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Francesco Di Brigida

Dalla SIC 39 il talento di Innocenti, Talarico e Manzato. Giovani, ribelli, digitali

Conviene sempre ragionare con calma sui corti vincitori della Settimana Internazionale della Critica veneziana (SIC 39), che l’anno prossimo compirà appunto i suoi primi 40 anni. Nella selezione lungometraggi sette sono stati i film in concorso, tra i quali l’unico italiano Anywhere Anytime, di Milad Tangshir, di cui abbiamo parlato durante la kermesse, risultato vincitore del Premio Luciano Sovena alla Miglior produzione indipendente, e poi volato al Toronto Film Festival. In più sono passati su questa sponda del Lido due titoli fuori concorso, come eventi di apertura e chiusura.

Per il cinema breve alla sezione Sic Short Italian Cinema partecipavano soltanto opere di produzione italiana. Ci sono stati due corti d’apertura, sette in concorso e un titolo di chiusura. Mentre la giuria era composta da: Giulia Achilli, giovane producer con l’Orso d’Argento per Disco Boy nel curriculum; l’eclettico regista Simone Bozzelli, vincitore dell’MTV Music Award 2022 per il videoclip I wanna be your slave dei Måneskin, e del quale già parlammo riguardo alla sua opera prima Patagonia; e infine Elena Ciofalo, project manager dell’associazione AIACE per le attività del Centro Nazionale del Cortometraggio.

Il Premio al Miglior cortometraggio – Frame by Frame è andato a Things That My Best Friend Lost, di Marta Innocenti. Sono messaggi whatsapp quelli che ascoltiamo mentre la regista ci srotola immagini di rave, backstage e soprattutto post party. Le parla un suo amico che li organizza e la invita affettuosamente a tornare ad ogni nuova data. Questo flusso telefonico di coscienza è l’incipit per marcare sul cosiddetto Decreto Rave, diventato legge a fine 2022. Il senso si fa politico passando per un atto che spostava l’attenzione dall’utilizzo e determinazione della proprietà privata in disuso alle feste illegali a base di sostanze psicotrope altrettanto illegali. Il linguaggio utilizzato da Innocenti morde un documentarismo di presenza digitale con voce fuoricampo, una ricostruzione apparentemente elementare che a volte ha sembianze da storia Instagram. Ritmi forsennati ma nei toni morbidi, quasi giocosi di questo amico toscano che messaggia, e tra le spire di suoni aggressivi dalle casse si nasconde invece un naturale bisogno d’aggregazione giovanile, quella stessa voglia di libertà generazionale, cooperazione, ricerca di sé, di liberazione e scarico d’energia che a livello mediatico c’insegnò nel novecento la lezione di Woodstock.

In un certo senso si spinge negli stessi territori formalmente liminali At List I Will Be 8 294 400 Pixel, ma calcando di più la mano. Il corto di Marco Talarico è la soggettiva con la voce di una ragazza. Tutto ciò che vediamo viene da filmati manipolati tramite l’intelligenza artificiale da un ragazzo solitario e nostalgico che fa un viaggio in Georgia, rimodulandoci sopra i ricordi di una realtà su misura. Sembra la prova tecnica per un ideale prequel spin-off di Her, il film di Spike Jonze dove un ramingo cuore solitario s’innamorava della voce del suo sistema operativo.  At List I Will Be 8 294 400 Pixel è stato premiato per il Miglior contributo tecnico – Fondazione Fare Cinema. Enigmatico fino al midollo, lungi dall’immediata comprensione senza doverose spiegazioni, e nonostante tutto, persistentemente nebuloso quanto un cyberpunk della prim’ora, risulta oggi più una forma di cinema da laboratorio ancor prima che sperimentale. Quasi un’opera allucinatoria prima che di un lavoro in AI. Una sorta di officina aperta dove lo sguardo si muove come fosse un corpo in piena autopsia. Il piccolo viaggio audiovisivo concettuale si distacca anche dalle raffigurazioni in videoarte, le più sguinzagliate dalle grammatiche di montaggio e messa in scena. Formalmente di potenziale interesse ma dal contenuto scarno e inconcludente. Men che meno andrebbe considerata opera filmica in tre atti o quantomeno legata al raggiungimento di un classico climax. Ma si accomuna con il primo corto per l’utilizzo visivo di soggettive spiazzanti e degli storytelling più da reel sui social che propriamente da racconto cinematografico.

E se il cinema stesse iniziando a rivedere sé stesso unendo la iper-soggettività dello sguardo social alle nuove possibilità di manipolazione offerte dall’AI? Sembrano porci questa domanda i corti premiati alla Settimana della Critica di Venezia. Però a questo proposito, dal punto di vista narrativo risulta più completa l’opera d’apertura e fuori concorso di Andrea Gatopoulos, perché si presenta con una drammaturgia più chiara e lineare. The Eggregores’ Theory percorre l’esplosione distopica di un virus che cambia il mondo contagiandolo attraverso le parole scambiate. Oltre alla tagliente metafora su un’incomunicabilità globale, con il suo corto il regista mette in montaggio immagini ferme in bianco e nero a metà strada tra fotografia e disegno, dove i ritocchi vanno ben oltre il photoshop ma rivelano mutazioni grafiche e morfologiche da AI appunto. Un ottimo utilizzo per scavallare gli altrimenti costosissimi effetti visivi dell’oramai dominante computer graphic e al tempo stesso mantenendo una confezione che potremmo definire digital artigianale.

Dopo questa breve divagazione su un fuori concorso che forse un premio lo avrebbe meritato, concludiamo il nostro percorso Sic tra le avanguardie del cinema breve italiano con l’ultimo dei premiati, Nero Argento, vincitore per la Miglior regia – Stadion Video. Quattro giovani writers vivacchiano tra i binari di una grande stazione e la fitta boscaglia che li ospita insieme a fagiani che rischiano pallini dai cacciatori. Siamo sempre ai bordi della legalità, una condizione squatter vissuta con purezza e ingenuità quasi infantili di questi adolescenti che si aggirano come folletti ribelli con le loro anime anarchiche. Da una storia tutto sommato sempliciotta Francesco Manzato mette insieme un piccolo film di finzione che sembra un documentario low budget, di quelli d’assalto. Quasi tutto è in presa diretta e girato con tante soggettive con il telefono. E anche qui l’immediatezza e la malleabilità di questo stile di ripresa, anche partendo dal grande schermo, ci sbatte nel mondo fuori dalla sala, senza più filtri e con nuovi codici. Come un social.

