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Elio Di Pace

Freaks Out, un Gabriele Mainetti senza limiti

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Quarto film italiano in concorso a Venezia 78, arriva Freaks Out, opus magnum di Gabriele Mainetti e suo secondo lungometraggio dopo Lo chiamavano Jeeg Robot, che è stato uno spartiacque nella storia recente del cinema italiano.

Se le ambizioni di Jeeg Robot erano già coraggiose e il tentativo di importazione di modelli cinematografici esterni era da ritenersi riuscito, quantomeno premiato dall’accoglienza del pubblico, qui Mainetti si spinge ancora oltre, con un film la cui lavorazione ha richiesto un numero di settimane di riprese inedito per il nostro sistema produttivo, un dispendio di effetti speciali e effetti visivi altrettanto magniloquente, una confezione che francamente non ha nulla da invidiare a prodotti di nazionalità più abituate alla grandeur: gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Corea del Sud, la Russia.

Il pretesto narrativo per questo affresco fantastico sulla Roma occupata dai nazisti nel 1943 è un piccolo teatro di strada gestito da Israel, interpretato da Giorgio Tirabassi, che recluta fra i suoi fenomeni da baraccone quattro strambe figure: Fulvio, l’uomo lupo di Claudio Santamaria, Cencio, il domatore di insetti interpretato da Pietro Castellitto, Mario, nano con poteri magnetici col volto di Giancarlo Martini e la ragazza elettrica, Matilde, che è Aurora Giovinazzo, il personaggio più complesso e anche quello decisivo.

I quattro freak della storia passeranno attraverso molte peripezie e molti incidenti di percorso che riassumere qui sarebbe impossibile – anche vista la durata del film, 141 minuti -, si separano, si ritrovano, vengono fatti prigionieri, si liberano, combattono, a volte nulla possono neanche i loro superpoteri, altre volte sono invece determinanti. Incontreranno anche un altro gruppo di personaggi, una curiosa e agguerrita brigata di partigiani con l’accento pugliese, ciascuno con una menomazione o una deformità, ma ciascuno pure dotato di abilità straordinarie, e saranno loro gli eroi di un immancabile “arrivano i nostri” pienamente inserito dello schema del film d’avventura, rispettato dall’inizio alla fine.

I cattivi sono, naturalmente, i nazisti, pure tratteggiati con qualche miracoloso potenziale, per esempio l’interessante trovata di rendere Franz, l’assoluto antagonista dei freak, un sublime pianista e anche “la Cassandra del Reich”, con il potere di prevedere il futuro: futuro che va dalla caduta del regime – quindi sulla breve distanza – fino all’invenzione dell’iPhone. Ebbene sì, proprio l’iPhone, generatore della sequenza più visionaria e coraggiosa del film.

Come si può vedere, gli elementi nel calderone sono tantissimi e a Mainetti va riconosciuto il coraggio di aver fatto di tutto, produttivamente parlando, per mettere dentro Freaks Out tutte le idee, le situazioni, le coreografie, le battaglie che ha immaginato e sognato, senza porsi limiti, senza timore reverenziale dei riferimenti cinefili sparpagliati lungo il percorso, che vanno da Tarantino a Burton, da Spielberg fino ad arrivare addirittura al Rossellini di Roma città aperta. Anche a costo di sembrare prolisso, anche a costo di sfiorare la bulimia visiva e sonora, è ammirevole la tenacia nel tenere insieme ogni cosa, pur di realizzare l’opera agognata.

Ma pur all’interno di un impianto produttivo così gigante, a prendere felicemente il sopravvento sono gli attori: il cast è azzeccatissimo, sono bravissimi tutti i quattro freak, Castellitto che si lascia andare alla romanità borgatara spinta, Santamaria animalesco e colto insieme, Martini è bravo a non diventare macchietta (il pericolo, con il suo personaggio, era dietro l’angolo), Aurora Giovinazzo è commovente nella gestione del dolore legato al proprio superpotere, in ogni sua apparizione è memorabile Tirabassi, e una menzione particolare va a Max Mazzotta, il capo dei partigiani, in grado di dare un fuoco al personaggio del gobbo che per espressività e per presenza scenica animalesca è destinato a rimanere.

Ariaferma, il carcere (metaforico) di Servillo e Orlando

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È sempre una gioia quando vede la luce delle sale un nuovo film di Leonardo Di Costanzo, autore poliedrico, mente dai vasti orizzonti che per il cinema cosiddetto di finzione ha sempre attinto alla lunga e fruttuosa esperienza da documentarista, e ha portato avanti un percorso coerente, come se si fosse prefissato fin dall’esordio di imporsi come il regista degli spazi chiusi, dei microcosmi, dell’isolamento, delle fughe surreali dai luoghi reali. Ariaferma, scritto dal regista insieme a Valia Santella e Bruno Oliviero (una sceneggiatura che non ha un solo cedimento, né nella struttura, né nei dialoghi), racconta un momento critico all’interno di un carcere situato in un luogo imprecisato, come sempre in Di Costanzo la geografia si dirada e perde via via la sua connotazione, e il teatro dell’azione diventa come sospeso in una nube: la casa circondariale chiude, ma i trasferimenti vengono bloccati per problemi burocratici, e dodici detenuti devono restare lì, in un luogo abbandonato e spettrale, e con loro tutto il personale di guardia, a capo del quale c’è Toni Servillo, che per schematizzare come si fa nei polizieschi americani fa lo sbirro buono, in coppia con lo sbirro cattivo che invece è Fabrizio Ferracane.

