però dopo due anni di studio diventai impaziente. Volevo mettermi alla prova, così iniziai con i corti. E non mi sono più fermato. Poi mi hanno preso al Centro Sperimentale di Cinematografia e si fece tutto più serio, con coscienza.
Ed è arrivata anche la tivù, come regista e autore.
Il mio maestro è stato Daniele Luchetti, gli feci da assistente nel film La nostra vita; in seguito accettai una proposta da MTV per la trasmissione Calciatori giovani speranze e iniziò un nuovo percorso che mi ha portato a firmare alcune regie e programmi come autore. È un lavoro che permette di guadagnare, non tantissimo, ma ti fa vivere. Per me il cinema è per ricchi. Non bisogna avere soldi per farlo, ma per mantenersi quando non lo si fa.
Nel tuo film In viaggio con Adele trionfa il rosa. Dal pigiama a forma di coniglio e i post-it di Adele ai titoli di coda, passando per il suo vestito fucsia.
All’inizio giocavo con questo claim: Pink is the New Black. Poteva essere una frase da usare nella promozione, ma poi non l’abbiamo fatto. Per me il rosa è il simbolo della purezza, il colore della pelle di un bambino. In qualche modo il personaggio di Sara è così. Il colore rosa ne fa uscire tutta la tenerezza e l’amplifica.
La malattia mentale invece viene sfiorata, mai spiegata direttamente. Come l’avete cucita sul personaggio e in relazione ad Haber?
Volutamente non abbiamo specificato cosa avesse Adele nel film. Lei si definisce neurodiversa. Che vuol dire tutto ma anche niente. Il personaggio di Haber, Aldo, ha paura che sia contagiosa perché è ipocondriaco. In realtà ci siamo ispirati allo spettro autistico, tanto che nel film ci sono ragazzi con la sindrome di Asperger. Achille Missiroli interpreta il ruolo del fidanzato di Adele, e ha realmente la sindrome. Come la ragazza che canta nell’istituto. Il nostro è uno dei pochi film dove recitano ragazzi con l’Asperger. Con Sara abbiamo fatto un percorso attraverso questo mondo incontrando molti ragazzi, ma poi abbiamo deciso di sfumarlo in ripresa perché volevamo rispecchiare lo sguardo di Aldo. Quindi nessuna etichetta rassicurante né stereotipi. Sarebbe stato un errore. Lo spettatore doveva imparare ad amare Adele sul percorso di scoperta vissuto da Aldo. Così tutto è più leggero ma ti lascia immaginare. È qui che scopriamo la diversità di Adele.
Hai definito il tuo film un falso road movie. Perché?
Perché si chiacchiera tantissimo. Le scene in macchina sono talmente parlate che pur viaggiando con i personaggi attraverso la Puglia, ci sono pochi campi lunghissimi tipici del genere. Abbiamo anche dovuto ottimizzare il nostro tempo limitato per costruire il film e la sua storia girando in sole quattro settimane, ma ce l’abbiamo fatta.
Quanto avete provato con gli attori prima del set?
Con Sara abbiamo fatto degli incontri con dei ragazzi autistici e dei viaggi in Puglia con il dialect coach per acciuffare questo dialetto veramente strambo. Il foggiano è un insolito pugliese, poco conosciuto. Al suo mix aggiunge campano e molisano, nel complesso piuttosto difficile da preparare. Ma abbiamo avuto tempo per lavorarci: con Haber potevo andare a provare a casa sua in ogni momento. E con Sara ci siamo organizzati bene tra i suoi impegni. È stato un lavoro continuo e approfondito. Haber esce con una umanità che non siamo abituati a vedere: il suo arco narrativo è più cadenzato rispetto a quello di Sara, che invece esplode subito con Adele.
La provincia foggiana, così spoglia e piatta nei suoi panorami, sembra una scelta estetica funzionale a una teatralità di personaggi soli al mondo.
