Home Elisa Teneggi

Elisa Teneggi

Tech femminismo

0

Riappropriarsi delle regole del gioco di tecnologia e intelligenza artificiale: è la parola d’ordine del nuovo femminismo, che non vuole più lasciare la palla solo agli uomini.

Partiamo da Teknolust, profetico film del 2002 di Lynn Hershman Leeson con Tilda Swinton: è un’utopia sci-fi di come le cose dovrebbero essere se alle donne fosse stato riconosciuto da sempre un rapporto alla pari con scienza e tecnologia (secondo dati Istat del 2021, in Italia si laurea presso Facoltà scientifiche solo il 16,5 delle studentesse, contro il 37% degli studenti).

Teknolust non fa mistero di giocare sulla prospettiva ribaltata: nel mondo della sua protagonista, la scienziata Rosetta Stone (Swinton), gli elettrodomestici nascondono futuristici dispositivi di calcolo e comunicazione, e l’obiettivo delle giornate è uno solo: creare la vita prescindendo dall’apporto dei maschi. Per Stone, questo significa creare robot senzienti “infusi” di vita dal suo stesso DNA. Di conseguenza, non solo le saranno biologicamente, ma anche fenotipicamente identici. I nomi delle prime “figlie” sono Ruby, Olive e Marinne, tutte interpretate da Swinton. Confinate in casa, ma impazienti di mettere il naso là fuori. Anche perché, per sopravvivere, hanno bisogno di un nutriente particolare: il cromosoma Y contenuto nel genoma degli uomini. Per procurarselo c’è solo una strada: uscire dal nido, sedurli in un rapporto sessuale, e portare a casa il bottino.

Con Teknolust Herman non si muove nel vuoto, ma si lega a una riflessione cominciata con i movimenti post-umanisti e, specialmente, nell’alveo di un femminismo che si avvia al suo periodo tardo e che, pur non dichiarandosi intersezionale, di fatto ne anticipa alcuni assunti di base. Il testo canonicamente indicato come apripista di questo cambiamento è il Manifesto Cyborg di Donna Haraway: pubblicato per la prima volta sulla Socialist Review nel 1985, il Manifesto rivendica una visione complessa dell’identità e dunque del ruolo sociale dell’individuo, non riconducibile alle dualità di pensiero (“maschio” contro “femmina”) proposte dalla società occidentale e patriarcale. Siamo tutti assemblati di pezzi diversi, tutti cyborg o Creature (Shelley scrive che le membra del “mostro” provengono da corpi diversi, poi ricucite insieme) e la strada procede sull’individuazione dei punti di comunità e non, come nella prima ondata di femminismo, delle differenze. Come scrive Helen Hester in Xenofemminismo (NERO, 2018), «Manifesto Cyborg è stata un’espressione precoce dell’appello a generare parentele. […] Le basi per le nostre coalizioni strategiche più produttive potrebbero non risiedere nel nostro DNA». Memori della lezione di Michela Murgia, vogliamo aggiungere un complemento di specificazione: parentele d’anima, affinità elettive. Senza il bisogno di riprodurci con un cromosoma Y di mezzo.

Teknolust
Tilda Swinton in “Teknolust”.

C’è di più. Tanto il pensiero cyborg che lo xenofemminismo (una delle ultime evoluzioni del post-femminismo e transfemminismo) invocano un recupero del rapporto uno-a-uno con la tecnologia nella sua accezione più vasta: un mezzo, mai un fine, per modificare le persone e la loro relazione con l’identità e il contesto sociopolitico. Storicamente infatti, dicendola con il sottotitolo del saggio Gender Tech (Editori Laterza, 2023) di Laura Tripaldi (scienziata e scrittrice, PhD in Scienza e Nanotecnologia dei Materiali), la tecnologia ha controllato il corpo delle donne, relegandole in ruoli preconfezionati e sempre soggetti alla volontà di colonizzazione maschile rifrasata come “indagine scientifica”, spesso medica. Scrive Tripaldi: «Le violenze operate dalla medicina sui corpi femminili […] non sono soltanto una macchia indelebile nel rapporto delle donne con il sapere tecno-scientifico. Sono anche, e soprattutto, l’inizio di una nuova forma di controllo tecnologico sui corpi, destinato a svilupparsi […] attraverso il Novecento in forme sempre più sottili e invisibili». […]