I dodici ospiti del carcere sono tutti molto diversi fra loro, ognuno a rappresentare un “tipo”: c’è il giovane con istinti suicidi, ci sono gli extracomunitari, c’è il pedofilo da tutti messo al bando, e c’è quello misterioso, il più mite, che però – viene detto a un certo punto, senza rivelare pienamente il mistero – è anche il più pericoloso di tutti: si chiama Carmine Lagioia (interpretato magistralmente e in sottrazione da Silvio Orlando), e gli viene successivamente conferito l’incarico di chef, diventando di conseguenza un po’ il “sindaco” del carcere, da tutti rispettato, e l’unico con l’autorità di trattare con il Gaetano Gargiulo di Servillo.

È questo incontro a generare la tensione narrativa che dà l’acqua della vita alla storia, con Gargiulo che prova a porre le distanze fra sé e il detenuto, ma col passare del tempo i due trovano i punti d’incontro: il culmine è uno scambio di battute che potrebbe fare da epigrafe a tutto il film, che suona tipo “Lagioia, sei tu che sei in carcere”, e il detenuto ribatte “E perché, voi no?”. Non potrebbe avere più ragione.

Ariaferma segna un po’ una svolta, un’evoluzione, e perché no una summa nel cinema di Di Costanzo: c’è una regia solidissima, splendida somma non algebrica di direzione degli attori e gusto figurativo, coadiuvato dalla fotografia di Luca Bigazzi che con Di Costanzo riesce a esprimersi sempre ad altissimi livelli, come già ne L’intervallo. Importante anche il sonoro di Xavier Lavorel, che ha il suo momento trionfale a chiusura della scena più importante del film e anche una delle più belle e memorabili di questo festival: la cena, di notte, a lume di torce elettriche a causa della mancanza di elettricità, con detenuti e agenti che siedono al tavolo insieme, annullando l’effetto del carcere diventando quello che sono: esseri umani.

La ragazza ha volato, Alma Noce è da lode

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Torna utile una bella battuta del film di Paolo Sorrentino come epigrafe per La ragazza ha volato, il lungometraggio di Wilma Labate presentato a Venezia nella sezione Orizzonti Extra: “Noi non sappiamo quello che succede nelle case degli altri”.

La scrittura per immagini di Labate incornicia questo racconto con alcuni avvolgenti movimenti di macchina che restituiscono proprio questa sensazione: in testa e in coda al film, i balconi e le finestre di Trieste, tutte uguali l’una all’altra ma ciascuna contenitore di una storia diversa, teatro di gioie, di dolori, di umanità per cui provare rispetto, compassione, senza giudizio, perché il protagonista della storia che stiamo guardando potrebbe essere il nostro vicino e, se non è lui, allora potremmo essere noi.

Sono subito esplicite quindi le intenzioni registiche di Wilma Labate: un film di osservazione, di sguardo, qualche piano sequenza, ma anche semplicemente inquadrature lunghe, con un proprio respiro, che inducono all’attesa, ma anche invitano a prendere parte a ciò che si sta vedendo.

La ragazza ha volato è la storia di un’adolescente di nome Nadia, una ragazza come tante, forse un po’ solitaria, ma introversa, che quando esce dal proprio guscio inciampa in un ragazzo di cui sfortunatamente accetta un invito: i due si ritrovano a casa di lui, c’è l’umiliazione, c’è il ricatto, c’è la violenza.

Ammirevoli la discrezione e l’economia di scrittura: ci sono le mani dei fratelli D’Innocenzo nella sceneggiatura di questo film, e un certo sapore di gioventù prigioniera e disincantata e di adulti inermi e incapaci di vera comunicazione sono argomenti che i due autori romani hanno nelle loro corde. “È una storia fatta di personaggi che subiscono la vita nel disordine e nell’inerzia. Nadia è una ragazzetta attraente che si muove nel grigiore, con una famiglia affettuosa ma immobile nel destino della periferia, non degradata, solo difficile e sciatta”, dice Wilma Labate, che segue la sua straordinaria protagonista senza il pedinamento “di nuca” che ci stiamo abituando a vedere troppo spesso, né con quella macchina a mano che punta a far dire “dardenniano” di qualunque film ruoti intorno a un personaggio fulcro di tutta la storia. Come già detto, la scrittura per immagini di Labate è misurata, essenziale, mai troppo né troppo poco.