Il film all’inizio era ambientato in Salento. Quindi trulli, alberi, sole, natura. Tutto già visto. Invece io volevo dare un’altra visione, collocando questi personaggi in lande incredibili, spoglie. Lì trovi strade con chilometri di campi a destra e a sinistra. Un paesaggio così scenografico da valorizzare le anime dei due personaggi.
Dopo l’esordio al lungometraggio come prosegue il tuo cammino nel cinema?
Mi piacerebbe moltissimo collaborare di nuovo con Nicola Guaglianone. C’è un progetto di cui non dico nulla, spero si possa portare a termine perché è bellissimo, ma non posso parlarne perché è suo.
Classe 1985. Il regista Daniele Misischia ha esordito in sala a ferragosto con un The End? L’inferno fuori, horror inconsueto per il mercato italiano e venato di reminiscenze dei classici degli anni Ottanta.
Una formazione cinematografica iniziata alla NUCT di Cinecittà, le esperienze come operatore di macchina da presa e regista di seconda unità per i Manetti Bros ne L’ispettore Coliandro e Il commissario Rex. ll suo zombie movie low budget, prodotto dalla Mompracem degli stessi Manetti e RAI Cinema, grazie al braccio distributivo di 01 Distribution è uscito in sala a metà agosto e vede come protagonista Alessandro Roja. L’ex-Dandi di Romanzo criminale – La serie veste i panni di un manager di alta finanza che resta chiuso in un ascensore mentre intorno a lui si consuma un’apocalisse che vede le persone infettarsi trasformandosi in zombie.
Ambienta tutto a Roma Misischia. Dalle immortali silhouette delle statue che dominano San Giovanni ci rinchiude in un incubo claustrofobico fatto di elementi caratteristici del genere horror. All’interno di questo spazio angusto determinato solo dai numeri dei piani, riversa i peccati di un personaggio snob e infido che dovrà cercare di sopravvivere, come mai avrebbe immaginato, in un tripudio di splatter, exploitation e rimorsi di coscienza. Così abbondano scene di azione e corpo a corpo, sangue utilizzato come una punteggiatura grafica a segnare i personaggi quanto il mood di una storia ben determinata a terrorizzare il suo pubblico.
Come nasce l’idea del tuo The End?
Qualche anno fa, insieme al co-sceneggiatore Cristiano Ciccotti. Pensavo che sarebbe stato divertente raccontare l’apocalisse dal punto di vista di un poveraccio bloccato dentro un ascensore. Ragionando abbiamo capito che la soluzione meno costosa e più veloce era lo zombie movie, e da lì ne abbiamo tirato fuori un film atipico per il genere. Perché il punto di forza non è tanto lo zombie, anche se è meglio chiamarli infetti perché sono persone infettate, quanto invece l’assedio claustrofobico portato a un livello estremo.
Un intero film ambientato in situazioni claustrofobiche era anche una delle suggestioni accarezzate a suo tempo da Hitchcock.
Sì, assolutamente. Hitchcock è stato una delle maggiori influenze per me. Soprattutto per la costruzione della tensione nei suoi film.
Chiudere un set e un cast in ascensore che tipo di esperienza si è rivelata?
In realtà è stato complicato da realizzare, ma anche molto divertente. Complicato perché un film tutto in una sola location ti costringe a mantenere una tensione sempre altissima. La concentrazione quando si gira su quello che sta succedendo e sulle scene d’azione deve rimanere massima per necessità, altrimenti rischi di rendere il film noioso per lo spettatore. Ma è anche divertentissimo, perché stabilizzarti sulla stessa location ti obbliga a stare in contatto ancora più stretto con cast e troupe. Da queste cose nascono buone sinergie che ti fanno vivere meglio il set.
Tutto va avanti per una porta bloccata che decreta la vita o la morte di ogni personaggio. C’è qualche episodio che ti è rimasto impresso durante la lavorazione?