 

 

Simona Banchi: “Vi racconto Officina Pasolini”

Ha appena compiuto dieci anni Officina Pasolini, il laboratorio artistico alta formazione per giovani e hub culturale della Regione Lazio, diretto da Tiziana Tosca Donati e diviso in tre sezioni: Canzone, diretta da Niccolò Fabi; Teatro, il cui responsabile è l’attore e regista Massimo Venturiello; Multimediale, che forma videomaker e figure professionali in ambito audiovisivo, diretta dalla produttrice Simona Banchi.

Tosca
Tiziana Tosca Donati, direttrice di Officina Pasolini (ph: Fabio Lovino).

L’offerta formativa prevede un biennio di corso più un anno integrativo che ha l’obiettivo di sostenere economicamente i progetti artistici per un totale di 45 diplomati ammessi. Un percorso che fornisce agli studenti e alle studentesse le competenze professionali e artistiche necessarie per inserirsi nel mondo del lavoro. Tutto completamente gratuito. Gli ammessi hanno tra i 16 e i 29 anni, ma il bando (consultabile online) permette l’ammissione fino ai 35 anni per particolari meriti artistici. Tra i docenti dell’Officina Roberto (Bob) Angelini, Giovanni Truppi, Walter Pagliaro, Alessandro Chiti, Alessandro Bonifazi, Paolo Ferrari e dal prossimo biennio Daniele Silvestri.

Tra gli ex-studenti Francesco Patanè, attore genovese protagonista di Ti mangio il cuore di Pippo Mezzapesa al fianco di Elodie e, prima ancora, coprotagonista con Sergio Castellitto de Il cattivo poeta, di Gianluca Jodice. «Officina è un mondo che ha una grande importanza a Roma e in Italia» ci confida «Permette agli artisti di formarsi in un modo unico perché gli insegnanti mettono al centro l’aspetto umano nella relazione con gli allievi. Ho scelto di fare questo mestiere anche grazie a Massimo Venturiello e Tosca, la direttrice artistica. L’incontro con loro è stato fondamentale per fare di questo gioco che amavo, di questa passione, un vero lavoro». Per sapere ancora di più di questo laboratorio di crescita professionale e artistica abbiamo dialogato con Simona Banchi, produttore di film come Takeaway con Libero De Rienzo o documentari come La maglietta rossa di Mimmo Calopresti e The Beat Bomb di Ferdinando Vicentini su Lawrence Ferlinghetti.

Simona Banchi
Simona Banchi.

Officina Pasolini: quando e come arrivò l’idea per questo progetto formativo?

Sicuramente arrivò tutto da Tiziana Tosca Donati, Tosca, che aveva già realizzato con il supporto regionale corsi formativi per attori e cantanti. E soprattutto è partito dall’esigenza della Regione per l’impiego intelligente del Fondo Sociale Europeo, quindi dei soldi destinati alla formazione da parte dell’allora Assessorato alla Formazione, in quegli anni presieduto da Massimiliano Smeriglio. Esisteva già la scuola Gian Maria Volontè, prima provinciale e poi regionale, Officina Pasolini nacque due anni dopo. Abbiamo studenti che vengono da tutta Italia e anche da fuori i confini nazionali, ma resta un Progetto della Regione Lazio. L’obiettivo principale è quello di dare ai giovani gli strumenti per professionalizzarsi in mestieri “non convenzionali” come cantanti, attori e videomaker. Abbiamo voluto intestare l’Officina a Pasolini perché era una figura traversale della cultura, si muoveva su più discipline. Un grande scrittore, drammaturgo, regista, poeta e intellettuale.

Del vostro comitato tecnico scientifico ha fatto parte anche Glauco Mauri, da poco scomparso.

Quello per Glauco Mauri, un grandissimo del teatro, è un lutto molto sentito in Officina Pasolini. Tra i nomi che hanno fatto parte del comitato e che purtroppo ora non ci sono più vorrei ricordare anche anche Franca Valeri, Andrea Purgatori, che è stato anche docente di scrittura del corso multimediale; Luciano Sovena, che è stato AD dell’Istituto Luce nonché Presidente di Roma Lazio Film Commission; Armando Pugliese, attore e regista teatrale. Ci lasciano un grande vuoto.

Niccolò Fabi
Niccolò Fabi (ph: Chiara Mirelli)

Ora ci sono Carmen Consoli, Gino Castaldo, Steve Della Casa, Luca Verdone. Come si creano i programmi dei vostri corsi?

Sono sempre pensati in base alle esigenze attuali delle professioni. Ad esempio il nostro videomaker è una figura competitiva perché è in grado di gestire una piccola produzione audiovisiva. Inoltre tutti i nostri ragazzi seguono lezioni su sviluppo e produzione. Studiamo i bandi europei, regionali, del Ministero, e poi la produzione con tutto ciò che ruota intorno alla regia. Ma anche postproduzione audio e video, imparando export, conforming, montaggio, color correction e anche un po’ di animazione, dipende dagli studenti. Usciti da qui, poi molti di specializzano. Un mio ex-studente ora è al VFX del Centro Sperimentale; un altro sempre lì ma a Regia; tanti che hanno frequentato la Volonté poi scoprono qui la loro direzione. Molti dopo il nostro biennio tentano il Centro, e almeno uno o due l’anno entrano.

Massimo Venturiello
Massimo Venturiello (ph: Giovanni Canitano).

Dieci anni di Officina Pasolini. Sarà senz’altro difficile perché se ne conteranno un’infinità, ma quali sono i momenti più indimenticabili?

Il primo concerto al corso di Canzone fu chiuso da un brano scritto da un ragazzo che ora non c’è più: Federico, era bravissimo e tutti gli hanno voluto bene. Quando suonammo la sua canzone era come se lui fosse ancora qui. I momenti indimenticabili sono sempre legati a un successo dei ragazzi, piccolo o grande che sia. Una mia studentessa ha vinto il concorso a Cinecittà ed è stata assunta per il restauro digitale. Un’altra ha vinto recentemente un bando Rai per programmisti multimediali e ora lavora a Rai Doc. Un altro ragazzo uscito da Canzone, Lorenzo Lepore, ora è un bravissimo cantautore. Spesso se capito sui set di amici e colleghi, trovo qualcuno dei nostri ex allievi che lavora lì. Mi emoziona. La formazione è importante, ma poi l’anello finale è aiutarli a lavorare.

In questi dieci anni la digitalizzazione delle arti ha corso più che mai. Come si fa a stare al passo della tecnologia mantenendo però l’artigianalità e l’umanità di un’arte che deve svilupparsi insieme ai suoi giovani?  

