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Francesco Di Brigida

Supersex: anche il porno è stato bambino

Era una delle serie italiane Netflix più attese dell’anno Supersex, disponibile online dal 6 marzo. Sette episodi ispirati alla vita di Rocco Siffredi, icona del porno interpretata da Alessandro Borghi. L’attore romano ne carpisce l’anima rimodulando sul suo volto lo sguardo intenso e la risata larga un po’ obliqua del pornostar, lati noti di Siffredi. Ma la novità sono le inquietudini e le fragilità di un uomo che è stato prima di tutto bambino e ragazzo, sempre attratto dalle donne fin quasi all’ossessione, ma perseguitato dai suoi demoni del passato.

Si parte da una sua crisi del 2004 per dei flashback che ci mostrano l’infanzia e poi l’adolescenza di un ragazzo abruzzese cresciuto in una casa popolare di Ortona assieme a una famiglia numerosa, ma destinato a diventare un divo. Prima tappa del suo cammino Parigi, ospitato dal fratello maggiore dal volto rude di Adriano Giannini. «L’amore è difficile, Rocco. Tu hai quegli occhi buoni e parli dell’amore, ma manco sai cos’è». Gli dirà la moglie del fratello impersonata da Jasmine Trinca. Con loro si costruisce il principale nucleo di relazioni e contrasti. Il giovanissimo Rocco guarda come esempio il fratellone e custodisce fin da bambino il suo giornalino erotico Supersex come il Don Abbondio di Manzoni teneva al suo breviario. Tutt’intorno si svilupperanno il legame con il cugino manager e lucignolo con il volto di Enrico Borrello, la professionalità del pornoattore con il suo primo mentore, il pornostar francese Gabriel Pontello, con il produttore italiano Riccardo Schicchi e con l’icona nonché amica dispensatrice di piccole saggezze erotiche Moana Pozzi, interpretata con molta verità nel suo fascino un po’ flemmatico da Gaia Messerklinger. La relazione più combattuta e tenera è invece con la madre impersonata da Tania Garribba, mentre una vera sorpresa toccante sarà l’amicizia importante con l’attore Franco Caracciolo, caratterista di tante commedie sexy degli anni ottanta, che ha il volto dell’ottimo Mario Pirrello.

Tra le elucubrazioni di un eroe oscuro, il delirio del sesso attraverso i labirinti del desiderio e gli affetti che hanno circondato il protagonista durante il suo cammino, la sceneggiatura di Francesca Manieri tesse insieme un reticolo complesso di contrasti emotivi, introspezioni, conflitti interni e tra i personaggi che va ben oltre la pornografia. La Manieri ha scritto film, tra gli altri, per Laura Bispuri, Valentina Pedicini ed Emanuele Crialese. Il suo tocco gentile si sente in moltissimi passaggi, assumendosi come lei stessa ha dichiarato «il rischio e il privilegio di raccontare il maschile partendo da un maschio che del maschile occidentale è diventato senza dubbio emblema». Ed è questa forse la vera arma vincente di Supersex. Poi c’è ovviamente l’epopea del porno. Lo chiama potere, superpotere, il Rocco diretto da Matteo Rovere, Francesco Carrozzini e Francesca Mazzoleni. «Il cazzo è un pensiero. Non ero pronto per il soft ma non ero nemmeno pronto per l’hard». O anche, all’apice del successo: «Era così forte quello che vendevamo, che la Chiesa, lo Stato, le guardie, erano tutti contro di noi». Dirà la voce off di Rocco/Borghi.

SupersexNon mancano scene forti, ma questa serie rimane ben allineata tra i prodotti Netflix. In Italia è molto difficile parlare di sesso, ma su una piattaforma ramificata in 190 paesi la questione cambia. E Groenlandia espandendosi in varie direzioni dell’audiovisivo ha aggiunto alle sue produzioni un tassello piuttosto sostanzioso. Non propone in realtà molte idee di macchina da presa Supersex, ma compensa con l’ottima direzione e ricerca attoriale. Presenta una patinatura un po’ sognante sull’infanzia e la giovinezza, dove il ruolo di Rocco è coperto da un energico Saul Nanni, mentre la fotografia sul Rocco in crisi degli anni 2000 assume più profondità visiva. Inoltre racconta a modo suo un po’ di Abruzzo attraverso il dialetto tutto sommato ben proposto, pur con il paese natale del protagonista, Ortona, che viene inquadrato soltanto nelle panoramiche aeree, venendo ricostruito sui set del Trullo e di Ostia, quartieri di Roma.

Antipop, la storia di Cosmo in un doc su Mubi

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In gergo tecnico l’anti pop è un filtro audio, un piccolo reticolo posizionato tra il microfono e la bocca del vocalist che serve a escludere dall’incisione piccoli rumori dovuti all’articolazione delle parole o alla respirazione. Nel caso del documentario su Cosmo e la sua band, in uscita su Mubi, Antipop ne diviene il titolo, ripulendosi anche da quella definizione così larga e onnivora che è il genere pop. Ed è inoltre lo stesso titolo di un brano dell’album La terza estate dell’amore, una citazione voluta dal regista Jacopo Farina, qui alla sua opera prima.