Di queste tecnologie, come la contraccezione ormonale, che promette non solo protezione da gravidanze indesiderate ma anche salvezza da tutti gli “squilibri” e i “guai” dell’essere donna, si dice che “è ciò che vogliono le donne”. Peccato che, come spiega Tripaldi, siano state inventate da un uomo, e che la situazione non migliori nemmeno nei trial medici per farmaci di uso comune, viziati dal cerchio di un serpente che si morde la coda: si hanno pochi dati sul corpo delle donne perché ci si concentra solo su alcuni aspetti del loro funzionamento, cercando di sopprimerli o controllarli; si sviluppano medicinali con dati prevalentemente maschili; ai trial i partecipanti sono prevalentemente uomini; dunque i prodotti sono sviluppati per gli uomini.

Si genera così un bias sistemico nei confronti del corpo femminile, tenuto in scarsa considerazione se non durante eventi biologici che, come la gravidanza, sono giudicati “interesse della comunità”. Tornando a Hester: «Lo xenofemminismo è un tentativo di formulare una politica di genere radicale adeguata a un’epoca di globalità, complessità e tecnologia. […] Il progetto xenofemminista non rifiuta la tecnologia (o la scienza o il razionalismo – idee spesso considerate costrutti patriarcali), ma la considera tanto una parte dell’ordito e della trama delle nostre vite quotidiane quanto una potenziale sfera di intervento attivista».

In altre parole, serve riappropriarsi della tecnologia, utilizzandola attivamente e rivendicando una libertà sociale che proprio dalla tecnologia è stata storicamente negata. Un’esigenza tanto più attuale negli anni in cui l’Intelligenza Artificiale è arrivata – e sempre di più arriverà – alla ribalta della quotidianità. Lo scriveva, già cinque anni fa, Ivana Bartoletti sul Guardian: «Il problema dell’avere solo uomini a scrivere le regole del gioco si sta facendo evidente nelle dinamiche di una cosa che è destinata a cambiare il modo in cui vivremo e respireremo: l’AI».

Bartoletti è una dei maggiori esperti mondiali di privacy e protezione dei dati. È stata ricercatrice all’Università di Oxford ed è attualmente Global Data Privacy Officer di Wipro. «C’è un primo grande problema: le scienziate sono poche, e questo porta a una conseguenza ancora più disastrosa: la mancanza di pensiero intersezionale mentre si crea un algoritmo». Che cosa succederebbe, per esempio, se per rinnovare un patente bastasse interfacciarsi con un’Intelligenza Artificiale, e se questa fosse stata addestrata per sottoporre le donne a prove e scrutini maggiori (d’altronde, donna al volante…)? O se il processo di recruitment di un’azienda dovesse passare attraverso le maglie dell’AI, magari portata a sfavorire le donne in età fertile per la paura di una maternità imminente? E che cosa succederebbe se queste AI fossero state cresciute nella convinzione che i capelli di una persona afrodiscendente non fossero indice di affidabilità? […]

Oggi, mentre siamo tutti bravi a giocare con ChatGPT e creare immagini di animali buffi con Midjourney, sarebbe bene non far cadere questi e altri avvertimenti nel vuoto.

QUESTA È UN’ANTICIPAZIONE DELL’ARTICOLO COMPLETO DI ELISA TENEGGI CHE SARÀ DISPONIBILE SUL NUOVO NUMERO DI FABRIQUE SOLO PER GLI ABBONATI, CLICCA QUI PER ABBONARTI

Valerio Ferrara: bisogna tornare a prendere la commedia sul serio

0

Ha presentato il primo corto Notte romana a Venezia nel 2021 e, quest’anno, ha vinto La Cinef di Cannes con Il barbiere complottista, ora in première italiana ad Alice nella Città. Appena diplomato dal Centro Sperimentale di Cinematografia, Valerio Ferrara è già una promessa. L’abbiamo incontrato per parlare di futuro ma, soprattutto, di presente.