Ti potrei raccontare un paio di cose legate alla lavorazione e alla preparazione di Alessandro Roja all’interno dell’ascensore. Prima di ogni scena di suspense o azione avevamo stabilito con lui di far partire una musica assordante. Un grind-metal che potesse fomentare l’adrenalina nell’attore. Invece per la suspense avevamo scelto la musica de La cosa composta da Ennio Morricone, con un andamento molto lento e thrillerico. Roja ha voluto anche essere sorpreso sul set riguardo all’entrata in scena degli zombie per lavorare meglio a uno spavento reale, e il risultato si vedeva bene già dai girati. Molte volte facevamo rumori improvvisi o lasciavamo passare gli infetti davanti all’ascensore dov’era chiuso, ma senza che lo sapesse prima.
Più che a The Walking Dead, ormai una sorta di bibbia moderna per chi si cimenta nello zombie movie, ti rifai alle lezioni di Bava, Carpenter e Romero confezionando il tuo lavoro in stile anni ’80.
È verissimo. The Walking Dead non l’ho mai apprezzata come serie. Giusto la prima stagione era interessante, con Frank Darabont alla regia, che ho sempre ritenuto molto in gamba. Però poi anche TWD ha subito la maledizione di un po’ tutte le serie. Andando avanti i personaggi si annacquano diventando irrealistici e ora galleggiano in una soap-opera-zombie. Riguardo all’horror mi sono rifatto a John Carpenter e Sam Raimi, e a Romero fino a un certo punto. Qualcuno ha trovato similitudini tra The End? e i due Demoni di Lamberto Bava. E sicuramente credo che qualcosa a livello inconscio ci sia.
Roma e gli zombie. Il tuo film è una specie di metafora sociale alla Romero rispetto a questo binomio?
Non volutamente. Per quanto riguarda un sottotesto sociopolitico sicuramente qualcosa c’è, perché quando si fa un horror si va a rappresentare la società, anche se in modo grottesco. Il nostro contesto però non è squisitamente legato a Roma, perché la storia potrebbe essere ambientata in qualsiasi grande città di potere governata dal denaro. Poteva trattarsi di Milano come New York. Certo, con Roma ho avuto la possibilità di girare in una delle città più belle del modo. Quindi fare un totale dall’alto con il drone riprendendo i cadaveri sul Lungotevere è un’occasione ghiotta per un regista di genere.
Infatti da qualche tempo il cinema di genere ha ricominciato a interessare gli autori e il pubblico. Come vedi il futuro dell’horror?
È un genere che ha ancora tanto da dire, anche se in questo momento i film che escono sono spesso la fotocopia l’uno dell’altro. Quando però è usato per raccontare qualcosa di attuale offre l’occasione di riflettere. Le persone amano spaventarsi, soprattutto al cinema, perciò è un genere che non morirà mai. Anche se alcuni mi hanno detto: “Scusa, l’horror mi spaventa, perciò non andrò a vederti al cinema”. Come se avessi girato il nuovo Esorcista. Magari! È l’unico film che riesce ancora a terrorizzarmi. Però aver fatto un film prodotto da RAI e Manetti Bros, e poi distribuito da 01, è la prova concreta che qualcosa sta cambiando. Spero che si arrivi presto a produrre in Italia una decina di film di genere all’anno, cosa fino a poco tempo fa impensabile.
The End? ha un punto interrogativo nel titolo. Stai già puntando a un sequel o a un franchise?
In realtà no. O non ancora. The End? era stato proposto come titolo internazionale da uno degli organizzatori del London FrightFest Film Festival, al quale abbiamo partecipato lo scorso anno. Il titolo originale era In un giorno la fine, ma a me era piaciuta molto quella nuova idea del punto interrogativo così, prima dell’uscita italiana, abbiamo deciso con 01 di renderlo titolo ufficiale. Secondo me non è un film da sequel, ma se dovesse capitare e ci fosse possibilità non mi tirerei indietro.
Con una carriera di film dal taglio letterario ma sempre legati saldamente a temi attuali, Mario Martone ha raccontato storie profondamente umane sia in teatro che al cinema. Da domani è in sala il suo ultimo lavoro Capri-Revolution (qui la nostra recensione da Venezia), ambientato nella Capri del 1914 e interpretato da Marianna Fontana.