L’ascesa di Cosmo non appartiene al mercato discografico immediatamente mainstream e la scalata al successo del cantautore di Ivrea somiglia più alla storia di una garage band. Sempre circondato e legatissimo al gruppo e alla sua famiglia, questa caratteristica è il cuore del lavoro di Farina, che si concentra non tanto sulla spiegazione di testi e musiche, ma sulla vita vissuta della “tribù” che ruota intorno a Marco Jacopo Bianchi, da cui poi l’artista emergerà con il nome di Cosmo. Si parte dalla sua prima band, i Melange e dalla morte prematura di uno dei musicisti, passando per il secondo gruppo, i Drink to me, e poi finalmente si arriva al successo presso il grande pubblico come solista, che solo non è mai stato.

Nella prima parte del doc Farina ci espone un racconto corale dove i genitori, ogni amico o musicista hanno lo stesso peso. Ci sono le prove nello scantinato di uno zio o in tavernette casalinghe con boiserie, antistanti il bagno d’una madre presa dal fare il bucato; le bevute dopo i rifornimenti di birre al supermercato e le ragazze che testimoniano amori e creazioni musicali; lo spirito dell’essere uno per tutti e tutti per uno nel lutto affrontato con una lunga astensione dagli strumenti quanto nell’appoggiare in toto la nuova identità solista di Marco, anzi Cosmo. Una famiglia e una tribù appunto, dove a contare è l’unione, sempre e comunque. È questa la caratteristica più incisiva del doc e del Cosmo-mondo. Il regista l’affronta con la voce narrante di Cosmo stesso, e ci sentiamo quasi Marco che osserva la sua storia, o meglio il mondo che lo ha circondato sin dall’adolescenza. Quasi un doc in soggettiva, insomma.

La musica qui ha un ruolo amniotico e, libera dal binomio convenzionale del videoclip (canzone-performance visiva), circola in questo lavoro come una linfa. Sempre presente in mood sonori quasi sottotraccia, loop e melodie estrapolati da arrangiamenti editi, percorre il film con il sound elettronico che caratterizza questo artista.

Dall’1 marzo Antipop arriva in esclusiva su Mubi. Forse una piattaforma di qualità è la migliore via distributiva per un doc di questo formato, un’ora, molto adatto a una fruizione televisiva d’approfondimento. Essendo in uscita il nuovo album, Sulle ali del cavallo bianco, il quarto da solista di Cosmo, in uscita il 15 marzo per Columbia Records e Sony Music Italy, sembra anche il lancio perfetto sul piano del marketing.

Te l’avevo detto, Ginevra Elkann ci riprova

Siamo in una Roma accaldata e giallastra. Anomalie termiche portano il caldo sopra i 35°. Ma siamo a gennaio, e i personaggi di questa coralità intitolata Te l’avevo detto sembrano un bel po’ spaesati anche per questo motivo. E soprattutto presi dalle personali vicende che condurranno ognuno di loro a venire a capo dei mille rimandi di una vita. C’è la pornostar sul viale del tramonto ispirata a Cicciolina di Valeria Golino che dovrà fare i conti con la sua stalker un po’ nevrotica Valeria Bruni Tedeschi. C’è la giovane badante bulimica alle prese con un flirt da pianerottolo Sofia Panizzi, e ci sono poi i sottotitolati Greta Scacchi e Danny Huston, per l’occasione sorella e fratello sacerdote, americani, con l’incombenza di trovare una collocazione per le ceneri della loro madre.

Quest’opera seconda di Ginevra Elkann segue l’esordio di Magari, anno 2019, del quale mantiene Riccardo Scamarcio e Alba Rohrwacher, in coppia anche lì, ma qui divorziati e con un bambino conteso. La narrazione intessuta questa volta ambisce a una tridimensionalità che non spicca mai il volo. Vuoi perché i dialoghi tante volte scorrono farraginosamente – la sceneggiatura è scritta dalla regista con Chiara Barzini e Ilaria Bernardini – vuoi per la scelta di non spingere mai gli eventi ad un climax realmente catartico. Ma latitano anche invenzioni originali in macchina da presa. L’intenzione di stendere un affresco un po’ distopico sulla catastrofe ambientale imminente abitata da storie di singoli con esistenze al capolinea non era neanche malvagia, anzi, se ne poteva creare un bel ponte metaforico quanto attuale. Anche se qui Paolo Virzì con Siccità è arrivato un po’ prima. Il fatto è che sviluppo ed esecuzione risultano leggeri, e i personaggi mollicci. Queste donne dalle vite inciampate sui problemi potevano essere molto di più. E il cast lavora davvero bene con quel che ha, ma sempre limitatamente al proprio ruolo. Va bene, c’è la scelta di far bisbigliare alcuni personaggi, e questo è uno dei peccati capitali del nostro cinema negli ultimi lustri, ma le emozioni che lo schermo ci inocula restano poche e sfuggenti.

Con la sua ottima confezione tecnica, la fotografia opportunamente polverosa e appannata è di Vladan Radovic, Te l’avevo detto arriva in sala il primo febbraio distribuito da Fandango. Avendo prodotto in Italia i buoni esordi di Duccio Chiarini, con Short Skin, e Lamberto Sanfelice, con Cloro, ma pure i primi due film dell’iraniano Babak Jalali, Frontier Blues e Land, l’impressione è che Ginevra Elkann ha forse maturato più e meglio il ruolo di producer. Con pazienza, l’aspettiamo alla sua opera terza, o alle prossime produzioni. L’ultimissima nota di merito va a Riccardo Senigallia. È lui a comporre per la colonna sonora alcune musiche estremamente intriganti che salvano il film.