Non dimentichiamo che il digitale ha creato anche tante professioni. Spesso i ragazzi oggi sanno già usare la telecamera, hanno già buona manualità con l’audiovisivo, ma si tratta più che altro reel e social. Qui invece si confrontano con lo studio e la narrazione vera, a partire dalla scrittura. L’artigianalità? Se penso al mio lavoro di produttore nel passato mi torna il ricordo dei fax… Ma come facevamo a mandare gli ordini del giorno con i fax? Quindi viva la tecnologia e viva l’intelligenza artificiale, che i ragazzi utilizzano per realizzare cose visive altrimenti impossibili. Insomma, dobbiamo essere noi gli artigiani della tecnologia. Una esercitazione che facciamo spesso è rigirare scene di grandi film, e quest’anno i ragazzi hanno rifatto una sequenza di Matrix. Molta postproduzione video ma ricostruendo le scenografie molto artigianalmente.

Agli anniversari importanti si fanno anche dei bilanci. Guardandosi indietro cosa la emoziona di più, cosa la rende più orgogliosa e cosa vede nel futuro?

I ragazzi, i loro lavori, anche se sgangherati, i complimenti che mi fanno quando mando qualcuno di loro a lavorare da qualche parte. Questo mi rende orgogliosissima e mi fa stare bene. Soprattutto perché ho la fortuna d’insegnare il mio mestiere. Quindi è emozionante tramandarlo. Vedi che così alla fine ritorniamo sempre alla bottega dell’artigiano? E poi il futuro… Il futuro è oggi.

Per tutte le informazioni consultare il sito: www.officinapasolini.it

Per iscriversi al bando consultare questo LINK

 

Venezia 81: “Anywhere Anytime” e i ladri di biciclette oggi

Issa è un senegalese sans papier. Quando se ne accorge l’uomo che gli dà lavoro come scaricatore al mercato, lo licenzia: troppo alto il rischio dei controlli. Da qui una bici acquistata con fatica, il lavoro di rider e il furto che stravolgerà ulteriormente la vita del ragazzo in una Torino che a modo suo cerca di fare qualcosa per gli invisibili come lui, ma non è mai abbastanza. Anywhere Anytime, opera prima di Milad Tangshir, omaggia il passato di Ladri di biciclette con il presente della consegna a domicilio e prende in prestito da quei grandi sceneggiatori del Novecento (Vittorio De Sica, Cesare Zavattini, Suso Cecchi D’Amico) il congegno narrativo della bici rubata.

Il suo film pedala sull’asfalto degli invisibili, parla di lotta per la sopravvivenza e integrazione dei nuovi vinti, quindi di sfortuna e sfumature che possono far crollare un’esistenza come un castello di carte. Con l’attenzione a un realismo urbano germogliato esteticamente sul solco moderno dei fratelli Dardenne, pesca dalla strada le sue facce e i suoi cromosomi narrativi, in senso pieno. Il regista è un iraniano con un salto nel nostro paese simile a quello di Ferzan Ozpetek. Fino all’arrivo in Italia, nel 2011, aveva inciso tre album con una rock band in Iran, poi qui da noi gli studi di cinema, i primi cortometraggi premiati e la collaborazione con Daniele Gaglianone, che ha scritto la sceneggiatura insieme a lui e a Giaime Alonge. Il loro script è asciutto, scevro di pietismi e contempla l’importanza della relazioni tra le persone. Che sia amicizia, flirt, lavoro, volontariato, incontri fortuiti con brave persone o incontri con brutti ceffi, il trio di autori ci presenta un affresco molto realistico della Torino di oggi attraverso lo sguardo di un ragazzo straniero.

Tangshir ha preso dalla strada gran parte del cast. Dei non-attori, un po’ come Garrone per Io capitano. Ibrahima Sambou è il protagonista, il ragazzo che cerca solo di cavarsela. La sua limpidezza nella nostra Italia così contraddittoria ha l’asprezza di una realtà che Sambou per primo ha visto con i suoi occhi ben prima di qualsiasi set.

A prescindere dal classico percorso dell’eroe costruito per l’intrattenimento narrativo, il film apre uno squarcio su una realtà difficile, pur senza mettere lo spettatore troppo  disagio, facendogli assaggiare senza rischio quelle situazioni a tenaglia da una poltrona vellutata rinfrescata da aria condizionata. E anche senza caricare sensi di colpa sul pubblico, questo cinema mostra il mondo di oggi e le sue nuove storture subite da speranza e buona fede operosa. Il filo rosso di queste tematiche parte da lontano, cinematograficamente da De Sica passando per le crune di tanti autori e tante epoche. Dai Petri ai Loach, ai più recenti Vicari, Riondino e Garrone. Fino alla bella sorpresa Tangshir. Proprio a questo punto, nell’incontro tra realtà e narrazione, il cinema diventa strumento necessario di coscienza civile. Anywhere Anytime si avvale oltretutto di una colonna sonora fatta di rumbe jazz che ci immergono in ritmi sincopati e imprevedibili come la vita in strada. È stato presentato a Venezia per la Settimana della Critica, l’unico italiano in concorso, e uscirà al cinema l’11 settembre.

Zampaglione, “The Well”: il mio cuore batte horror

È uno dei pochi in Italia a fare orgogliosamente cinema horror e qui ci spiega perché. E già che c’eravamo gli abbiamo chiesto cosa lega la sua carriera di regista a quella di musicista (Tiromancino vi dice qualcosa?). Con il suo nuovo film horror, The Well (in streaming da oggi sulle principali piattaforme), la vicenda di una restauratrice ingaggiata da una donna molto facoltosa per riportare alla luce un antico quadro nel suo palazzo, Federico Zampaglione affronta un viaggio inquietante e violento agli antipodi con la musica dei suoi Tiromancino. Tanto che è arrivato anche il divieto ai minori di 18 anni, una garanzia per gli appassionati del genere. Lo abbiamo incontrato per parlare del suo cinema e del contatto tra le sue due carriere. È un artista poliedrico a cui piace stupirsi e, partendo dal suo cinema, si è aperto riflettendo tanto sul suo film spietato quanto sulla sua famiglia allargata. La sua ex-compagna Claudia Gerini e sua figlia Linda Zampaglione sono state per la prima volta insieme su un set, rivelando collegamenti inediti tra l’amore per le fiabe nerissime e la musica, che in fondo riesce a legare sempre tutto.

Vieni definito un regista horror ma non hai girato film solo di quel genere. Non lo era Nero Bifamiliare, ma neanche Morrison. Sei un regista che sta facendo un suo percorso attraverso i generi.

Sì, anche se devo dirti che alla fine mi sento davvero nel mio quando faccio horror. Mi piace fare cose cupe, dark, dove posso utilizzare un altro approccio, mi danno una marcia in più perché fondamentalmente mi diverto molto di più a lavorare su questi temi.

Il tuo The Well è un horror che si rifà alla Casa delle finestre che ridono di Avati. Ma io ci ho visto anche Cabin Fever di Eli Roth e addirittura un pizzico di Ghostbusters 2 per via del quadro che viene restaurato.