Un’ultima menzione va ad Alma Noce, che interpreta Nadia: bravissima nella prima parte del film, dove le parole che pronuncia si possono quasi contare, ma ancora più brava dal momento della scoperta che le cambia la vita, e in tutti i momenti successivi di accettazione, gestione, condivisione del proprio destino.

È stata la mano di Dio, a Venezia 78 per Sorrentino applausi a scena aperta

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Dopo il road movie statunitense, primo approdo oltreoceano, dopo le flaneries disilluse e decadenti di Jep Gambardella sul lungotevere e nei palazzi romani, dopo il racconto di due dolorose senilità in una gabbia dorata in Svizzera, dopo il mega affresco di due pontefici, il divo e Mefistofele, e dopo il magniloquente dittico sul Cavaliere, Paolo Sorrentino torna a Napoli con È stata la mano di Dio.

È un ritorno felice, felicissimo, cinematograficamente parlando, pur con al centro un enorme dolore, che qui l’autore semina e dissemina in un memoir, in un racconto di formazione, in un coming of age sulla base di una scrittura che quasi mai è stata così precisa, essenziale, leggera. In una parola: vera.

Vera, nonostante il racconto di È stata la mano di Dio cominci subito con un’evocazione che più napoletana non si può: un enorme abbraccio alla città, che comincia dal mare, individua Castel dell’Ovo, la collina di San Martino, finisce sul mare e poi si inoltra, di notte, insieme niente di meno che a San Gennaro, nei meandri oscuri della città dove facciamo la conoscenza di una presenza misteriosa, che a Napoli – come racconta Matilde Serao – esiste dalla notte dei tempi: il munaciello. Lo possono vedere solo in pochi. Lo può vedere solo chi ha il dono.

L’alter ego che Sorrentino sceglie per questa trasposizione divertita e insieme commovente della propria giovinezza si chiama Fabietto Schisa, interpretato dal giovane Filippo Scotti che è bravissimo. Certo, è stato guidato da un grande direttore di attori, ma il ragazzo ha stoffa.

Questo giovanotto solitario, allampanato, caratterizzato splendidamente dall’inseparabile walkman con le cuffie, si muove nella Napoli alta della metà degli anni ’80, l’epoca che potremmo chiamare a.D., avanti Diego, se è vero che un Messia venuto dall’Argentina ha segnato in questa città un evidente prima e dopo che ancora oggi porta i suoi malinconici strascichi.

Napoli alta perché Sorrentino racconta una classe sociale che nella proficua produzione cinematografica napoletana si vede rarissimamente: la borghesia. Gli Schisa abitano al Vomero, in un parco sobrio e pieno di gente per bene, al piano di sopra c’è una baronessa decaduta e decadente ma che gioca un ruolo decisivo in questa storia, la dirimpettaia è un’aspirante attrice che sogna di fare la protagonista per Zeffirelli e per un attimo sembra esserci riuscita, c’è anche il fool dal cuore d’oro che si traveste da Super Mario. E poi le vacanze: i momenti di svago, meravigliosamente corali, con una rappresentazione precisa, impietosa ma affettuosa, del caleidoscopio di umanità di Napoli e dintorni riunita tutta insieme, coppie male assortite, anziane uccellacce del malaugurio che poi avranno il loro riscatto, la zia bellissima che genera i primi pruriti adolescenziali, lo zio che agisce al limite dell’illegalità ma ha il cuore d’oro, e tanti altri.

In È stata la mano di Dio Sorrentino ha dato fondo a una mole sconfinata di ricordi, di immagini, di parole ascoltate o origliate in quel momento della sua vita, che verrebbe voglia di guardare questo film seduti accanto a lui e chiedergli cosa sia accaduto davvero e cosa no, cosa sia troppo assurdo per non essere successo invece veramente oppure cosa sia stato ammorbidito per pudore, o per qualunque altro motivo.

Eppure, in questo romanzo per immagini vivace, colorato, divertente come forse mai è stato Sorrentino, c’è anche un’immane sofferenza, la più grande che un adolescente, già di per sé fragile, potrebbe incontrare sul suo cammino. E quel momento, proprio quella tragica agnizione, è un momento altissimo del film, quasi buzzatiano, con questa surreale impossibilità dei medici di riuscire a dire al ragazzo cosa sia successo ai suoi genitori.

In chiusura, il dialogo con l’agognato maestro Antonio Capuano: quante grandi verità quel profeta è capace di dire al giovane Sorrentino, che illuminazione, che rivelazione devono essere state per lui quelle parole. Che le abbia pronunciate davvero, poco importa, perché il futuro regista dimostra di aver appreso la lezione.

Ultima menzione per gli attori. Già detto del sorprendente Scotti, sugli altri non ci potevano essere dubbi: Servillo e Saponangelo, Betti Pedrazzi memorabile nel ruolo della baronessa, Renato Carpentieri con le sue solite sublimi fiammate, Ciro Capano nei panni di Capuano, il bravissimo Biagio Manna che è il contatto del film – e di Fabio – con il ventre di Napoli, Luisa Ranieri, che in questa storia, della città di Napoli, è un po’ l’incarnazione.