Enea, il fascino rabbioso della borghesia

Gli auricolari sempre nelle orecchie ti connettono con il mondo ma ti distaccano dal prossimo, e forse pure da te stesso. Chissà se l’Enea di Pietro Castellitto, al cinema da oggi, se ne rende conto mentre svapa nella limo che se lo scarrozza per la Roma bene. Gli eventi della sua vita agiata gli scivolano addosso come fossero tracce Spotify. Così questo trentenne galleggia tra la gestione del suo localone sushi-dance e l’amico aviatore, le feste passate a salutare, gli eccessi tirati su dal naso e una famiglia borghese e perbenista che sognerebbe la propria pace. Invece a Enea capita di entrare in un grosso giro di spaccio, così le cose cambieranno. Per sempre.

Castellitto torna a scrivere e dirigere dopo I predatori. Non perde ferocia, anzi. Il suo mondo stavolta si restringe esclusivamente su una Roma Nord di bella facciata ma priva di valori saldi. O meglio, anch’essi come brani Spotify passano e spariscono dal player della vita in un soffio. “Le ragazze belle rendono la vita leggera come un treno di nuvole”, dirà al primo appuntamento a Benedetta Porcaroli. Spinta dal motore della vitalità giovanile, la leggerezza si mescola con un’arroganza silente ma punzecchiante come un laserino negli occhi. E alla base una totale mancanza di umanità e reale contatto con l’altro da sé compone una rabbia recondita che permea anche i più insospettabili.

Alla regia vuole strafare Castellitto, più che nel suo lavoro precedente. In parte ce la fa, anche lasciando scoperti vari aspetti di quella che sarebbe un’intricata vicenda criminale. A proposito di questo è Adamo Dionisi, ex-boss gitano di Suburra, a interpretare il grosso capoclan che prende a cuore Enea rivolgendogli il frasario poetico e sano che non ti aspetteresti mai e poi mai da un tipo così. Sarà paradossalmente lui a incarnare in toto tutti quei valori scivolati via come sashimi avanzato. L’interpretazione di Dionisi vale una significativa fetta di film. Fa tenerezza poi la presenza del vero fratello Cesare Castellitto nei panni del fratellino quindicenne bullizzato e ingenuo. E quella del placido padre di Enea interpretato proprio da Sergio Castellitto. Infine lo scontro con Giorgio Montanini, già protagonista dell’opera prima. Stavolta l’attore marchigiano si ripulisce dal fascistello che interpretò per Castellitto dando vita a uno scrittore che simboleggerà l’opulenza, la ricchezza, ma probabilmente non la potenza. Spetterà agli audaci quella? Chissà.

I personaggi di questo lavoro galleggiano sperduti tra rimorsi e rabbia. Si nutre di piccoli paradossi e grandi cortocircuiti questo film che non lascia tranquilli. In certe atmosfere riecheggia la Borghesia tratteggiata da Bunuel, in altre ci si può percepire il filo invisibile che lo lega incoscientemente al contemporaneo Saltburn di Emerald Fennell, entrambi cuccioli in qualche modo debitori dell’eredità liscia e spietata di American Psycho. Anche se in fin dai conti l’ombra di un’influenza sorrentiniana potrebbe essere sospettabile quanto naturale. Enea, il film, non sia mai il ragazzotto, schiaffeggia, taglia e distrugge quando apparentemente accarezza e accoglie nel suo agio. Sbruffone nella forma e nella sostanza Castellitto ci piace anche con le sue imperfezioni perché ha coraggio e stile. Sarebbe una gran cosa prima poi vederlo lavorare insieme ai D’Innocenzo. Il cinema italiano ha bisogno anche di questi enfant terrible, con tutti i loro pregi e tutti i loro difetti.

 

Clorofilla: la ragazza con i capelli verdi entra nel mito

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Maia ha capelli verdi erbacei, è legata in maniera profonda alla natura e al mondo delle piante. Teo è un giovane e solitario coltivatore di arance. E la loro storia non assomiglia a nessun’altra vista sullo schermo. Ivana Gloria, regista dell’insolito Clorofilla, è nata Domodossola, si è diplomata allo IED di Milano e  ha vissuto a New York, Londra e Portogallo. L’abbiamo incontrata in occasione della Festa del Cinema di Roma, più precisamente in quella fucina di novità che è Alice nella Città, in cui il film è stato presentato, e ci ha parlato del verde dominante nella sua opera prima, di trasformazioni e aspirazioni.

Con Clorofilla hai messo in scena la favola di due anime solitarie legate entrambe indissolubilmente alla natura. Cosa rappresentano per te Maia e Teo?

Maia è una ragazza che rinnega la propria essenza, ma grazie a Teo riesce a scoprire qualcosa che non ha mai voluto vedere dentro di sé. C’è una scena, costruita in montaggio, dove tramite il contatto fisico che ha con Teo Maia riesce a sentire la natura, e quindi anche la sua natura. Mi è piaciuto raccontare la dinamica del riconoscere nell’altro qualcosa che in te nascondi.