Valerio, classe ’96, ha un sorriso ampio e accompagna la conversazione via zoom a grandi gesti: è pieno di quell’energia, che, dalla partecipazione di Notte romana alla Settimana Internazionale della Critica (SIC) della 78a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, l’ha portato alla vittoria nella sezione Jeune Cinéma/La Cinef del festival di Cannes, ribalta dei migliori corti provenienti dalle scuole di cinema di tutto il mondo. È il suo lavoro di diploma del Centro Sperimentale di Cinematografia, Il barbiere complottista, a trionfare davanti ai colleghi di Cina e Ucraina. La motivazione della giuria, unanime: non c’è strada migliore per raccontare le minacce al nostro presente, le insidie del futuro, che mettere in primo piano il complottismo e le sue conseguenze ormai inestricabili dai pensieri di tutti i giorni. Anche se il racconto del fenomeno giunge ben calato e radicato in una Roma comune, di quartiere, contemporanea, dove chiunque potrebbe, tra un colpo di rasoio e l’altro, ricevere succosi scoop sui rettiliani da parte del proprio barbiere di fiducia. Anche – anzi, soprattutto – visto che Il barbiere complottista è una commedia, l’unica inserita nella rosa della selezione.

«Che poi certo, parlando di generi, Il barbiere è di sicuro una commedia, ma una commedia che non si ferma al sorriso di superficie. A Lucio (Patané, interprete del protagonista Antonio Calabrò) continuavo a ripeterlo: non deve far ridere. Piuttosto, deve essere assurdo». E l’assurdo, ne Il barbiere complottista, arriva subito, molto vicino. Si comincia dall’ossessione di Antonio per il lampeggiare dei lampioni della città, codice morse alieno; dal campo-controcampo tra Patané e il PC su cui il barbiere compila ossessivamente, interlocuzione allucinata, il suo blog complottista. Si continua con un raid della Digos a casa di Antonio: gli devono confiscare il computer, deve seguirli in centrale, è proprio lui il signor Calabrò? La legittimazione, per il barbiere, non è mai stata così dolce, così agognata: i dati raccolti sono allora importanti, possono davvero imbarazzare nomi potenti ai ranghi alti del complotto, e invece no, tutto si scioglie nello svelamento di un attacco hacker, pericolo ben più reale di Bill Gates e microchip. E i lampioni? Be’, risponde il comandante di centrale, è semplice, il Comune non ha i soldi per tenerli sempre accesi e deve interrompere la corrente. Ma è al ritorno a casa del battuto Antonio che la commedia rivela tutta la sua forza tragica: l’arresto ha dato una motivazione ad amici e famigliari per credere, infine, alle teorie del barbiere, e lui non si è mai sentito così forte.

Valerio Ferrara Notte romana
“Notte romana” il primo corto di Valerio Ferrara.

«Vedi, secondo me bisognerebbe tornare a prendere la commedia sul serio, non come quella cosa che usi per spegnere il cervello e fare soldi al botteghino. Il cinema italiano ha una tradizione senza paragoni nella commedia, ma oggi, se guardo i film fatti per far ridere, parecchi sono vuoti, senza una direzione, non vanno oltre la battuta. Chissà in che guaio mi sto cacciando a dirlo, ma, per me, ridare corpo e sfaccettatura alla commedia è una questione di responsabilità». Gli chiedo di più. «Monicelli, Risi, De Sica, Comencini, i maestri della nostra commedia avevano capito come fare una cosa, ovvero lasciar parlare la realtà. Prendi Il vedovo (1959) di Dino Risi. Ecco, Il vedovo altro non è che un fatto di cronaca, il film si ispira al caso Fenaroli. Quindi la mia responsabilità girando e scrivendo Il barbiere è stata documentarmi scrupolosamente su tutto quello che mettevo sullo schermo, dando forma sia alla vena comica che a quella seria. Quando arriva la Digos, per esempio, dovevo sapere come effettivamente la Digos avrebbe potuto presentarsi a casa di un sospettato, quindi sono andato in centrale a indagare. Se Antonio fosse stato solo ammanettato e portato via, avrei tradito la realtà, e non volevo espedienti facili, di ilarità facile. Lo stesso per tante altre dinamiche sia de Il barbiere che di Notte romana».