Europa di Haider Rashid, una bella sorpresa a Cannes

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È Europa l’ultimo film italiano (per metà: la coproduzione è del Kuwait) passato in rassegna nella Quinzaine des Réalisateurs, sezione quest’anno particolarmente ricca di grande cinema e per la quale c’è da fare tanti complimenti al nuovo delegato Paolo Moretti.

Diretto da Haider Rashid, fiorentino di nascita, padre iracheno e madre italiana, Europa è un’opera coraggiosa che vince la propria scommessa sia per l’argomento trattato che per le scelte formali.

Il tema qui è l’immigrazione, raccontata attraverso l’avventurosa fuga per la sopravvivenza del giovane migrante iracheno Kamal, interpretato Adam Ali, lodevole per lo sforzo duplice della resa precisa delle emozioni del personaggio e contemporaneamente la restituzione dello sforzo, della fatica fisica, dei gesti irrigiditi dalla paura.

Il suggestivo incipit notturno racconta uno scenario che è ben noto allo spettatore mediamente informato sui fatti: la raccolta del denaro dei migranti da parte dei trafficanti che si occuperanno del viaggio, la luce della luna e le torce dei cellulari illuminano volti sui quali la macchina da presa indugia febbrilmente, quel tanto che basta per suggerire che il tempo stringe, e che bisogna agire nell’ombra. Ma l’arrivo improvviso dei miliziani di frontiera (siamo al confine fra Bulgaria e Turchia) fa precipitare gli eventi, i migranti si disperdono, molti vengono uccisi, qualcuno scappa ma viene catturato. Il sogno si infrange su quelle sponde, ma Kamal riesce a fuggire.

Ed è qui che comincia il suo percorso di sopravvivenza, raccontato in maniera intelligente ed efficace da Rashid con l’ausilio del direttore della fotografia Jacopo Caramella, che qui mette in mostra le sue formidabili abilità di operatore attaccandosi in maniera solidale al protagonista, facendo perno sul suo volto e sul suo corpo, sia che fugga, sia che si arrampichi su un albero, sia che si ingegni ad accendere un fuoco o a procurarsi scarsissime quantità di cibo.

In questo film, il discorso visivo si fa parte integrante del racconto: la macchina da presa di Rashid segue Kamal ossessivamente, al punto da non più generare solo empatia, ma anche imponendo allo spettatore di condividerne fisicamente il punto di vista, c’è immedesimazione, non solo comprensione distaccata della sua corsa nel bosco (location per esigenze produttive ritrovata in provincia di Arezzo).

Europa alterna sapientemente, nei suoi 70 minuti circa di durata, momenti dal ritmo forsennato a sospensioni che raccontano la tregua di Kamal e, per quanto sia il racconto di una solitudine, sono disseminati alcuni incontri che rientrano pienamente nei topoi dell’avventura: un compagno defunto, un inseguitore, una donna che presta soccorso, un possibile salvatore finale.

Una bella sorpresa, un cinema intelligente che padroneggia il linguaggio e allo stesso tempo ragiona sul racconto, usa il particolare per riflettere sul generale e, infine, apre alla speranza.

Futura, i giovani secondo Marcello, Munzi e Rohrwacher

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Il terzo dei quattro film italiani selezionati alla Quinzaine des Réalisateurs è il film collettivo (la definizione è degli autori) Futura, di Pietro Marcello, Francesco Munzi e Alice Rohrwacher, con il titolo – appropriato e suggestivo – mutuato da Lucio Dalla, il quale è stato oggetto di un altro lavoro di Pietro Marcello che in questi giorni è visionabile su Nexo Digital, Per Lucio, montaggio di materiale d’archivio sul grande musicista bolognese.

Futura è un film sui giovani. Come ha voluto precisare a chiare lettere Marcello in una delle serate della Quinzaine in cui il film è stato proiettato, nel nostro tempo si dà troppo spazio alla voce dei “vecchi”, è invece giusto che i giovani abbiano una propria tribuna di espressione, un territorio d’elezione che li elegga portavoce del proprio tempo. Ed è molto bello che questo territorio sia il cinema.

Un cinema didattico, quello dei nobili intenti di cui antichi maestri italiani sono stati paladini: si pensi a Rossellini, naturalmente, ma anche il reportage-fiume di Luigi Comencini I bambini e noi, di cui alcuni spezzoni significativi e iconici sono sapientemente inseriti nel montaggio di Futura.

Questa è dunque la missione di Marcello, Munzi e Rohrwacher, un cinema didattico che non tenga la lezioncina pedante agli spettatori, ma che in qualche modo ne smuova la coscienza, ne amplifichi le vedute, insomma, non un cinema che finisca in parlamento e generi la redazione di nuovi DDL (che, comunque, non sarebbe male), ma un cinema che penetri nel quotidiano, e che aiuti a gettare uno sguardo nuovo su questo enorme, importante e variegato corpus della società: la gioventù.