Il tuo film intreccia le Metamorfosi di Ovidio e il mito di Dafne sviluppandoli poi in modo molto originale.

Quello era più un punto di partenza dello sceneggiatore, Marco Borromei. Per me la storia parlava di una persona che non vuole accettare la sua natura e la propria sessualità. Infatti la protagonista a un certo punto avrà un orgasmo “con” il bosco, qualcosa che l’attira e la spaventa allo stesso tempo. Ho cercato di fare un film molto sensoriale e visivo, così abbiamo lavorato tanto sul suono per dare tridimensionalità alle emozioni e alle paure di Maia.

Con i tuoi protagonisti Sarah Short e Michele Ragno hai creato un’evidente affinità sullo schermo. Come l’avete raggiunta?

È stato un avvicinamento graduale ma necessariamente veloce: avevamo pochissimo tempo per girare. Michele Ragno è stato scelto due settimane prima d’iniziare le riprese, Sarah è stata confermata un mese prima, ma il momento in cui ho sentito davvero la chimica fra di loro è stato quando ho messo la camera sui primissimi piani: le scene più intime. Il set e la troupe erano sempre in movimento per organizzare le scene successive, ma quando arrivavo a stringere sui volti di Sarah e Michele tutti si calmavano in una specie di catarsi.

Non c’è solo tanto verde il Clorofilla (costumi, scene, pergolati e vegetazione libera), ma traspare un messaggio di amore, o forse più un atteggiamento verso l’ambiente, molto pacifico e positivo.

Avevo la natura come leit-motiv perciò non potevo che cercare di catturarla in ogni inquadratura. Ce n’è solo una di Teo in salotto che sfoglia dei disegni mentre Maia gli si avvicina: è l’unica scena che non ha un po’ di verde. Volevamo aggiungerlo in postproduzione ma non c’era più budget, una rabbia…

Michele lo conoscevo già come attore e ti ha dato tantissime sfumature e fragilità. Sarah la vedevo per la prima volta invece e l’ho trovata naturale, ruvida a suo modo, e funziona molto bene.

Sì, di lei ho visto un self-tape a settembre dell’anno scorso. Era solo il primo step ed era già l’attrice che mi convinceva di più, avevo già deciso che Maia era lei. Michele invece è un attore molto solido. È arrivato molto preparato e ha aiutato anche Sarah. Prima di partire per il set abbiamo provato in tutti i parchi di Roma analizzando ogni stato d’animo e spesso ci ritrovavamo a condividere nostre esperienze di vita più intime partendo dai personaggi. Michele aveva anche disegnato uno schema in cinque fasi sul processo d’accettazione della morte associandolo al percorso dei personaggi nella sceneggiatura. Però abbiamo dato anche tanto spazio all’improvvisazione. Pensa che nelle prove, per fornire le inquadrature al DOP, ho praticamente pre-girato il film col mio iPhone.

Posso dirtelo? A me fai pensare anche a una risposta pacata a Titane e, solo per la parte onirica, a Un lupo mannaro americano a Londra, ma per vegani. Ma qual è il cinema al quale aspiri?

Agli operatori in realtà ho fatto una testa così perché volevo girare molti piani sequenza, avendo in mente Victoria, un film di un solo piano sequenza del 2015 girato a Berlino in una notte. Volevo uno sguardo fluido. Per Titane sì, in effetti! Sai, io sono una fan di Junior, il primo cortometraggio di Julia Ducournau. Invece Il lupo mannaro… sai che non l’ho mai visto? Lo cercherò. Invece sul cinema a cui aspiro mi è stato detto che Clorofilla sembra un film straniero. Ecco, aspiro a fare film internazionali.

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Desiré, la forza di diventare grandi

Napoli. Una ragazza al posto sbagliato nel momento sbagliato viene arrestata con addosso la droga di un corriere, il suo ragazzo. Ci spostiamo sull’isola di Nisida, un posto quasi irreale nel Golfo di Napoli dove si trova davvero un istituto penale minorile. Desiré di Mario Vezza ha un incipit da Mare fuori e una delicatezza introspettiva che ricorda il Fiore di Claudio Giovannesi. La protagonista è una sedicenne di origini nigeriane. Uno scricciolo d’energia stretta che con le sue due lingue madri porta due mondi dentro di sé: napoletano e francese. Testa alta e muso duro a proteggerne tenerezza e fragilità tipiche di quell’età, l’interpretazione di Nassiratou Zanre ci rende molto vividamente la forza di un’adolescente che vuole crescere a tutti i costi. Anche dal carcere, anche con una madre problematica che di tanto in tanto verrà a trovarla. Anche se il mondo intorno sembra implodere in quell’isolotto a ferro di cavallo con un mare cristallino dove fare il bagno, seppur sorvegliate dalle secondine, è un lusso per pochi.

