Conviene sempre ragionare con calma sui corti vincitori della Settimana Internazionale della Critica veneziana (SIC 39), che l’anno prossimo compirà appunto i suoi primi 40 anni. Nella selezione lungometraggi sette sono stati i film in concorso, tra i quali l’unico italiano Anywhere Anytime, di Milad Tangshir, di cui abbiamo parlato durante la kermesse, risultato vincitore del Premio Luciano Sovena alla Miglior produzione indipendente, e poi volato al Toronto Film Festival. In più sono passati su questa sponda del Lido due titoli fuori concorso, come eventi di apertura e chiusura.
Per il cinema breve alla sezione Sic Short Italian Cinema partecipavano soltanto opere di produzione italiana. Ci sono stati due corti d’apertura, sette in concorso e un titolo di chiusura. Mentre la giuria era composta da: Giulia Achilli, giovane producer con l’Orso d’Argento per Disco Boy nel curriculum; l’eclettico regista Simone Bozzelli, vincitore dell’MTV Music Award 2022 per il videoclip I wanna be your slave dei Måneskin, e del quale già parlammo riguardo alla sua opera prima Patagonia; e infine Elena Ciofalo, project manager dell’associazione AIACE per le attività del Centro Nazionale del Cortometraggio.
Il Premio al Miglior cortometraggio – Frame by Frame è andato a Things That My Best Friend Lost, di Marta Innocenti. Sono messaggi whatsapp quelli che ascoltiamo mentre la regista ci srotola immagini di rave, backstage e soprattutto post party. Le parla un suo amico che li organizza e la invita affettuosamente a tornare ad ogni nuova data. Questo flusso telefonico di coscienza è l’incipit per marcare sul cosiddetto Decreto Rave, diventato legge a fine 2022. Il senso si fa politico passando per un atto che spostava l’attenzione dall’utilizzo e determinazione della proprietà privata in disuso alle feste illegali a base di sostanze psicotrope altrettanto illegali. Il linguaggio utilizzato da Innocenti morde un documentarismo di presenza digitale con voce fuoricampo, una ricostruzione apparentemente elementare che a volte ha sembianze da storia Instagram. Ritmi forsennati ma nei toni morbidi, quasi giocosi di questo amico toscano che messaggia, e tra le spire di suoni aggressivi dalle casse si nasconde invece un naturale bisogno d’aggregazione giovanile, quella stessa voglia di libertà generazionale, cooperazione, ricerca di sé, di liberazione e scarico d’energia che a livello mediatico c’insegnò nel novecento la lezione di Woodstock.
In un certo senso si spinge negli stessi territori formalmente liminali At List I Will Be 8 294 400 Pixel, ma calcando di più la mano. Il corto di Marco Talarico è la soggettiva con la voce di una ragazza. Tutto ciò che vediamo viene da filmati manipolati tramite l’intelligenza artificiale da un ragazzo solitario e nostalgico che fa un viaggio in Georgia, rimodulandoci sopra i ricordi di una realtà su misura. Sembra la prova tecnica per un ideale prequel spin-off di Her, il film di Spike Jonze dove un ramingo cuore solitario s’innamorava della voce del suo sistema operativo. At List I Will Be 8 294 400 Pixel è stato premiato per il Miglior contributo tecnico – Fondazione Fare Cinema. Enigmatico fino al midollo, lungi dall’immediata comprensione senza doverose spiegazioni, e nonostante tutto, persistentemente nebuloso quanto un cyberpunk della prim’ora, risulta oggi più una forma di cinema da laboratorio ancor prima che sperimentale. Quasi un’opera allucinatoria prima che di un lavoro in AI. Una sorta di officina aperta dove lo sguardo si muove come fosse un corpo in piena autopsia. Il piccolo viaggio audiovisivo concettuale si distacca anche dalle raffigurazioni in videoarte, le più sguinzagliate dalle grammatiche di montaggio e messa in scena. Formalmente di potenziale interesse ma dal contenuto scarno e inconcludente. Men che meno andrebbe considerata opera filmica in tre atti o quantomeno legata al raggiungimento di un classico climax. Ma si accomuna con il primo corto per l’utilizzo visivo di soggettive spiazzanti e degli storytelling più da reel sui social che propriamente da racconto cinematografico.
E se il cinema stesse iniziando a rivedere sé stesso unendo la iper-soggettività dello sguardo social alle nuove possibilità di manipolazione offerte dall’AI? Sembrano porci questa domanda i corti premiati alla Settimana della Critica di Venezia. Però a questo proposito, dal punto di vista narrativo risulta più completa l’opera d’apertura e fuori concorso di Andrea Gatopoulos, perché si presenta con una drammaturgia più chiara e lineare. The Eggregores’ Theory percorre l’esplosione distopica di un virus che cambia il mondo contagiandolo attraverso le parole scambiate. Oltre alla tagliente metafora su un’incomunicabilità globale, con il suo corto il regista mette in montaggio immagini ferme in bianco e nero a metà strada tra fotografia e disegno, dove i ritocchi vanno ben oltre il photoshop ma rivelano mutazioni grafiche e morfologiche da AI appunto. Un ottimo utilizzo per scavallare gli altrimenti costosissimi effetti visivi dell’oramai dominante computer graphic e al tempo stesso mantenendo una confezione che potremmo definire digital artigianale.
Dopo questa breve divagazione su un fuori concorso che forse un premio lo avrebbe meritato, concludiamo il nostro percorso Sic tra le avanguardie del cinema breve italiano con l’ultimo dei premiati, Nero Argento, vincitore per la Miglior regia – Stadion Video. Quattro giovani writers vivacchiano tra i binari di una grande stazione e la fitta boscaglia che li ospita insieme a fagiani che rischiano pallini dai cacciatori. Siamo sempre ai bordi della legalità, una condizione squatter vissuta con purezza e ingenuità quasi infantili di questi adolescenti che si aggirano come folletti ribelli con le loro anime anarchiche. Da una storia tutto sommato sempliciotta Francesco Manzato mette insieme un piccolo film di finzione che sembra un documentario low budget, di quelli d’assalto. Quasi tutto è in presa diretta e girato con tante soggettive con il telefono. E anche qui l’immediatezza e la malleabilità di questo stile di ripresa, anche partendo dal grande schermo, ci sbatte nel mondo fuori dalla sala, senza più filtri e con nuovi codici. Come un social.