Guardo tantissimi film, quindi le ispirazioni arrivano sia dal passato che dal presente. Sono uno spettatore appassionato e gran parte dei film sono cinema di genere. Devo essere sincero, non sono un grande amante dei drammi all’italiana, perché li sento lontani da me: certo, ho amato alcune commedie, ma il mio cuore batte horror. Sin da ragazzino ho seguito questo genere e sto lavorando su un mio stile sempre più personale dove dentro puoi trovare elementi che si ispirano al grande cinema dark del passato, non solo italiano. In The Well, ad esempio, ci sono elementi classici che si rifanno al gotico e componenti oscure, violente e disturbanti che fanno riferimento più a un linguaggio contemporaneo.

Senza spoilerare, penso che nel tuo film ci sia un importante riferimento all’edonismo e al narcisismo di oggi.

Certo, c’è una critica al potere, una critica al denaro a tutti i costi. Provo a sondare quanto essere così assetati di potere e ricchezza renda più mostri dei mostri. Questa è la metafora dietro il film. È il mio messaggio riguardo alla ricerca disperata di edonismo di una bellezza fine a se stessa, masturbatoria. Anche in Shadows c’era una critica, in quel caso diretta alla guerra e ai suoi orrori. In tanti momenti l’horror ha rappresentato uno specchio per la società raccontando le brutture del mondo che ci circonda. Anche a me piace usare l’horror come metafora della vita. Ma la verità è che la vita è diventata molto più horror dell’horror. I fatti di cronaca che leggiamo oggi sono talmente efferati e crudeli che se li inserissi in una sceneggiatura nessuno vorrebbe produrla.

Oramai possiamo definire Claudia Gerini la tua attrice feticcio. Al suo fianco stavolta c’è Lauren LaVera, che ricorda straordinariamente la Jessica Harper di Suspiria. E poi c’è tua figlia, per la prima volta sullo schermo.

Con Claudia c’è affiatamento perché abbiamo fatto tre film insieme. Lei conosce il genere e di conseguenza si sa muovere bene in questo contesto. Lauren invece è un’attrice americana molto talentuosa, emersa con Terrifier 2 e adesso farà anche il 3. Ha un viso particolarmente ingenuo e delicato. Sembra fatto apposta per questo genere, con quegli occhioni da cui viene fuori il terrore puro. Con mia figlia Linda avevamo fatto insieme alcuni cortometraggi in pandemia: mi ero già accorto che era molto sveglia, il cinema l’aveva nel Dna. Però il rapporto sul set è stato molto equilibrato con tutti gli attori. Con Linda mi sono comportato da regista con un’attrice. Poi dopo le riprese tornavamo a essere padre e figlia.

The WellRispetto agli altri generi, cosa ti piace di più dell’horror come strumento per raccontare storie?

È qualcosa che fa parte dell’animo umano. In tutti noi c’è la paura. Il terrore di entrare in contatto con qualcosa che ti spaventa. L’horror raccoglie emozioni forti anche lontane, nascoste, che uno si porta dietro fin da ragazzino. Così, puntando su paure recondite, angosce, profondità insondabili, anche senza troppe parole con l’horror puoi catapultare lo spettatore direttamente in quel territorio.

E qual è la tua peggiore paura, cosa ti terrorizza di più?

Ne accennavo prima. Ciò che mi terrorizza veramente è proprio la realtà. Le notizie di cronaca, la follia dilagante tra le persone, soprattutto all’interno dei nuclei familiari. Essendo padre di una ragazzina di 15 anni ovviamente mi spaventa quello che leggo tutti i giorni. A volte non ci dormo. La fantasia, i mostri, non sono niente rispetto a questo.

Tu che ci stai dentro, cosa trovi ci sia in comune tra queste due cose così diverse e distanti, la tua musica e l’horror?

Sicuramente la passione che ci metto e soprattutto la capacità di creare un’atmosfera. Credo che questa sia proprio la cosa che mi riesce meglio. Quando scrivo musica mi piace tessere un’atmosfera che fa entrare subito l’ascoltatore in un mondo. Già prima d’iniziare a cantare creo quel tipo d’atmosfera: pensa al pianoforte di Per me è importante o la partenza dei violini di Due destini. Ecco, da lì inizia un ambiente sonoro dove ti lascio entrare senza farti uscire. Il semplice ritornello da cantare non m’interessa. Lo stesso vale per il cinema. Mi piace far entrare lo spettatore, e una volta dentro si deve fare tutto il viaggio fino alla fine.

Da musicista e da regista, come si svolge il lavoro per le colonne sonore?

Spesso non le compongo io o comunque non interamente. Intanto devi trovare musicisti con i quali avere sintonia perché dovranno sviluppare le tue indicazioni. Ad esempio puoi chiedere qualcosa d’inquietante, ma con richiami all’esoterico o alla stregoneria. Immediatamente nella testa del musicista si affacciano strumenti, cori e sonorità che possono dare un suono a queste parole. Sai, per passare da un’atmosfera malinconica a una tesa basta una nota: se cambi quella nota cambia tutto. Spesso giro sul set con la musica già composta, soprattutto nelle scene senza dialoghi, e l’attore ci si accorda subito sopra come fosse uno strumento. Questo vale anche per la troupe. Tutti lavorano in maniera facilitata all’interno di un’atmosfera ben precisa perché riescono ad accordarsi insieme sulla “temperatura” che volevo raggiungere.

L’horror americano ultimamente ha preso la strada del disagio estraniante con autori come Ari Aster. Qual è invece secondo te la direzione dell’horror italiano?

Intanto bisogna dire che nel cinema italiano non si vedono molti horror. Non ne esce quasi mai nessuno. Non abbiamo vere correnti, ma sprazzi, casi isolati perché l’industria predilige il prodotto americano e internazionale. Vale anche per action, fantascienza e cartoni animati. In questo invece io mi sento molto libero da caste, salotti e premi. Se faccio horror il mio dovere è quello di spaventare, terrorizzare, scioccare, disturbare. È il dovere di un bravo regista horror.

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Venezia 81 Orizzonti: “Diciannove” tra rivoluzione e comfort zone

Diciannove anni, Leonardo ha le idee ancora poco chiare sul futuro. Studia lettere, ma dalla Sicilia a Londra e poi Siena sembra si areni tra i suoi libri d’epoca, un rapporto difficile con le aspettative materne, con i professori e le sessioni d’esame. In più la vita da fuorisede gli gira intorno come una trottola che lui schiva nella sua camera in affitto, comfort zone dove si rintana insieme alle sue pulsioni.