Forse una via per fuggire da quelle mura è il teatro. Negli ultimi anni lo abbiamo visto con Grazie ragazzi di Riccardo Milani e ancor prima con il Cesare deve morire dei Taviani. Un insegnante di teatro, barba candida e passione artistica di Enrico Lo Verso, segue il gruppo di giovani detenute dove con fatica inizia ad ambientarsi anche Desiré. Lavorare su sé stesse per mettere in scena l’Amleto sarà il trampolino non solo per la protagonista, ma anche per tutte le altre ragazze. Un nuovo modo per apprezzare la loro vita di giovani donne. Emotività e percorsi interiori non emergono da sequenze di prove estenuanti (praticamente assenti) quanto più dai confronti con il loro maestro a fine prove. Una stilizzazione ottimamente congegnata alla base di una regia lineare che ne evidenzia i pregi senza mai strafare.

Il teatro come chiave capace di dischiudere la vita lo intende anche una secondina in una battuta con le ragazze dove ammetterà a mezza bocca di vivere già facendo teatro tutti i giorni. Un piccolo segno sulla condizione del personale penitenziario, costretto a vivere schermato dalle proprie emozioni ed empatie durante ogni turno di lavoro. La scrittura di Vezza, insieme a Fabrizio Nardi e con lo zampino di Maurizio Braucci, che ha appena accompagnato anche la sceneggiatura di Palazzina Laf, respira di mille sfumature perfettamente posate su ognuna delle ragazze che tra le mura carcerarie aspira alla vita a modo suo. Carica sessuale, rabbia, paura, resilienza, instabilità e amicizia, tutte represse tra le loro parole non dette fanno percorsi poco convenzionali attraverso queste penne, riservandoci nei giusti momenti dei buoni twist. Anche grazie alle giovani attrici del cast.

Alla Festa del Cinema di Roma n° 18, anzi meglio, ad Alice nella Città, la sezione separata che sembra un festival a sé, Desiré si è aggiudicato il Premio Raffaella Fiorella per il miglior film italiano del Panorama Italia, a sua volta sezione di Alice. Un po’ come questo gioco di sezioni a matrioska, in questo film conta il nocciolo, il coming of age diremmo con facilità o faciloneria. Invece il nocciolo qui sta semplicente nell’imparare a nuotare tra i flutti non sempre accoglienti della vita.

 

Io e il Secco. Un’opera prima col superkiller

Non capita spesso di aver a che fare con un killer quando si tratta di opere prime italiane. Figuriamoci un “superkiller”, come quello che assolda il piccolo Denni. Dieci anni e i pugni stretti, di rabbia per il suo papà che picchia la sua mamma, e per una difesa che è troppo piccolo per offrirla. Andrea Sartoretti indossa i panni dell’orco, Barbara Ronchi la madre bloccata dal silenzio per le ferite raccontate come cadute. Denni è interpretato invece dal piccolo Francesco Lombardo. Occhioni che guardano severi il mondo adulto e i sogni mostruosamente proibiti di avere una super forza telecinetica nelle sue fantasie di bambino ferito dalla difficile situazione famigliare, Denni incontrerà per la sua vendetta il Secco.

Ebbene sì, il “superkiller” è solo un ragazzotto senza arte né parte che passa da eroe tenebroso agli occhi puri di Denni. Lo fa vivere Andrea Lattanzi con un romanesco che appare quasi esotico nell’ambientazione della storia. Ci troviamo infatti sulla costiera ravennate, tra spiagge desolate ai bordi della stagione calda, moli di scogliere e trabocchi di legno. Anche Sartoretti adotta quella cadenza, e la indossa a pennello, come tutt’e due le facce del padre violento. È a questo che serve il Secco: sparare al papà. Inizia così per questa improbabile coppia di ragazzi un viaggio sgangherato verso la vendetta.

L’opera prima Io e il Secco si presenta come un buddy movie abbastanza atipico. Con un bambino protagonista ma non esattamente rivolto a quel pubblico di giovanissimi. Lo sguardo del regista Gianluca Santoni infatti, seppur pudico di fronte alle violenze domestiche, non si tira indietro su altre scene un po’ forti per un bambino e un linguaggio che non fa troppi sconti. Il soggetto di questo film, firmato dal regista insieme a Michela Straniero, ha vinto il Solinas nel 2017, sviluppandosi in questo piccolo esordio di piacevole scorrimento. Con alcuni twist niente male e la scelta vincente di ambientare il tutto in una provincia non piatta e poco battuta dal grande schermo. 

Santoni fotografa una famiglia che cerca di tenersi a galla da un problema che la zavorra. La direzione degli attori non cerca fronzoli ma tocca un buon equilibrio tra realismo e fantasie puerili del piccolo protagonista. Uno dei punti di forza sta nello stemperare il peso tematico della violenza domestica pur mantenendone in piedi la portata. L’altro sta nella chimica tra il bambino e il superkiller, ognuno dei quali nel proprio percorso dell’eroe acquisirà nuove consapevolezze su sé stesso e sul mondo. Alla Festa del Cinema di Roma edizione XVIII partecipa in concorso ufficiale per la sezione dedicata al cinema dei giovani Alice nella Città.