In occasione dei Fabrique Awards, di cui è stato applaudito ospite consegnando il premio alla Miglior opera prima 2018, abbiamo ripercorso con lui alcune tappe del suo percorso artistico e i suoi ricordi personali. Proprio questi ultimi sono andati anche a fondersi, un po’ inaspettatamente, con l’ultimo film di Paolo Virzì.
L’intervista completa la troverete sul prossimo numero di Fabrique du Cinéma.
Oggi nel percorso di crescita di un autore conta di più una preparazione scolastica, quindi tecnica, o la pratica e quindi la vita sul set respirando cinema?
Credo di essere la persona meno indicata a rispondere perché ho fatto i miei primi lavori da giovanissimo. Un totale autodidatta. Iniziai in seconda liceo, senza aver frequentato nessuna scuola di cinema, né aver fatto da assistente. Di una cosa sono però certo: l’importanza del confronto e della dimensione collettiva. Puoi trovare te stesso, come regista o come attore solo attraverso il confronto nel lavoro collettivo, con gli altri, perciò una scuola è importante per quello che t’insegneranno i docenti, ma più di tutto saranno importanti i compagni con cui svilupperai un vero confronto. Nei giorni scorsi, vedendo Notti magiche di Paolo Virzì, mi è tornato alla mente l’inizio degli anni ’90 in cui eravamo in tanti a fare cinema a Roma, venendo da città diverse. Ricordo i dibattiti con Paolo. Lui era legato al cinema italiano, alla sceneggiatura e alla commedia. Io invece avevo un’idea di cinema diversa. Poi a distanza di anni le cose si metabolizzano in un film. Infatti, io ho girato con sceneggiature molto importanti, mentre Paolo ha dimostrato che con le immagini costruisce bene come nella scrittura. È stato fondamentale quel confronto iniziale, anche attraverso le discussioni. Oggi sui set ci sono più regole, anche per una maggiore sicurezza e quindi è un bene, ma al tempo stesso sono minori le possibilità di accedervi facilmente.
In Capri-Revolution Marianna Fontana interpreta una pastorella che scopre il mondo. La sua crescita di donna passa tra un percorso di maturità cronologica naturale e la scoperta dell’indipendenza. Quanto è politico il suo cinema?
Non ho niente contro il termine ‘politico’, che viene dal greco polis. E io sono un regista di teatro che ha portato in scena molte tragedie greche. Per me l’idea di politica è il pensiero sul vivere insieme, sulla comunità. Siamo in un tempo dove la parola politica ha assunto un’accezione sporca, bisognerebbe sapere invece che ha anche un valore estremamente importante. Il teatro, ad esempio, che si tratti di tragedia greca o di Shakespeare, è politica in quanto racconta vicende di uomini in relazione alle loro comunità. È questo il valore che condivido. Il mio cinema non vuole lanciare messaggi o dare lezioni, si limita a porre delle domande. Ai miei personaggi, a me stesso e alle persone che lavorano con me sul set. Vive di un’interrogazione continua tra dubbi e possibilità e Capri-Revolution ne è una sintesi molto chiara perché mette molte idee in campo. Nessuna presentata come vincente, ma si racconta il confronto tra idee diverse. Certamente c’è l’amore per un personaggio femminile che è il perno del film, attraversando questo flusso di idee anche contrastanti. Lucia è affascinata mentre impara a padroneggiare temi così complessi per scoprire la sua propria identità. Penso sia questa la chiave di lettura. Soprattutto in un tempo di grande alienazione come quello che stiamo vivendo.
A questo proposito, un regista, un intellettuale di oggi come può apportare un segno positivo alla cultura del proprio paese?