Diciannove è il lungometraggio d’esordio alla regia di Giovanni Tortorici, talento del 1996 scoperto da Luca Guadagnino, che lo ha prodotto insieme a Malcolm Pagani tra Italia e Inghilterra. Scheggia di coming of age e motore di una diaspora generazionale, indispone e fa tenerezza questo ragazzotto educato e saccente che perde treni e cova aspirazioni ancora incerte, così sicuro di sé riguardo alla letteratura tanto da mettersi frontalmente contro i docenti, ma allo stesso tempo perso in mondi che assaggia sfuggente dai baci di ragazze conosciute in disco. Si percepisce da ogni fotogramma il senso di spaesamento di quell’anno precedente i venti, che si scontra con le inflessibilità professorali e i problemi d’incomunicabilità. E Manfredi Marini veste il personaggio donando a questo film la giusta forza fragile di quell’età.

È in concorso nella sezione Orizzonti della Mostra del Cinema di Venezia 81 Diciannove. La sceneggiatura saltella capricciosa e provocatoria insieme alle indecisioni e gli svarioni di Leonardo. A volte le sue vicissitudini ricordano certe atmosfere da Nouvelle Vague, forse meta agognata nella chiusura irrisolta, in certe andature narrative montate a schiaffo. Una svogliatezza formale che può esser letta in vari modi.

Le inquadrature di Tortorici sembrano incantarsi su dettagli di cielo, vicoli e contrade. Come un continuo prender e perder tempo che rappresenta in piena soggettiva quel numero dell’anima. Tempi apparentemente morti che danno respiro alla formazione del protagonista. Poi sprazzi ironici, incontri che impennano su discorsi surreali alla Tutti giù per terra di Davide Ferrario. Gli scontri intellettuali sulle sue visioni letterarie, il rifiuto rivoluzionario di ammirare certi grandi lo fanno apparire comunque un pulcino mordace in un mondo millenario come Siena che mastica da sempre storia e persone. Sta qui la tenerezza per questo personaggio così fresco e acerbo che ci presenta Tortorici. Ma abbiamo anche tante, troppe sospensioni sui vari piani narrativi, mai realmente chiusi e spesso inseriti senza nessi. Insomma, si pasticcia un po’. Come nella vita scombussolata di un diciannovenne, del resto.

Amen, tre sorelle adolescenti in un dramma sensuale e bucolico

Romano vissuto anche fra Londra, Parigi, Madrid e la Romania, Andrea Baroni ha scommesso tutto sulla sua passione per il cinema. Tra i suoi primi corti annovera una commedia agrodolce, 9 su 10. Adesso è alla sua opera prima, Amen, che dopo il Premio Interfedi al Torino Film Festival 2023 è ora in sala con Fandango.

Tre sorelle adolescenti, isolate in una campagna quasi senza tempo, devono sottostare alle imposizioni religiose e moraliste di padre e nonna nonostante la scoperta dell’altro sesso. Baroni ha esplorato il tema del limite attraverso un dramma bucolico e sensuale scritto, prodotto e girato in soli 45 giorni a zero budget. Un linguaggio estetico raffinato e materico che ha come protagoniste le tre sorelle – Grace Ambrose, Francesca Carrain e Valentina Filippeschi – e annovera nel suo cast anche Luigi Di Fiore e Silvia D’Amico.

Nel tuo film esplori il concetto di limite. Qual è la tua visione di limite, tra il film e la realtà di oggi?
È la domanda che mi ha portato a scrivere Amen. La mia attuale idea di limite appartiene al mio far parte di una società occidentale, europea e molto bianca. E questo lo vivo come un limite assoluto, in questo momento, perché so che esiste un altro mondo che forse, prima della globalizzazione, mi avrebbe raccontato cose molto diverse da quelle che vivo qui. Penso che il mio limite ora sia non ragionare su cosa ci sia oltre il limite, oltre il confine. Una cosa necessaria che invece ho esplorato girando Amen.

Hai chiuso i tuoi personaggi in un recinto emotivo muovendoli fra spiritualità, peccato e senso di colpa.
L’imposizione religiosa mi è servita come mezzo per creare il tipo di società che impone leggi. La giornata delle ragazze, le figlie di Armando, è scansionata dall’attività religiosa. Così in questa gabbia fatta di confessioni, preghiere mattutine, catechismo e lavoro nei campi ho potuto far crescere il senso di colpa fortemente presente nella dottrina cattolica. Credo sia una molla molto importante della nostra società, siamo mossi più spesso dal senso di colpa che da una volontà positiva. E ho voluto applicare questa dinamica ai miei personaggi.

Amen ha avuto una genesi record di 45 giorni. Quali sono state le difficoltà che hai dovuto risolvere intorno a te? Come hai portato le attrici in questa storia?
Intanto ho dimenticato tutti i miei desiderata, le inquadrature che avrei voluto fare, i problemi e i miei limiti aiutando troupe e attori ad ambientarsi in un contesto estremamente difficile. Il primo obiettivo era quello che gli attori creassero una sorta di famiglia. Abbiamo vissuto il set come una comune, ma non mi bastava, così ho voluto seguire le simpatie e antipatie che si creavano fuori dal set assecondandole. Quello che vedete è in parte frutto di questa genesi distorta.

Quindi hai tenuto a distanza sul set gli attori che avevano personaggi in conflitto? Un po’ come si fa con i villain?
In realtà no, non c’è stato bisogno di farlo. C’era già una sorta di distanza tra le tre ragazze che interpretano le sorelle e loro padre. Ho solo dovuto accendere la miccia tra gli attori e ha funzionato per ottenere la giusta tensione. Anche per tutta la troupe è stato molto difficile ambientarsi in una situazione produttivamente ostica. Da regista che affronta la sua opera prima e vuole girare sette inquadrature a scena, ho dovuto ridimensionarmi e capire come funzionava il mondo. Questo ha portato tutti a una grande elasticità per arrivare a finire Amen.

AmenHai anche lavorato molto con la luce naturale, soprattutto in esterni.
Fra le nostre reference fotografiche c’era un horror, Midsommar, perché intendevo raccontare qualcosa di orrorifico alla luce del sole. Non volevo notturni – non potevamo neanche permetterceli – ma scene negative e diurne. Altro esempio di gioco con il limite imposto. Con il direttore della fotografia abbiamo pensato di ottenere questo effetto in maniera direi molto artigianale, con una serie di specchi che riflettevano i raggi del sole creando effetti di luce che santificassero i personaggi. Per esempio, all’inizio il personaggio di Grace Ambrose, Sara, è nell’uliveto e, per un gioco di specchi che riflettevano la luce solare, ha dietro di sé una specie di aureola.

Anche questo è dire delle cose senza usare parole ma immagini. E di parole ce ne sono poche, spesso anche citazioni molto precise delle Sacre Scritture.
Nella prima parte del film le citazioni sono necessarie per creare il contesto che poi mi dà la possibilità di curvare. La parte di catechesi e preghiera nasconde e allo stesso tempo suggerisce che le mie tre ragazze stanno decidendo o meno di oltrepassare quel limite. Dicono una cosa, ma attraverso le immagini ne fanno altre. Sogno di fare film muti, quasi senza dialoghi, ma qui ho usato la parola per mentire. Ciò che secondo me, l’essere umano fa spesso.