 

 

Michele Riondino: “Palazzina Laf e la mia Taranto degli anni ’90”

 Esordisce dietro la macchina da presa dopo 20 anni di carriera d’attore Michele Riondino. Con Palazzina Laf emerge tutto il suo impegno civile per il territorio della sua Taranto raccontandoci una storia poco nota su un vero caso di mobbing ante-litteram anni ’90, dove lavoratori specializzati dell’Ilva venivano confinati in un reparto fantasma, un limbo tra demansionamento e licenziamento, e su un operaio “promosso” con la mansione di spiare lì i suoi colleghi. In sala dal 30 novembre il film è stato presentato alla Festa del Cinema di Roma, dove il regista ha condiviso con noi alcuni retroscena sul film.

Quest’anno hai compiuto vent’anni di carriera. Quella della regia era una tua vecchia idea o l’hai messa a fuoco col tempo?

Non avevo mai realmente pensato d’imboccare questa strada. Però è anche vero che in questi vent’anni sono poche le volte che mi sono ritrovato sul set e a viverlo soltanto da attore. Grammatica, fotografia e geometrie cinematografiche le ho sempre trovate stimolanti. Come mettermi al fianco dei professionisti che ho incontrato: operatori, macchinisti, DOP e tutti i tecnici che il cinema lo fanno con le proprie mani.

Sia per la vitalità del tema che per lo stile, Palazzina Laf mi fa pensare a Ken Loach e a Lina Wertmuller. A quali cineasti ti sei ispirato?

La mia passione è per il cinema degli anni ’70, quello più attivista. Sono legato ai film di Pietro Germi, Elio Petri, Mario Monicelli, Lina Wertmuller e tutto quel cinema che ci ha raccontato le storie di uomini e di lavoratori, me lo porto dietro anche da attore. In generale i miei titoli-guida sono La classe operaia, Todo modo, A ciascuno il suo, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Ma per questo film in specifico i miei riferimenti sono stati tre: I compagni di Mario Monicelli, La classe operaia va in Paradiso di Elio Petri e Fantozzi di Luciano Salce.

A proposito di compagni, Elio Germano, Vanessa Scalera e Paolo Pierobon sono stati i tuoi compagni di viaggio. Come vi siete scelti?

La mia esigenza era quella di creare una compagnia d’attori teatrali: ho girato in cinque settimane, ma ne serviva almeno una di prove per lavorare con gli attori nel luogo della palazzina. Volevo avere la possibilità di creare un’unione di gruppo, sia perché era la mia prima esperienza da regista sia perché il teatro è il mio habitat naturale. Con Elio il primo approccio è stato quello verso un amico, un collega, un compagno che condivide con me idee e opinioni. Gli ho fatto semplicemente leggere la sceneggiatura, come a Daniele Vicari. Volevo sapere cosa ne pensassero. Con Elio non abbiamo mai parlato del suo personaggio, ma mi ha dato subito la sua disponibilità perché voleva far parte del film, la definizione del ruolo è venuta dopo. Per quanto riguarda invece Vanessa Scalera, il suo ruolo è stato scritto pensando proprio a lei: non era scontato partecipasse ma ha accettato subito, un vero regalo. Lo stesso con Paolo Pierobon. Alla nostra prima telefonata mi fa: “Ecco, mi vuoi far fare la parte del cattivo del nord, eh?”. E in effetti era così.

Le musiche del tuo film sono firmate da Theo Teardo e da Diodato con un pezzo originale. Hai dato loro particolari indicazioni sulle atmosfere sonore di cui avevi bisogno?

Theo si è occupato della colonna sonora, ma i due brani editi inseriti sono di Bloodhound Gang e Andrea Laszlo. Invece La mia terra di Diodato è una canzone originale. Di questo corredo musicale fanno parte anche tre marce funebri bandistiche che rappresentano la tradizione tarantina nelle processioni della Settimana Santa. La reference che avevo dato a Theo è Fantozzi: mi servivano musiche che potessero esasperare i paradossi ed evidenziare il grottesco della vicenda.

«Ma voi vi chiedete mai perché vicino alla più grande acciaieria d’Europa non ci sta manco una fabbrica di forchette? Mi sa che la ricchezza va tutta da un’altra parte. A noi ci resta solo la monnezza». La frase di uno dei personaggi sintetizza lo sfruttamento economico, l’impoverimento di un territorio e l’inquinamento selvaggio.

È la più importante del film, secondo me, e riassume esattamente il mio pensiero sulla questione tarantina. Il film racconta fatti successi tra l’97 e il ’98 ma ci sono diversi indizi che portano gli spettatori ai giorni nostri perché la Palazzina Laf è solo uno dei problemi relativi a Taranto. Il mio pensiero è quello di chi oggi combatte per far emergere la verità territoriale, la nostra verità che oggi non è ancora rappresentata e raccontata come si deve.

Da attore hai lavorato con registi come Martone, Vicari, Bellocchio, Risi, e Capitani. Poi dirigi Palazzina Laf. E fuori dai set sei impegnato con il Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti. Quanto è importante produrre cinema civile oggi?

Faccio parte dell’attivismo tarantino, organizzo il Primo Maggio e partecipo alle manifestazioni perché sono un cittadino che vota ed esprime il proprio parere. Ci ho messo sette anni a fare un film su Taranto per raccontare al meglio una storia che potesse rappresentare un punto di vista oggettivo, politico, ideologico se vogliamo, ma fondamentale per capire la questione tarantina per la quale mi sto spendendo da tanto tempo. Diciamo che sono un diesel che ha bisogno di tempo per avviarsi.