Il film ha vissuto una lavorazione avventurosa (è proprio il caso di dirlo: come il nome della casa di produzione di Pietro Marcello). Iniziato nel febbraio del 2020 come un viaggio attraverso tutta la penisola (Marcello è un grande ammiratore di Guido Piovene e del suo Viaggio in Italia, chissà che la suggestione non venga da lì), alla ricerca di ragazze e ragazzi in ogni contesto urbano ed extra-urbano, ha poi avuto la battuta d’arresto della pandemia e dei vari lockdown. La diffusione del nuovo virus, senza diventare un fatto su cui speculare opportunisticamente e sul quale aggiustare la rotta del film, è una circostanza storica che, per tragica ed epocale che sia, non cambia il punto di vista sui giovani e sul loro futuro: le incertezze e le speranze delle allieve del corso per estetiste di Mariglianella in provincia di Napoli sarebbero state le stesse, comunque, e lo stesso vale per le matricole della Normale di Pisa; i ragazzi della campagna teramana vivono in un tempo che sembra sospeso (per quanto il film sia orizzontale, come lo ha definito Marcello nell’introduzione a una delle proiezioni di Cannes, la sensibilità dei registi emerge seppur discretamente dai rispettivi reportage: in questo caso, il discorso su una dimensione a-temporale, di un’epoca indefinibile, è una cifra che appartiene ad Alice Rohrwacher da sempre), viceversa hanno le idee molto chiare sul presente e su alcune sue deformazioni dovute ai social network i ragazzi della periferia romana intervistati da Francesco Munzi.

L’aspetto visivo, infine, merita una sottolineatura: le riprese rigorosamente in 16 millimetri (una tavolozza quasi ideologica alla quale Pietro Marcello, per fortuna, non rinuncia mai) conferiscono ai volti di questi ragazzi una statura iconica che col digitale difficilmente si sarebbe raggiunta, e i tre autori, tutti eccezionali ideatori di immagini per il cinema, non rinunciano mai alle sacrosante regole della composizione. Per questa felice commistione fra la cura estetica e la profondità di penetrazione dentro alla materia d’indagine, questo film sì, come auspica Pietro Marcello, può fare scuola.

Re Granchio: alla Quinzaine un film fra doc e visionarietà

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Il secondo dei film italiani della Quinzaine des Réalisateurs, Re Granchio, è l’esordio al film di finzione di due giovani e talentuosi registi, Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis, che avevano conquistato pubblico e critica nel 2015 con Il solengo, film documentario che aveva trionfato a DocLisboa, che con l’escamotage del racconto popolare tramandato oralmente dai vecchi della comunità raccontava l’esistenza misteriosa di un uomo di Vejano, un piccolo centro nella Tuscia laziale, che per sessant’anni aveva vissuto lontano da tutto e da tutti, rintanato in una grotta.

Con Re Granchio, film presentato a Cannes, i due registi, entrambi approdati ad altri lidi nel corso della loro vita (Alessio in Argentina, Matteo a Berlino) tornano nello paese del solengo e elevano all’ennesima potenza l’ambizione narrativa e il potere evocativo delle storie del focolare.

Ritroviamo personaggi – anzi, persone: gli anziani che si riuniscono a tavola davanti a un bicchiere di vino, leitmotiv di tutto il film, non sono attori – che avevamo già visto nel documentario, però questa volta ci viene raccontata una storia accaduta alla fine del XIX secolo, la storia di un reietto, Luciano,  che si oppone ai soprusi del principe del villaggio ed è amato teneramente da una giovane contadina, il cui matrimonio è assolutamente proibito dal padre padrone.

A causa di questa ribellione, Luciano viene messo all’indice, fino a subire addirittura un attentato, a essere dato per morto, ed è a questo punto che il film, perfettamente bipartito, prende la sua seconda strada, e si sposta nella Terra del Fuoco, in cui anche quella basilare forma di civilizzazione, per arcaica e feudale che fosse, del villaggio della Tuscia qui viene a mancare, c’è solo la montagna, la natura selvaggia dell’uomo e delle cose, dove è un granchio a guidare gli avventurieri.

La maturità registica di Rigo de Righi e Zoppis si manifesta soprattutto nella capacità di raccogliere influenze molteplici, metabolizzarle e piegarle a un linguaggio proprio. Come dovrebbe sempre essere, infatti.

La prima parte del film, quella che più porta alle estreme conseguenze il lavoro de Il solengo, sfocia in momenti che potrebbero far pensare al documentario antropologico, agli insuperati maestri italiani delle feste e della tradizione popolare portata al cinema De Seta e Di Gianni, ma Rigo de Righi e Zoppis, che già dispongono di una propria cifra stilistica per il racconto dal vero, travalicano la dimensione documentaristica e cristallizzano e sublimano le immagini della festa popolare in tableau vivants di chiara natura pittorica, debitrice sicuramente di un regista da loro amatissimo, e cioè Paradjanov.