In questo paradigma, la menzogna potrebbe essere lo strumento per superare i limiti?

La parola genera la bugia, quindi mente. Il problema della comunicazione e dell’incomunicabilità è alla base dei personaggi che penso e scrivo. Non a caso sono un fan sfegatato dei fratelli Coen, che raccontano spesso questi temi. Attraverso la parola si può modificare la realtà, riuscire a coprire ciò che realmente pensiamo. I miei personaggi fanno proprio questo, tranne una delle sorelle, molto dritta, pura.

Amen potrebbe definirsi un coming of age, ma è soprattutto un film di sorellanza e resistenza. Come hai gestito nella tua scrittura questo aspetto?
Ho seguito la linea dettata da ogni personaggio. Intercettare la pulsione del singolo mi ha aiutato. Ester, ad esempio, la secondogenita interpretata da Francesca Carrain, è una provocatrice nata che forse dovrebbe fuggire lontano. Ma non lo fa, perché come anche noi nelle nostre vite, abbiamo dei legami tossici da cui fatichiamo a liberarci. Vorremmo fuggire, dovremmo. Eppure non lo facciamo. C’è una specie di ricatto del sangue e della terra, perciò le tre sorelle non tradiscono realmente la loro origine. Quando successivamente ho visto Kynodontas di Yorgos Lanthimos, dove la situazione di chiusura è simile, ho capito quanto il microcosmo familiare potesse essere allegoria.

Quali sono i tuoi film del cuore? Il tuo cinema di riferimento e quello al quale aspiri?

Quello a cui aspiro lo sto ancora capendo. Da adolescente avevo un’adorazione per Nanni Moretti, ma non sarei mai in grado di lavorare come lui. Vado pazzo per Werner Herzog, Fitzcarraldo è uno dei film della mia infanzia. Ma ci sono anche Michael Haneke e Yasujirō Ozu. Poi sono diventato onnivoro, fino all’horror, che potrebbe contaminare pesantemente il mio prossimo lavoro; mi piacciono gli autori estremamente tragici. Però negli ultimi anni rivedo spesso anche LaLaLand, per il tema centrale dell’ambizione su cui Damien Chazelle aveva già lavorato in Whiplash. In ogni caso, quando scrivo e giro si cancella tutto per lavorare sulla sensazione che si genera in quel momento magico.

Animali randagi, insolito road movie abruzzese con Ferrara e Lattanzi

L’esordio al lungometraggio di finzione è arrivato per Maria Tilli con il road movie non convenzionale Animali randagi, in uscita nelle sale domani. Interpretano due giovani ambulanzieri di provincia Giacomo Ferrara e Andrea Lattanzi, che vivacchiano tra noia e blande avventure. Fino a una trasferta per trasportare verso la Serbia un malato incurabile insieme a sua figlia, Ivan Franek e Agnese Claisse. Scandagliare la vita interiore di quattro personaggi dalle vite randagie è il punto centrale per questa regista abruzzese che ha iniziato a farsi notare tra il documentario Sembravano applausi, su Marcello Fonte e Matteo Garrone, e Illuminata, docufiction su Laura Biagiotti.

Con il cast di Animali randagi vai dall’Abruzzo alla Serbia. Giacomo Ferrara riprende il suo dialetto di origine, fai parlare così anche Andrea Lattanzi: i loro personaggi sono giovani che galleggiano in provincia.

È stata una bella sorpresa lavorare con Giacomo, non sapevo fosse così mio vicino di casa. Entrambi viviamo a Roma da tanto tempo, ma torniamo spesso in Abruzzo e il film è stato anche un viaggio insieme per riscoprire le nostre origini. Ha capito appieno il suo personaggio, Toni, un giovane “che galleggia”, come dici tu. Il nostro era uno sguardo solidale, mai giudicante. Anche Andrea, che è romano, ha esperienza con la provincia perché ci ha vissuto i primi anni della sua vita. Poi come attore si porta naturalmente dietro una sorta di disperazione mista a un carattere un po’ più instabile, e il mix artistico con Ferrara si è rivelato vincente.

Invece con Ivan Franek e Agnese Claisse hai creato una relazione padre/figlia complessa da più punti di vista…

Far conoscere Agnese e Ivan è stata una fortunata casualità perché mi hanno confessato che venivano da esperienze simili ai loro personaggi. Lei ha avuto un padre vicino al personaggio di Ivan, e lui un giorno mi ha confidato «io con una delle mie figlie ho un rapporto così». Come ha detto Ivan la sera della premiazione all’Adriatic Film Festival, quando si sono conosciuti in una farmacia facendo un tampone non sapevano di essere reciprocamente gli attori del mio film, ma Ivan pensò subito: “Questa secondo me sarà mia figlia nel film”. Avevano una forte affinità che li ha resi affiatatissimi, mettendo tanto delle loro esperienze reali nel film.

Animali randagi
Agnese Claisse in “Animali randagi”.

Il tema della morte assistita viene solo sfiorato dalla sceneggiatura che avete scritto in tre.

Si, per due motivi. Uno è che non volevo fare un film sociale, ma parlare di una singola storia perché le battaglie politiche possono essere poco efficaci se non si parte da una motivazione personale, esistenziale, e da cui nasce, poi, l’esigenza di avere una legge. Il secondo motivo per cui non sono andata proprio “dritta” sul tema è perché molti film sull’eutanasia parlano di persone con una vita impossibile agli occhi dello spettatore: bloccate sul letto senza nessuna possibilità di salvezza e senza più indipendenza. Io invece volevo un personaggio che prendesse la sua decisione con piena autonomia, in modo da risultare più forte e impattante. Ho voluto raccontare la morte assistita dal punto di vista di un uomo che sa che sta morendo. La paura della morte già appartiene normalmente a tutti noi, figuriamoci quando ti dicono che morirai fra tre mesi. Non possiamo negare il diritto a scegliere una morte non solo più dignitosa, ma più dolce. Non si tratta solo di dignità, ma di umanità.

La tua attenzione a livello drammaturgico è molto concentrata sulle quattro anime in ambulanza…

Infatti questa è soprattutto una storia di relazioni. È qualcosa di cui amavo parlare già nei documentari. In Sembravano applausi c’era la relazione tra Marcello e Matteo Garrone, mentre ne La gente resta si parlava del rapporto tra tre fratelli. Il 98% della nostra vita è fatto di relazioni, incontrarsi, lasciarsi. Qui interagiscono quattro personaggi molto diversi. Il personaggio di Lattanzi è un po’ incosciente all’inizio, Giacomo invece è più puritano, si sente ingannato, si chiede se stiano portando un uomo a morire. Poi c’è la figlia che si chiede cosa fare e dove stare: la decisione cruciale sarà la sua.