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Non credo in niente, la selvaggia opera prima di Alessandro Marzullo

Inizia con una citazione di Zygmunt Bauman Non credo in niente. È stato girato, ma anche scritto e prodotto nel giro di soli 8 mesi, che hanno visto sparpagliate al loro interno anche le 13 notti di set effettive. Il film di Alessandro Marzullo risulta anche da una sorta di assemblaggio espanso di due suoi cortometraggi precedenti, Quando il cielo è scuro e la sua Parte II. Ai protagonisti principali dei corti, Giuseppe Cristiano, Demetra Bellina, Mario Russo, Renata Malinconico e Jun Ichikawa si sono aggiunti Gabriel Montesi e Antonio Orlando per dar vita a uno degli esordi più graffianti e stralunati di questo giovane decennio, in sala dal 28 settembre.

L’opera prima di Marzullo mostra un impatto estetico quasi selvaggio, fatto di pellicola tirata e luce sporca. Scatta un’istantanea smaliziata su una serie di quasi trentenni che attraversano la notte romana. Una notte che sembra infinita perché composta da molte notti temporalmente sconnesse nel montaggio come in un videoclip. Una città deserta illuminata da colori acidi affétta questa coralità di personaggi con in comune solo un imminente cambio di programma nelle loro vite già abbastanza scombussolate di millenials. Il regista ci fa guardare alla sua generazione attraverso un puzzle di anime ampiamente rappresentative. Così al ricatto sguaiato del lavoro nero per una coppia di musicisti lavapiatti si affianca la noia solitaria di una hostess taciturna ma piena di altri talenti e parcheggiata in un hotel. Entriamo poi nelle confidenze sentimentali di un meccanico logorroico all’amico attorucolo che flirta tra letti e amplessi distribuiti come sigarette offerte.

Tutti loro prima o poi passeranno da un paninaro notturno caput Romae che dispensa massime metropolitane come ingredienti di panini improbabili. A Roma le paninoteche notturne su camper e tutti i loro addetti vengono chiamati “zozzoni”. Quasi fosse un concetto filosofico al neon, e addirittura superiore alla distinzione tra luoghi e persone.  Le filosofie farneticanti di uno “zozzone” di periferia fanno da fil rouge per le varie storie e i sogni che ognuna disvelerà. Ecco, i sogni stanno appesi al cavo di un microfono, o in un viaggio mai fatto, o tra le speranze riposte in un provino, ma a prescindere vanno a sbattere sull’accogliente furgone di quel paninaro notturno, e scendono giù insieme a una birra.

Con i suoi riferimenti a «Rossellini, Cassavetes e Kar Wai», Non credo in niente è imbevuto di uno stile sincopato, un po’ sconclusionato come la vita romana, e la narrazione non lineare gli dona il fascino notturno e sbandato dei sentimenti che percorre ognuno dei ragazzi, anzi, degli uomini e delle donne in ballo in questa città ingrata. Una Roma che se una volta faceva andare via Remo Remotti, oggi, nel 2023 i suoi giovani se li tiene stretti al seno freddo di asfalto in un’illusione fin troppo lucida e reiterata.

«Ci innamoriamo perché prendiamo le droghe sbagliate», dirà uno dei personaggi. La disillusione la leggiamo già chiaramente nel titolo, Non credo in niente è un piccolo manifesto di una generazione confusa tra speranza e rassegnazione. Una girandola di strade buie percorse da mille contraddizioni che il regista rappresenta efficacemente come nel caso di un freddo bacio a stampo per dirsi addio sovrapposto a immagini di lava che scorre lenta e ineluttabile.

Il cast è trasognato, pulsante, cool, pieno di vitalità e il soundtrack di Riccardo Amorese segna il pastiche ben oltre il semplice commento musicale. Allora la musica di un violino suonato in cucina e una canzone cantata in un locale possono diventare avamposti sul territorio lontano dei sogni in una metropoli che preme e luccica come pinze di acciaio rugginoso. E se il vero problema di questa generazione fosse soltanto ritrovare il sorriso nelle cose semplici? 

 

Come pecore in mezzo ai lupi: anche in Italia l’action è donna

Finalmente un’italiana con il bel vizio del cinema action: nel suo esordio Come pecore in mezzo ai lupi (in sala in questi giorni) Lyda Patitucci ha fatto studiare il serbo a Isabella Ragonese, poliziotta infiltrata in una pericolosa banda di slavi per sventare un grosso colpo.

Caso tragico, come partner in crime si ritroverà il fratello squattrinato, e solo fingere di non conoscersi potrà salvarli. Lui è Andrea Arcangeli, che per la regista ferrarese è dimagrito dopo Romulus come un piccolo Christian Bale. E tra loro una talentuosa attrice bambina. Mentre Tommaso Ragno impersona il loro padre sfuggente e fanatico religioso.

«Non tutto nella vita va esplicitato e formalizzato» per Lyda, poiché i suoi personaggi si presentano asciugati in un passato stilizzato. Il suo obiettivo è farci precipitare nel «senso del pericolo, della minaccia costante. Nessuno è mai al sicuro». Vera, il personaggio di Ragonese, fugge dalle relazioni, dal fratello in primis e usa la chiusura per rompere i rapporti. «Vera risulta sempre nascosta e compressa. Cerco di usare elementi esterni a lei per raccontarla. Suoni, riflessi della sua personalità in altri personaggi specchio». Così ha girato un crime oscuro, pieno di proiettili, pugni, inseguimenti e doppiogiochisti.