Facendo bei film e creando processi collettivi. Quello che bisogna cercare di fare quando uno spettatore vede un tuo film è far scattare qualcosa di vitale, una relazione. I film devono essere aperti, “farsi” da un lato e dall’altro dello schermo. E gli spettatori non possono essere passivi. Dobbiamo ricreare un rapporto intimo, come quello che vivevo io da ragazzino quando mi sentivo coinvolto dalle immagini che guardavo alla televisione. Dobbiamo coinvolgere lo spettatore in quello stesso modo. Ricorda quando in Noi credevamo, a un certo punto, ho messo una struttura in cemento armato completamente anacronistica nell’800?Ecco, quello è un segno chiaro del voler scuotere lo spettatore.
Un po’ come fece Sofia Coppola in Maria Antonietta, dove tra gli oggetti della Regina di Francia inserì scarpe da ginnastica moderne.
Certo, anche lei intendeva dare la stessa scossa attraverso questo espediente.
Ci sono giovani registi italiani, magari all’opera prima, che segue con interesse?
Non posso che ricordare il film che ho premiato proprio ai Fabrique Awards, La terra dell’abbastanza dei fratelli D’Innocenzo. Ma ce ne sono molti altri, mi sembra un momento molto vivo per il cinema italiano.
Dimenticati i fumi di sconfitte girotondine, abbassata la guardia di un partito che non dice più nulla di sinistra da troppo, chiusi i dolorosi conti materni, e previste in stile Nostradamus le inimmaginabili vicissitudini di un caimano da una parte, e di un pontefice dall’altra, Nanni Moretti ha scelto il Cile. Getta sempre nella curiosità più vibrante l’alba di un suo nuovo lavoro. Così, dopo la presentazione al Festival di Torino e il riconoscimento come Film della Critica da parte del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI, dal 6 dicembre il suo film è al cinema. S’intitola Santiago, Italia questo documentario che sulla carta poteva prospettarsi tra il momentaneo buen retiro cinematografico e la fuga antropologica di un intellettuale che deluso dal suo paese se ne va a pensare per un po’ fuori dai confini. Un po’ come quei mariti che fumano in balcone, al freddo, escogitando silenziosamente, tra scottanti interrogativi, una soluzione ai problemi di casa.
Non è un politico Moretti, ma il suo cinema è politico eccome, e stavolta più che mai. A Santiago incontra uomini e donne che vissero il colpo di stato cileno nel 1973. Dopo il rovesciamento di Allende per mano dei militari guidati da Pinochet molti cileni fuggirono scavalcando il muro dell’ambasciata italiana. Fu lì che centinaia di richiedenti asilo vennero accolti. Molti furono poi ospitati dall’Italia, difesi e sostenuti dai governi dell’epoca s’integrarono nel nostro paese. Qualcuno è tornato a casa, altri sono rimasti, cileni diventati anche un po’ italiani. Con figli naturalmente italiani seppur di radici cilene, ma i ricordi di quelle settimane ancora indelebili nella memoria.
Scava nei passati Moretti. Fa parlare muratori, registi, artigiani, giornalisti, medici, operai. Uomini e donne che sopravvissero alla rivoluzione grazie all’ambasciata. Uomini e donne che furono torturati durante la detenzione ad opera del nascente regime. Poche ed essenziali immagini di repertorio, un lavoro asciutto basato sulla parola e sulle facce spreme il succo di ogni esperienza in un puzzle che si compone ordinatamente intorno a un momento storico cruciale per la Guerra Fredda e per il sentire di sinistra nel nostro paese. Molte furono infatti le manifestazioni italiane a sostegno dei cileni attaccati da Pinochet.
Parzialità e imparzialità dell’autore, i giorni della prigionia e gli inattesi apostrofi d’autoironia su alcuni racconti di tortura. Elementi come questi rendono prezioso il documento girato da Moretti: l’umanità lacerata si rialza, torna a vivere, guarisce, ricorda, soffre il passato ma lo tampona con l’ironia che il futuro, anzi il presente le ha regalato. Sono brevi momenti di magia cinematografica il naturale mescolarsi di lacrime e sorrisi. Soprattutto trattandosi di un documentario. Ma a parte la formalità dell’opera qui è il contenuto che fa la differenza. Attraverso il racconto di un evento lontano 45 anni in un paese dall’altra parte del mondo, più attuali e calzanti che mai, spuntano come due garofani in autostrada accoglienza e integrazione. Uno schiaffo tanto forte quanto silenzioso a quanti chiudono alla diversità e al sostegno di una società multietnica in nome di una precedenza italica che sa giusto di social, patria e paccottiglia.