Nel tuo cinema a volte ci sono piccole allegorie, contrasti tra quotidiano e momenti pulp come il dito mozzato in Animali randagi mentre gli ambulanzieri bevono il caffè. O nel tuo corto Tutte le cose sono piene di lei, dove la faraona servita a tavola viene prima catturata e uccisa. Tutto quasi senza filtro, ironicamente reale.

Sicuramente ha molto a che fare con la mia infanzia. Sono cresciuta in aperta campagna e il rapporto con la morte era naturale, molto diverso da quello che oggi vedo negli altri da adulta. La prima volta che sono andata a un funerale mia nonna mi ha presa in braccio perché da sola non arrivavo alla bara per salutare il morto. Non c’era niente di tetro, solo una persona che era viva e poi a un certo punto era morta. Fa parte della cultura contadina, ancora fortissima nella provincia. Per questo non ho voluto raccontare una provincia industriale, ma la provincia di campagna, che ha tutto un altro punto di vista sull’esistenza.

Qual è il tuo cinema preferito e quello che vorresti fare?

Il primo cinema a cui penso è quello di Cassavetes, Una moglie è uno dei miei film preferiti: per me un film potrebbe anche non parlare di niente, facendomi vedere solo come i personaggi interagiscono tra loro. Quand’ero ragazzina mi piacevano tanto i film di Malick perché il rapporto dei suoi personaggi con la natura mi ricordava qualcosa del mio mondo. Ci sono molto affezionata anche se non vorrei fare quel tipo di cinema. È difficile da dire “mi voglio ispirare a”, e soprattutto pericoloso perché poi è un attimo dal copiare. Amo Andrea Arnold, tanto cinema crudo, di stomaco. E non amo il cinema intellettuale.

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El Paraiso racconta la simbiosi fra madre e figlio, con Edoardo Pesce e un’incredibile attrice colombiana

Lo avevamo già visto in panni criminali, di algidi altoborghesi, come sicario, ma pure come solare babysitter e addirittura a impersonare Alberto Sordi nel suo biopic. Questa volta Edoardo Pesce in El Paraiso è invece alle prese con qualcosa di completamente inedito. Julio Cesar è un uomo che vivacchia di espedienti insieme alla madre colombiana in una relazione simbiotica e toccante a ritmo di nostalgici salsa e merengue.

Siamo ai bordi della periferia romana, foce del Tevere, dove dal galleggiare nell’anonimato urbano al perdersi l’anima per pochi soldi il passo può essere incredibilmente breve. Così campare d’impicci, anche grazie all’amico un po’ più inserito che procura loro lavoretti saltuari, diventa l’appiglio ideale, una sopportabile normalità proprio grazie a quel legame speciale. L’unica cosa che permette alle anime di madre e figlio di tenersi reciprocamente strette.

In El paraiso di Enrico Maria Artale la madre di Julio è interpretata da Margarita Rosa De Francisco, star di telenovelas colombiane e nel cast di Narcos, la serie Netflix. Riscoprire quest’attrice è un’alba multicolor. Struggente e trascinante con il suo caratterizzare questa donna così intima con il figlio, combattuta, segnata nello sguardo da un passato difficile, custode di mille non detti e segreti. Una fisicità che fa pensare ad una Michelle Pfeifer più aspra, latina, e carismatica pure nel più semplice dei gesti. Canta, balla, tiene a bacchetta quel testone del figlio, ma si lascia anche proteggere. Ha vinto come Migliore attrice nella sezione Orizzonti alla Mostra del Cinema di Venezia, anche grazie alla sua splendida spalla, l’attore romano. Insieme creano dei momenti di puro cinema e Artale li fa convergere a perfezione nella sua ricostruzione decadente e variopinta del loro micromondo casalingo in riva al fiume.

Nel cast figurano anche Gabriel Montesi, attualmente la miglior nuova faccia da cinema romano e un’altra piacevole scoperta, Maria del Rosario. La musica la fa da padrona con una selezione di hit colombiane ’70 e ’80 che creano un’atmosfera nuova e avvolgente. Il film ha vinto a Venezia anche il Premio Orizzonti per la Miglior sceneggiatura, nonostante presenti un terzo atto scivolato, che scarseggia in quanto a scelte del protagonista e sul quale meglio non spoilerare. Giusto far muovere i propri personaggi senza giudizio, ma quanto lo è farli smettere di scegliere? Peccato perché tutto il resto è davvero un colpo al cuore.

Troppo azzurro, il nostro Woody Allen millenial

Da tutto il 2023 a oggi sono uscite alcune opere prime che messe insieme iniziano a comporre un significativo mosaico di sogni, paure, speranze e delusioni dei giovani dagli under 20 fino a quelli più in prossimità dei 30, gli Z e i millenials. Se con Una sterminata domenica di Alain Parroni «credere in qualcosa è impegnativo» per un trio di ventenni intorno a graffiti e a una gravidanza, con Non credo in niente di Alessandro Marzullo il manifesto sulla disillusione potrebbe ritenersi compiuto fin dal titolo. Ma se con la tossica relazione di non-amore del suo Patagonia Simone Bozzelli ci ha infilati in un dramma dirompente quanto rassegnato nel suo finale, Pilar Fogliati e le sue quattro ragazze Romantiche ci hanno portati in una dimensione umoristica più leggera e spensierata dove le eroine hanno un atteggiamento tutto sommato costruttivo. Si potrebbero citare pure i road movie Noi anni luce di Tiziano Russo e Io e il secco di Gianluca Santoni, o i visionari Space Monkeys di Aldo Iuliano e Amanda di Carolina Cavalli, che però sono del 2022. La tessera più recente di questo mosaico del più nuovo cinema italiano è Troppo azzurro di Filippo Barbagallo.

Il venticinquenne Dario vive ancora accudito dai suoi genitori, circondato dagli amici ex-liceali di sempre e dietro al sogno di una ragazza “impossibile”. In un’estate romana di casa vuota e genitori in vacanza ne conoscerà un’altra di ragazza, e da lì si accavalleranno amori e occasioni. La confezione colorata, pop e stilisticamente ineccepibile rende questo primo lavoro di Barbagallo piacevole come una bibita fresca con retrogusto un po’ amaro. Storia umoristica di un ragazzo romano del centro, delle sue insicurezze esistenziali e delle sue molteplici scuse per tirarsi indietro, allungare la coperta del proprio quartiere bene per scacciare quell’ansietta, per riuscire a respirare in una sempiterna comfort zone, anche al costo di soffocare chi da fuori l’alimenta e chi lo vorrebbe accogliere nel proprio mondo.