Per Valerio, il tempo, storico e no, è una cosa seria, lo si nota dalla qualità dei suoi lavori. «Mi piace l’idea che le persone si siedano in sala e abbiano la possibilità di entrare gradualmente nello spirito del film. Poi c’è anche una motivazione più triviale, perché io al cinema sono sempre arrivato in ritardo e puntualmente mi perdo l’informazione fondamentale nei primi due minuti. Così ho deciso che non metterò mai le informazioni fondamentali nei primi uno o due minuti di film».

Anticipazioni? «Ancora non c’è nulla sul piatto, ma posso dire che mi sono innamorato del complottismo, e voglio capirlo ancora più a fondo. Credo che, per il momento, proverò a lavorare su quello. Probabilmente con un lungometraggio». Niente panico, quindi, se vedremo Valerio inquadrato in qualche raduno di terrapiattisti sul TG nazionale. «Per preparare Il barbiere sono stato a vari raduni, ho letto e imparato molto sul tema. Credo di aver capito che esistono vari livelli di complottismo: vanno da quelli che non farebbero male a una mosca a quelli che sarebbero pronti ad aprire il fuoco. C’è poi un’altra cosa che mi spaventa e quindi mi interessa del complottismo: oggi, a mio avviso, è l’unica ideologia che ancora resiste nel mondo occidentalizzato. Se c’è qualcuno che sta costruendo mondi paralleli, questi non sono sicuramente i registi o gli scrittori, ma i complottisti. Poi mai dire mai, magari la prossima volta che ci vedremo avrò fondato la mia personale ideologia complottista a favore della rinascita della commedia italiana. Magari c’entreranno le luci dei lampioni».

L’ARTICOLO COMPLETO È DISPONIBILE SOLO PER GLI ABBONATI, CLICCA QUI PER ABBONARTI A FABRIQUE 

 

 

L’angelo dei muri, il regista: “parlo delle paure che ci portiamo tutti dentro”

Esce il 9 giugno in sala L’angelo dei muri di Lorenzo Bianchini, sesto lungometraggio del regista friulano, prodotto e distribuito da Tucker Film in collaborazione con Rai Cinema e MyMovies e presentato per la prima volta nel 2021 alla 39esima edizione del Torino Film Festival.

Interamente girato a Trieste con pochissimi cambi di scenografia, L’angelo dei muri segue le vicende dell’anziano protagonista Pietro (Pierre Richard), il quale, sottoposto a sfratto dalla casa dove ha abitato tutta la vita, decide di nascondersi tra i muri e il buio silenzio dell’abitazione piuttosto che doversene separare. Presto, però, l’entrata di due nuove inquiline, madre e figlia (Zala, interpretata da Iva Krajnc, e Sanja, interpretata da Gioia Heinz) mette a repentaglio la ritrovata tranquillità di Pietro, che, nascosto come un “angelo” tra le pareti, si troverà ad affezionarsi lentamente alla piccola Sanja, quasi completamente cieca e alla ricerca di un amico con cui dividere il tempo nella grande casa vuota. Ma l’amicizia tra Pietro e Sanja porta alla luce le tenebre interiori del protagonista.

 

L’angelo dei muri è tutto ambientato in una casa, eppure il contesto cittadino e triestino è ben presente, dalle vie alla lingua dei protagonisti. Anche le tue opere precedenti sono fortemente legate alla tua terra d’origine, il Friuli Venezia-Giulia. Spesso hai detto che non è tanto la terra a ispirarti una storia, ma la storia stessa che si mette in dialogo con la terra. È stato così anche per questo film?