In Veloce come il vento, Smetto quando voglio – Masterclass, Il primo re, Il campione eri la seconda unità alla regia. Come cambia il lavoro quando diventi tu la regista?

Tra seconda unità e la mia regia c’è un cuscinetto di transizione di due serie tv che ho diretto, Curon e Vostro Onore. Ma la seconda unità è molto tecnica poiché ti allinea alla visione dei registi. Girando in contemporanea con stunt, effetti e scene complesse. La differenza vera è che si lavora meno con gli attori. Assorbe una quantità di tempo e risorse davvero enorme nella preparazione, sul set e in postproduzione. Con Matteo Rovere in Veloce come il vento ho eseguito tutta la parte delle corse in auto: mentre Matteo girava tutto il resto io giravo le ricostruite nel circuito. Nel Primo re invece ho pianificato e orchestrato le battaglie. Matteo seguiva Remo e io il resto. Poi in Smetto quando voglio abbiamo lavorato molto sull’assalto al treno, sugli inseguimenti e gli incidenti. Lì ho fatto un lavoro molto preciso di pre-visualizzazione: mentre Sydney Sibilia sviluppava la commedia con gli attori, io gestivo gli stunt. Nel Campione c’era invece tutto un altro lavoro: il regista Leonardo De Agostini aveva fatto tutta la programmazione delle scene di calcio, mentre io ho seguito allenamenti e partite. Nel mio lavoro mi sono ritrovata a gestire piloti e stuntman, quindi per me tecnicamente non c’è differenza nel coreografare una battaglia o una partita di calcio. Unisco sul set le competenze sul cinema con quelle sulla materia, perché la seconda unità dev’essere malleabile in funzione al lavoro del regista. Sia su film che su serie, le buone collaborazioni tra registi sono molto virtuose e vantaggiose. In Curon ad esempio ho diretto gli ultimi tre episodi e Fabio Mollo i primi quattro. Lui è molto più intimista e lavora sulla recitazione e gli attori, io giravo tanto in acqua e in montagna.

Come pecore in mezzo ai lupi
Andrea Arcangeli e Carolina Michelangeli.

L’intreccio di action e drammaturgia per te è una delle cose più importanti.

Sono i film che mi piace vedere. Mi piace che succedano le cose, che la gente si muova, lotti. Amo mettere in condizioni estreme i miei personaggi per tirarne fuori aspetti interessanti. Sono storie che non mi appartengono, perciò m’incuriosiscono di più.

Come pecore ci sussurra che l’emotività di una donna forse è un difetto nel mondo dei maschi.

Questa è la chiave di Vera, la protagonista. Il suo punto di vista. Ma nella realtà l’emotività non è mai un difetto. Al contrario, il più aperto alle emozioni è Bruno, il fratello. E in questo è lui a dare la lezione più positiva, che nell’incontro con l’altro ci può essere una speranza.

Sei stata definita una Kathryn Bigelow italiana, ma quali sono le registe e i registi che segui di più?

È molto difficile rispondere perché la quantità di registi che amo è infinita. Sulla parte femminile oltre la Bigelow, che è stata l’unico modello per generazioni di donne che volevano fare questo lavoro e non ci sono riuscite, c’è Jane Campion, ma quando ero piccola impazzivo per il fatto che Pet Sematary – Cimitero vivente, fosse diretto da una donna. Quello della regia è un percorso molto particolare, difficile e poco incasellabile dove tutto ti dice “fai qualcos’altro”, quindi se ti distrai un attimo, anche per vivere semplicemente, smetti di seguirlo questo mestiere. Secondo me è così che molte donne non sono diventate registe. Purtroppo siamo in un mondo maschio-centrico. Per fortuna che ultimamente son venute fuori anche registe ascrivibili a modi di fare cinema più estremi, come Julia Ducournau, che è molto vicina a Cronenberg.

Nel tuo cast hai una piccola attrice, Carolina Michelangeli. Il suo personaggio, senza spoilerare, affronta dei traumi emotivi fortissimi. Come avete lavorato con lei?

Abbiamo fatto un cast molto lungo partendo da un bacino di centinaia di persone. Carolina aveva esperienza sul set per un film di Laura Bispuri, ma Andrea Arcangeli, che doveva fare suo padre, è stato molto disponibile affiancandomi nei provini per verificare l’intesa tra bambina e adulto. Pensa che sul set aveva 8 anni e mezzo, come Marta. Carolina ha perfetta consapevolezza della finzione cinematografica, è stata molto rigorosa nel calarsi giocando col suo ruolo anche perché è abituata alla disciplina dalla ginnastica artistica. Ha un tratto caratteriale simile al suo personaggio, ma al contrario di Marta la sua famiglia la segue senza mai forzarla. Cosa importantissima per i bambini attori. È piccina e in parte fragile, ma è anche molto tosta. Nei suoi piani d’ascolto, ad esempio, ha la capacità di far capire allo spettatore la scena come solo i bravi interpreti sanno fare.

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