Mentre nella seconda parte di Re Granchio, che sarebbe semplicistico bollare come western, nonostante una mano sicura nel gestire la tensione, il montaggio, il sonoro, il ritmo tipici del genere, le coordinate spazio-temporali vanno via via offuscandosi, confondendosi, fino a diventare irrilevanti, o nulle, e questo tipo di operazione visiva (e visionaria) è in comune con il Lisandro Alonso di Jauja, e non a caso troviamo il suo nome nei ringraziamenti.

Un’ultima sottolineatura meritano due scelte attoriali di Rigo de Righi e Zoppis: il protagonista Luciano è interpretato da Gabriele Silli, artista contemporaneo che pure sulla natura e sulla materia (proprio come in questo film) stabilisce il suo campo d’indagine, e poi il ruolo del principe che gode della geniale e ieratica performance di Enzo Cucchi, l’artista simbolo della Transavanguardia italiana.

Festival di Cannes: applausi per “A Chiara” di Carpignano

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Un’emozione forte, commovente, per noi spettatori e per la delegazione di A Chiara presente in sala al gran completo: applausi, grida di giubilo, sguardi che si incrociavano con il regista Jonas Carpignano, con gli attori-non attori del meraviglioso film di cui ancora scorrevano i titoli di coda, un rito collettivo che è tornato a rinnovarsi dopo quasi un anno e mezzo di disperazione, di uno smarrimento di cui non si riusciva a vedere la fine.

E invece è stata un tripudio la serata della Quinzaine des Réalisateurs, sotto la nuova direzione di Paolo Moretti, in cui è stato proiettato A Chiara, ultimo lavoro di Jonas Carpignano (che siamo orgogliosi di aver avuto come giurato dei Fabrique Awards nel 2018), portato eroicamente a termine dopo una lavorazione travagliata, interrotta più volte per cause dovute alla pandemia, destino che è toccato a tante altre produzioni italiane e internazionali che hanno voluto comunque spiegare le vele in un periodo di mare pericolosamente in tempesta.

Carpignano racconta ancora, irriducibilmente, Gioia Tauro.

A Chiara è il terzo capitolo di una trilogia che indaga tre grandi aspetti presenti in città: dopo l’immigrazione in Mediterranea (2015, visto a Cannes alla Semaine de la Critique) e la comunità rom di A Ciambra (2017, prima volta in Quinzaine), ora è la ’ndrangheta a essere oggetto di indagine narrativa.

Anzi, per meglio dire, la ’ndrangheta è un pretesto.

Ad aprire il film è la festa di compleanno della maggiore delle tre sorelle Guerrasio, Giulia. Il contesto giovanile è descritto con mano sicura, c’è un’analisi affidabile dei comportamenti, dei riti, delle piccole ossessioni di ragazzi e ragazze adolescenti di un importante e problematico centro urbano calabrese. Il giorno seguente, quando Claudio, il padre, parte improvvisamente, Chiara, la seconda delle tre figlie, vuole scoprire la ragione dietro quel gesto. E comincia a fare domande, a cui non ottiene risposta, finché non decide di mettersi da sola in cerca della verità. Sul padre, certo, ma soprattutto su se stessa.

A Chiara non è un gangster movie, ma il racconto tenero, addirittura con derive oniriche, avventurose, fiabesche, della crescita di un’adolescente nata in un contesto difficile. Il racconto di un rapporto perso, cercato, riconquistato di una figlia con il padre, la maturazione di una coscienza morale, il coraggio di disobbedire quando il prezzo è un bene superiore. A interpretare Chiara e la sua famiglia nel film sono la straordinaria Swamy Rotolo e le sue vere sorelle, il suo vero padre, la sua vera madre, che non hanno mai letto la sceneggiatura ma venivano informati giorno per giorno sulle scene da girare.

Il metodo-Carpignano ha quindi dato, ancora una volta, i suoi straordinari frutti. Anche lo stile che avevamo ammirato nei film precedenti è riproposto ma questa volta più libero, senza la preoccupazione di dover tener conto anche di esigenze documentaristiche: è un film di solido impianto drammaturgico e altrettanto solide sono le idee di regia che lo sostengono, i piani sequenza pieni di suspense, l’uso creativo e dinamico delle luci (fotografia, ancora in pellicola, di Tim Curtin), la creazione delle atmosfere (l’incontro nella nebbia fra padre e figlia è una sequenza memorabile), la già citata deriva onirica legata al bunker (i passaggi segreti sono un topos del film d’avventura), e qualche rimando simbolico affidato all’attività fisica di Chiara: al tapis roulant di prima scena, un nastro dove si corre, si suda, ci si sforza, ma non si va da nessuna parte, si oppone la pista di atletica dell’inquadratura finale, dove finalmente Chiara spicca il proprio volo. Un parallelo che ricorda il finale di un altro grande film visto a Cannes qualche anno fa, Loveless di Andrej Zviagintsev, dove pure il tapis roulant veniva utilizzato come metafora di un mondo che non riesce ad andare avanti.