Per me il racconto di una storia parte sempre dal legame con quello che hai vissuto nella tua terra, nei luoghi che hai abitato. E questo avviene sia culturalmente che spazialmente, e in modo molto naturale, come un lascito. Nel caso de L’angelo dei muri ho voluto inserire sia elementi di contesto cittadino e triestino, come gli scorci dei palazzi austro-ungarici e l’atmosfera plumbea che gravita su tutto, ma anche particolari più intimi, rielaborando sui ricordi della mia infanzia. Quindi abbiamo ombre, suoni, grandi stanze e le paure che si generano a contatto con questi ambienti… tutti dettagli che ho assorbito passando molta della mia infanzia in montagna, nella grande casa che avevano i miei nonni.

La storia comunque non risulta mai localistica, anzi, si fa portatrice di un messaggio valido in qualsiasi luogo e tempo.

Questo per me è un paradosso felice, perché sono convinto che sia la potenza di una storia a darle portata e rilevanza. Se una storia raggiunge la completezza traendo la propria forza dall’humus in cui è cresciuta, allora toccherà corde che suonano simili, se non uguali, in tutte le anime. Questa è la grande potenza della narrazione: sapersi rendere universale, essere come una forma adattabile al contesto di provenienza di ognuno. E in questa dinamica c’è una dimensione che mi è particolarmente cara: quella della solitudine, dell’introspezione che ne consegue e dei suoi corredi e correlativi emotivi. Spesso si parla di questo quando si parla di paure, e nei miei film sono spesso le paure a catalizzare le indagini interiori dei protagonisti. Perché ognuno si porta dietro paure diverse e parole diverse per descriverle. L’essenza, però, è una, e valida per tutti gli esseri umani.

Tra l’altro di solitudine tu hai sempre parlato, e in modo, mi sembra di percepire, affezionato. Come una vecchia amica che porti con te e che fornisce combustibile alla voglia di narrare. Ragionamento che imbocchi decisamente nel film, dove, oltre a Pietro, protagonista sembra essere la rarefazione… 

Con la solitudine ho iniziato a ragionare più approfonditamente da Occhi, verso il 2007, e poi dopo con Oltre il guado (2013). L’angelo dei muri è però sicuramente, a oggi, il mio punto più alto di espressione della solitudine. E tutto parte in effetti da lì, dalla rarefazione, sia dal punto di vista scenografico che di quello che è la resa visiva finale. Regnano i silenzi, le parole pronunciate dagli attori sono pochissime e il vero dialogo che s’instaura è quello tra il rumore e l’assenza di rumore. Quindi si crea un enorme spazio vuoto, vuoto sotto ogni punto di vista, ed è attraverso questo vuoto che si può descrivere la solitudine sotto la forma dell’introspezione e della genesi delle paure. Paure che a me piace chiamare “neorealiste”, cioè comuni, con cui chiunque può entrare in empatia e fare i conti.

L'angelo dei muri

Una cosa che colpisce molto, all’inizio del film, e che sembra porsi come manifesto di questo approccio alla solitudine, è il piano sequenza di apertura: minuti interi dove domina la tecnica cinematografica nella sua versione più genuina, dove la camera non fa altro che muoversi nel silenzio, contravvenendo all’abitudine che vuole questo tipo di ripresa supportata da grandi musiche e ritmi.

Assolutamente sì. Io sono molto affezionato al piano sequenza, che considero la ripresa a maggior portata narrativa del cinema. Il piano sequenza è l’unico momento di un film in cui puoi esperire il tempo, in cui il tempo non è manipolato dal montaggio ma, semplicemente, scorre, è presente. E, percependo il tempo, ci si immedesima, ci si cala nel pathos del momento, si ritorna a una specie di battito cardiaco primitivo, un bioritmo del tutto nostro che, però, stiamo perdendo nei tempi sempre più frenetici che viviamo. Quindi questo battito, così come il piano sequenza, per me significa fermarsi, rallentare, indulgere nella dilatazione temporale, così che si creino “finestre” per l’introspezione. Inoltre, per L’angelo dei muri il percorso del piano sequenza di apertura traccia un vero e proprio risveglio per il protagonista. Il passato bussa alle porte della mente, il sogno muore e bisogna fare i conti con la propria realtà interiore.