Barbagallo nasce come sceneggiatore fresco di Centro Sperimentale di Cinematografia, un paio di film come assistente alla regia, Tito e gli alieni di Paola Randi e Ride di Valerio Mastandrea. Seppur figlio d’arte, il padre è il produttore Angelo Barbagallo, estraneo però a questo progetto, il giovane regista, e per la prima volta anche attore, mette su un piccolo pamphlet di nevrosi metropolitane giovanili.

Il suo Dario, con la sua dolce tossicità sembra a volte un piccolo Woody Allen millenial, la sua New York è Roma, e il suo Gershwin Pop X, che ha composto le musiche. Un’elettronica pop con suoni saltellanti da videogame alternati a momenti più contemplativi. Visivamente il regista forse smarmella un po’ rendendosi patinato, magari per ammiccare al pubblico giovane, ma in realtà quella solarità è proprio il lievito madre del suo sguardo. Poi ti splitta sullo schermo varie istantanee di corpi avvinghiati e discorsi teneri in un letto dopo un amplesso, o stringe il formato come Dolan in Mommy, adattando però il nostro schermo alla forma verticale di uno smartphone per la soggettiva di una chat. E non manca di alternare scenari di periferia alla contemplazione di ruderi o isole tirreniche. Tutto molto gratificante al nostro sguardo, certo, ma sotto sotto il disagio di una generazione dove i maschietti passano spesso per tontoloni e le ragazze ambiscono a svegliarli è un fil rouge.

Se non il papà, Barbagallo ha avuto un braccio destro d’eccezione, Gianni Di Gregorio, come supervisore artistico che lo ha plasmato in attore. Insomma, un po’ come Sergio Leone per il novello regista Carlo Verdone, o come Giovanni Veronesi per l’esordio di Pilar Fogliati dietro la macchina da presa. Sceglie un cast autoironico e funzionale alla sua scrittura, Barbagallo. Il padre appiccicoso lo interpreta proprio Mastandrea, le due contendenti di Dario hanno i visi e gli stupori di Martina Gatti e Alice Benvenuti, mentre l’inseparabile amico grillo parlante è Brando Pacitto. Questa scacchiera per «raccontare le sensazioni speciali che durano un attimo», ha dichiarato il regista. Ma se da una parte un’adolescenza prolungata si fa comodo rifugio dall’ansia verso «futuri che non si sono mai avverati», dall’altro ogni occasione si fa metafora del trampolino, quel buttarsi nella vita che prima o poi tutti dovranno affrontare. Come quelli citati all’inizio è un nuovo autore Barbagallo, ha da dire cose piuttosto interessanti in forma e sostanza, e per questo andrebbe tenuto d’occhio da chi si chiede dove stia andando il nuovo cinema italiano.

Gloria! Quando una cantautrice prende la macchina da presa

Il titolo sembra già di per sé una scommessa. Da una parte inteso come preghiera rivolta al cielo, come i canti che da secoli animano le messe cristiane. Ma anche una sorta di richiamo coercitivo a un’ipotetica ragazza che disobbedisce. Gloria! è l’opera prima di Margherita Vicario, già in concorso alla Berlinale. Già, con tanto di punto esclamativo. Partita come attrice diplomata all’Accademia d’Arte Drammatica, una filmografia d’attrice di 8 lunghi, 4 corti e 12 partecipazioni in serie tv, nonché cantautrice di indie-pop con Universal, un album, due EP e diversi tour all’attivo, più 190 mila followers su Instagram, la Vicario punta alto per essere un’esordiente. Scrive e dirige una storia corale dove s’incrociano diversi piani narrativi, molte minuziose ricostruzioni sceniche e costumistiche del 1800 veneziano, ma ci parla soprattutto di musica e giovani artiste schiudendoci le porte su alcuni aspetti di un’epoca mai considerati dal mainstream.

Il connubio tra ragazze nobili e orfane, strano ma storicamente vero, aveva la possibilità di studiare musica negli Ospedali, ovvero strutture che le ospitavano finché non avessero preso marito, ma al tempo stesso ne soffocava ogni slancio creativo in un’atmosfera dove le donne erano semplicemente al servizio degli uomini. La regista parte dall’Ospedale della Pietà al tempo di Pio VII, il Papa che per alcuni mesi soggiornò in Veneto visitando alcune congregazioni, e ci mescola la vicenda fittizia di Teresa, cenerentola muta ma con un talento speciale e segreto: la composizione musicale. Insieme a un gruppo di ragazze violiniste si riunirà intorno a un pianoforte, un po’ come una Setta dei Poeti Estinti in stile Attimo fuggente, durante notti insonni e piene d’invenzioni musicali. Nasce da qui una magia di note che pervade di vitalità tutto il pastiche. Citazioni pittoriche e atmosfere che ricordano magicamente Music, il musical di Sia, e Into The Woods, quello Disney di Rob Marshall offrono un’impronta estetica più rivoluzionaria delle scarpe da ginnastica in Marie Antoniette della Coppola.

La Vicario orchestra febbrili sfide al piano che ricordano quella della Leggenda del pianista sull’oceano, con audace leggerezza plana dalla musica barocca al pop, passando per ritmi jazz e gospel. Se a metà novecento il rock’n’roll di Elvis faceva veniva bollato come “musica del diavolo”, immaginate cosa avrebbe mai potuto provare persone ottocentesche ad ascoltare jazz e pop dei giorni nostri. Praticamente più che un film in costume diventa una felice ucronia, dove cioè l’autrice stravolge il passato portando sonorità impensabili nel primissimo ottocento.

Si avvale di un cast assortito, dalle protagoniste Galatéa Bellugi e Carlotta Gamba, ai fanatici villain Paolo Rossi, nel ruolo del dispotico maestro di musica, e Natalino Balasso, retrogrado governatore, fino agli outsider Elio, che interpreta un affettuoso liutaio, e Vincenzo Crea, giovane dalla vita difficile per le proprie scelte sessuali.

Sottotemi sono tra gli altri la maternità negata, la forza della solidarietà femminile e il potere ecclesiale maschiocentrico. Questo racconto rivoluzionario e complesso per un’opera prima porta alcune piccole farraginosità per i più attenti, ma la Vicario dimostra di saper gestire il set come fosse quasi un musical da palcoscenico, e il cuore che ne traspare con chiarezza ha le carte per conquistare emotivamente alla visione. Infatti questa storia appassionante e originalissima, in forma e sostanza, al suo 5° giorno di sala si è piazzata quinta al box office. In più, dato interessante per addetti ai lavori e spettatori attenti a temi ambientali, questa di Tempesta è una produzione avvenuta in EcoMuvi, cioè il disciplinare europeo di sostenibilità ambientale certificato per una produzione cinematografica a basso impatto.