Antonio ha 17 anni. Niente più scuola per lui. Si dedica al suo sogno, diventare un calciatore professionista, e contemporaneamente a gestire al meglio un fardello più grande: l’instabilità della madre malata di gioco. Come se non bastasse, la sua gioventù viene stretta da una precaria situazione economica che lo costringe a lavorare ad una pompa di benzina. Un giorno all’improvviso, nuovo titolo della No.Mad Entertainment, scandaglia un bouchet di sentimenti spesso contrastanti. Da una parte vi sono cronicità del gioco d’azzardo incontenibilità del carattere ammalato di una donna, dall’altro la pacatezza forte e volenterosa di un adolescente costretto a crescere in fretta. Ciro D’Emilio, regista al primo lungometraggio, mette insieme una storia di periferia giocata interamente sugli equilibri fragili di un rapporto epidermico e profondo tra madre e figlio.
A vestire i panni irosi di questa donna è Anna Foglietta. Usa le grida come primaria forma d’espressione il suo personaggio. Tanto che, consumato da sé stessa, trova momenti di pace soltanto nell’amore sviscerato verso quel ragazzo che certe volte sembra più premuroso di un fratello e più responsabile di un genitore. «L’aspetto materico e carnale era necessario per restituire lo spessore della malattia di questa donna». Ha raccontato la Foglietta durante la recente presentazione per l’uscita cinematografica del film. «La presenza di Giampiero, fisica e interiore, collimava perfettamente con la mia d’attrice, e non di personaggio». Grazie anche al promettente Giampiero De Concilio l’attrice ha esplorato vie inedite al suo lavoro arrivando alla sua migliore performance recitativa. Oltretutto mette in atto con il suo giovane collega una combinazione alchemica esplosiva.
«Lavorare con Anna significa stare sempre sul pezzo, rimanere sempre in temperatura. Un continuo dialogo di persone e personaggi». Ha spiegato De Concilio. Il suo lavoro fatto di sottigliezze espressive e energie contaminanti dimostra una fermezza e una maturità nell’affrontare il suo mestiere d’attore ben superiori alla media dei suoi coetanei. Un artista che già dalla sua giovane età non smette d’interrogarsi sui lati sconosciuti dell’animo umano si abbandona, come lui, a un lavoro fatto di ragione quanto a importantissimi spazi d’istinto. «Riscrivendo le battute venivano fuori nuove soluzioni inimmaginabili, di pancia. Perché un attore deve comprendere fino in fondo un personaggio per interpretarlo?»
L’incoscienza giovanile a volte premia. Infatti, presentato a Venezia 75, selezione Orizzonti, l’esordio di D’Emilio ha fruttato un Premio Nuovo Imaie per De Concilio e un Premio Fice come Miglior attrice dell’anno per la Foglietta. Senza contare i riconoscimenti dal Festival di Annecy, nella Francia dove il film verrà riproposto, più precisamente a Parigi, l’8 dicembre, sotto egida MiBact. Il regista evita stereotipi rendendo il proprio esordio lucido e duro come un pugno allo stomaco. Niente proiettili o Scampia dei Gomorra. Niente fronzoli o giri inutili con la macchina da presa.
Ambientazione, luce e suono iperrealistici strappano lo spettatore alla poltrona sicura per incastrarlo in un vortice di umanità in conflitto, ferite, denti digrignati, lacrime struccate e palleggi speranzosi. Una storia di vinti dove un ragazzo cerca a tutti i costi di emergere. «Abbiamo diciassette anni.» Gli chiede la fidanzata. «Io non me ne sono mai accorto». Risponde lui in un passo fondamentale ripreso anche dal trailer. Piccolo grande esordio, ne sentiremo ancora parlare per candidature ad altri importanti premi italiani.