La strada dei Samouni: tecnica e poetica in un dramma animato

Un progetto iniziato quasi dieci anni fa, con la regia del pluripremiato documentarista Stefano Savona e le animazioni di Simone Massi, disegnatore di fama internazionale, non poteva che lasciare il segno.

La strada dei Samouni, premiato allo scorso Cannes con il prestigioso Oeil d’Or come Miglior Documentario, parte da lontano. Era il 2009. Stefano Savona si recò a Gaza per tenere inizialmente un videoblog: ogni giorno avrebbe pubblicato un contributo filmato che raccontava le fasi di quel momento terribile e sanguinoso della storia recente che prende il nome di Piombo fuso. Titolo che Savona ha dato anche al lungometraggio che ha plasmato da quell’esperienza, con cui ha partecipato al Festival di Locarno di quello stesso anno nella sezione Cineasti del Presente, vincendo anche il Premio Speciale della Giuria.

«Quindici giorni dopo la fine dei bombardamenti ho incontrato, poco fuori Gaza, uno dei membri della famiglia Samouni», ci racconta Savona. I Samouni sono una famiglia di agricoltori, vivono fuori città, circondati dalla campagna che coltivano a lattuga e mandorle. La tragedia si era da poco consumata: un soldato israeliano, senza motivo, aveva sparato a uno dei capifamiglia, Ateya, padre della piccola Amal, protagonista del film, e poi un missile era stato lanciato sulla sua casa. Molti membri della famiglia sono rimasti sepolti dalle macerie, lo stesso si credeva di Amal, che però, miracolosamente, è stata portata in salvo.

Savona, che conosce bene luoghi e persone delle sue zone di interesse – è laureato in Archeologia e Antropologia, e i suoi studi si sono concentrati soprattutto sull’Egitto, la Turchia, Israele, dove ha partecipato a diversi scavi -, già pensava che la storia dei Samouni valesse la pena di essere raccontata, ed è allora tornato un anno dopo sul luogo dell’eccidio per raccogliere materiale ulteriore. «Nonostante il ritorno e le nuove riprese, mancava tutta la parte pre-attacco, la storia della famiglia e dei membri che erano morti. Grazie ad Amal e ai suoi disegni, ho pensato che quello che mancava potesse essere disegnato e animato».

la strada dei samouni

E nel film i tragici disegni di Amal aprono alla ricostruzione animata: insieme a sua cugina, la bambina è in grado di riproporre col disegno il momento della morte di suo padre con minuzia di particolari, ma il vero dramma, il dramma dei piccoli, è come disegnare l’albero di sicomoro che sta di fronte casa sua. Un’idea coraggiosa, quella di Savona, e dalle potenzialità straordinarie. Ed è qui che si immette sulla strada dei Samouni anche Simone Massi, per molti il più grande disegnatore della sua generazione in Italia. Capacità evocativa rara nel cinema (non solo d’animazione), tratto inconfondibile, stile “graffiato” (ci dice Savona), ideale per lo scopo del lm.

«Ci siamo conosciuti prima ai David di Donatello» racconta Massi «poi abbiamo legato ancora di più alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro. Stefano stava lavorando al suo nuovo progetto, è venuto a casa mia, me ne ha parlato e ho accettato subito. C’era già un primo montaggio, ed era relativo al dopo. Stefano aveva bisogno dell’animazione per ricostruire tutto quello che non aveva potuto filmare, ovvero le scene della famiglia Samouni, fino al raid israeliano. Si tratta di un film complesso che ci ha impegnato per svariati anni. In generale il mio lavoro si è concentrato sul disegno, sullo stile, talvolta sul numero degli oggetti presenti nell’inquadratura e sul rapporto luci e ombre. Sul montaggio non sono mai intervenuto perché non avevo e non potevo avere la visione d’insieme».

Terminato il montaggio degli inserti animati, arriva la succulenta sfida della ricostruzione sonora. Savona si è recato a Istanbul, insieme a due giovani assistenti, Alessandro Drudi e Virginia Nardelli, che stanno seguendo le sue orme: sono allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia a Palermo, la sede dove si studia il cinema della realtà. «Siamo stati a Istanbul due settimane, e lì abbiamo registrato le voci di decine di palestinesi e siriani emigrati in Turchia, ricercando la voce adatta per ogni personaggio della parte animata, prestando attenzione ai vari accenti».