Torniamo un attimo all’elemento della paura di cui parlavamo prima. L’angelo dei muri può essere letto come una “favola nera”, per quanto risulti però diverso dai tuoi film precedenti, che virano decisamente all’horror. Puoi parlarci meglio di questa diversità?

Naturalmente non si può parlare de L’angelo dei muri come di un horror, perché è piuttosto un dramma psicologico. L’elemento della favola, e della favola nera, deriva molto dalla fisicità dell’attore protagonista, Pierre Richard, perfetto per qualsiasi adattamento dell’opera dei fratelli Grimm. Sul concetto dell’horror però mi piace sempre dire che, per me, ha soprattutto a che vedere con l’orrorifico, per tornare al punto delle paure che ci portiamo dentro. Mi piacerebbe che i confini della nozione di horror si allargassero, che uscissero dal senso comune che lo avvicina più a una sequenza di jumpscare o agli slasher movie. Se l’idea del film di genere contemplasse anche la dimensione emotiva e non solo puramente visiva di ciò che si porta sullo schermo, probabilmente l’etichetta di “horror” potrebbe descrivere molte più cose di quelle che ci immaginiamo canonicamente. Ed è qui che torniamo a quello che mi piace chiamare neorealismo delle paure, un dare corpo, e volto, a quello che ci portiamo dentro.

Pierre Richard in L'angelo dei muri
Pierre Richard in “L’angelo dei muri”.

Pierre Richard ha quindi avuto un ruolo fondamentale nel dare al film la sua veste finale?

La mimica e il modo di portarsi sul set di Pierre sono stati elementi fondamentali. E la sua prova attoriale è stata, a mio modesto parere, da manuale, perché la sfida principe de L’angelo dei muri era sorreggerne l’impianto narrativo, e si parla di un’ora e tre quarti, usando solo la fisicità e l’espressività di un uomo anziano, fragile, schiacciato dal suo passato. Appena ho visto Pierre, mi sono subito convinto su di lui.

Parliamo della produzione de L’angelo dei muri, perché la tua carriera registica inizia nell’autoproduzione per poi transitare da piccole produzioni e, ora, arrivare a una produzione più strutturata. Com’è avvenuto questo salto?

Lavorare con una produzione più grande è stato un grandissimo piacere, e poter avere il supporto di una squadra più articolata è stato fondamentale per portare a termine la realizzazione del film com’era nell’idea originaria. Paradossalmente, però, ci siamo fermati a tre/quattro attori e praticamente una sola location di ripresa. Ovviamente, la maggior disponibilità anche in senso economico ha permesso, per esempio, di scritturare un attore del calibro di Pierre Richard. Allo stesso tempo, però, avere avuto esperienze di autoproduzione si rivela secondo me sempre utile quando si tratta di coordinare le operazioni sul set: hai conoscenza di prima mano del lavoro delle altre figure e questo ti fornisce una visuale molto più chiara delle tempistiche e dei passaggi da mettere in campo.

Quindi questa sarà la strada dei prossimi progetti? Puoi già darci qualche anticipazione?

Di sicuro voglio portare avanti entrambi questi filoni di produzione, quello in solitaria e quello di una produzione esterna e strutturata. Questo per un motivo molto semplice: le produzioni tradizionali hanno tempi di lavorazione per loro stessa natura più lunghi, e ti obbligano a una selezione a monte delle idee. Non a caso abbiamo già fatto qualcosa l’estate scorsa sul versante dell’autoproduzione, con letteralmente altre cinque persone più le comparse. Questo, per me, è lo spazio in cui sperimentare, e sperimentare è estremamente utile e appagante.