Presentato al Festival di Cannes, per la Quinzaine des Réalisateurs, Troppa grazia si è aggiudicato il premio Label Europa Cinema nell’edizione del 2018. Arriva nei cinema italiani il 22 novembre portando una ventata di misticismo laico amalgamato a una commedia agrodolce su una storia semplice. Lucia, Alba Rorhwacher, è una geometra circondata da piccoli e grandi problemi di ogni giorno. Vive con una figlia adolescente da mantenere tutta sola perché il suo ex-compagno dalle pretese labirintiche e i modi tendenzialmente violenti, Elio Germano, ha fatto il suo tempo in casa loro.
Mentre il lavoro va e viene, il padre di Lucia, omino con la saggezza tra le nuvole, è invece uno di quei sessantenni un po’ assenti perché curiosamente assorbiti da tastiere e comunicazione social. L’onda buona arriva con la commissione su un terreno da misurare prima che partano i lavori di costruzione. In questo campo dorato che l’autore Gianni Zanasi raffigura come un Eden sospesa tra città e natura avverrà lo strano incontro destinato a cambiare la vita di Lucia.
Vedere la Madonna che ti indica una misteriosa missione, per di più contro i tuoi stessi interessi lavorativi non è il massimo. Sta proprio tra questi due estremi la molla tirata da Zanasi per costruire la sua commedia. «Il sentimento improvviso e fuori luogo del Mistero, e la nostra vita che lo sfiora in modo anche banale: il mistero immobile e potente da una parte, e il “giorno per giorno” friabile e confuso dall’altra» ha spiegato lo stesso regista recentemente. «Le domande profonde che sentiamo, le risposte scomposte e improvvisate che diamo e ancora di più quelle che evitiamo. La verità e la menzogna». La Madonna, una giovane scambiata inizialmente per profuga da Lucia, ha il volto giovane, iconografico ma allo stesso tempo molto moderno dell’attrice israeliana Hadas Yaron.
Gli scambi con Lucia prendono diverse pieghe, come quelli reali tra due donne. Proprio per questo, il dubbio di lei sulla sua sanità mentale contamina anche lo spettatore. Questi incontri saranno frutto di un esaurimento da stress o di una reale Volontà Divina? «Questo non è, evidentemente, un film di tema religioso, perché non è un film sulla capacità di credere in Dio oppure no» ha chiarito Zanasi. «È un film sulla capacità di Credere Ancora, nonostante il nostro non essere più bambini. Di sentire, di immaginare».
Sicuramente Zanasi sceglie l’anonimato della provincia laziale, ambientazione della storia, per permettere la totale emersione alle anime dei suoi personaggi. Un po’ come quelle scenografie teatrali profondamente nere, ci pone di fronte a fragilità e potenzialità di Lucia: la Madonna costituisce l’ostacolo/leva per sbocciare da una crisalide. Attraverso il lavoro visivo, la dimensione natura ci porta tra colori brillanti e luci fortemente estive nell’Eden di sospensione che contrasta con le geometrie urbane semplici, slavate, e gli interni casalinghi dai colori caldi e acidi a rincorrersi, sfondo per i litigi con l’ex e gli scambi più animati con la Madonna.
La narrazione risulta semplice come una parabola di periferia. I toni tenui della commedia agrodolce non spingono a sentimenti né sentimentalismi estremi, ma la sospensione d’incompletezza nel quadrare il cerchio della storia rimane, come quella fragilità della protagonista che la Madonna vuole convertire in forza profetica. Così, al cinema, al netto di madonnine e profezie, si resta con un paio d’ore di film mediamente godibile e molto ben confezionato per un pubblico più alla ricerca dell’originalità di una storia che alla sua emozionalità dirompente.