Ancora Massi: «È stata un’esperienza straordinaria. Per la prima volta ho lavorato con una squadra di disegnatori, sotto la direzione di un altro autore. Al di là del successo di critica e del premio ricevuto al Festival di Cannes, La strada dei Samouni mi ha fatto conoscere
al di fuori del circuito in cui mi sono sempre mosso, quello legato ai festival di animazione e del cortometraggio. Ancor di più il film è lì a testimoniare che un lungometraggio animato con la mia tecnica e la mia poetica si può fare eccome».

la strada dei samouni

Così ha preso vita, quindi, questo film ibrido destinato ad avere molti epigoni. Inoltre, i film di Stefano Savona possono fare scuola almeno per due motivi. Il primo è che, a ben guardarli, sono un compendio di cosa vuol dire assumere la giusta distanza quando si filma un soggetto cogliendone in flagrante la quotidianità, le sofferenze, le gioie, i momenti di intimità riflessiva, ma sempre con grande rispetto, discrezione, umiltà: da questo punto di vista, come avevamo già riportato dalla Croisette subito dopo aver visto il film, è magistrale il momento in cui la madre di Amal, seconda moglie di Ateya, impasta il pane e racconta della perdita del marito, creando un corto circuito, un’alternanza di adesione e distacco dalla storia, rivolgendosi a chi la sta filmando e poi ritornando alle sue faccende e ai figli da accudire; ne viene fuori un quadro struggente, intenso, che fa risaltare l’enorme dignità di un essere umano anche quando si confronta con il ricordo di una tragedia.

Il secondo motivo è che Savona nei suoi documentari ha il coraggio di prendere posizione: come in Piombo fuso, come in Tahrir (film del 2011 che racconta un altro evento cruciale del Medio Oriente contemporaneo, e cioè l’insofferenza, la protesta e infine la rivolta del popolo egiziano contro il regime di Mubarak), anche ne La strada dei Samouni (qui il trailer ufficiale) il regista sceglie da che parte stare, ma senza proclami, solo con l’ausilio dello strumento cinematografico, solo col mostrare e senza il dimostrare. Esemplari, in tal senso, sono due momenti: il beffardo murales disegnato da un soldato israeliano sul muro della casa di Ateya, con una lapide su cui è scritto Arabs 1948- 2009 e il commento ingenuo di uno dei fratelli di Amal – «certo che non sono mica normali» – e la frase «perché dobbiamo soffrire tanto, noi che siamo nati qui?» pronunciata da Faraj, un altro dei gli di Ateya. Un quesito tragico che come risposta contempla solo un rispettoso silenzio.

Dogman: uomini e bestie

È da diciassette anni che l’Italia non vince la Palma d’Oro a Cannes. Ed è da dieci anni che non è così competitiva per ambire alla vittoria del prestigioso premio cinematografico, cioè da quel 2008 in cui Gomorra di Matteo Garrone e Il divo di Paolo Sorrentino si aggiudicavano rispettivamente il Grand Prix e il Premio della Giuria, consacrando definitivamente due maestri del nostro cinema contemporaneo.

Quest’anno, in concorso, dopo la commozione dell’ultimo idilliaco film di Alice Rohrwacher Lazzaro felice, ecco alla ribalta anche Garrone, con un nuovo lavoro che segna un ritorno agli elementi che gli sono cari e che ha padroneggiato con enorme estro creativo nell’arco della sua carriera, dopo l’incursione in un cinema “diverso” quale fu Il racconto dei racconti: in Dogman il regista romano torna a occuparsi di periferia, di atmosfere e contesti e personaggi borderline, di trasfigurazione della realtà che rompe gli argini del comodo realismo d’osservazione, torna ai fatti di cronaca che però con estrema libertà creativa (diciamo pure “d’autore”) maneggia a piacimento per affermare un suo sguardo sul mondo e (soprattutto) sugli uomini.

dogman di matteo garroneLa storia di Marcello (lo interpreta Marcello Fonte, che ha il volto e la parlata dei sublimi attori non professionisti di stampo neorealista), il piccolo e indifeso tolettatore di cani amato da tutto il quartiere e però anche considerato alla stregua di una mascotte dagli amici di sempre (il gestore della sala slot, il proprietario del compro oro), è ispirata, com’è noto, alla vicenda di Pietro de Negri, passato alla storia col nome di “canaro della Magliana”, macchiatosi dell’efferato omicidio del pugile dilettante Giancarlo Ricci – nel film interpretato magistralmente da Edoardo Pesce – e poi accanitosi con inedita e irripetibile efferatezza sul suo cadavere.

E già a questo punto le accuse eventuali di giustificazione e assoluzione dell’assassino de Negri possono essere rispedite al mittente, visto che Garrone con pudore rifugge dalla riproposizione pedissequa delle dinamiche per interessarsi ad altro, a qualcosa che ha rinvenuto fra le pieghe della vicenda di cronaca nera, che ha a che fare con l’uomo piuttosto che con il mostro. Come fu, dopo tutto, anche per L’imbalsamatore, pure ispirato a fatti reali e di cui Dogman sembra il controcampo più prossimo.

Dogman, nonostante questo, è davvero il film più cruento di Garrone: lo è anche più di Gomorra, che pur mostrava momenti ben noti di violenza, non permettendo mai, però, al racconto della faida di Secondigliano di sovrapporsi all’interesse per gli uomini vittima di quel sistema. “Il mio augurio è che i miei film possano emozionare e colpire il pubblico”: così disse Garrone in una intervista di dieci anni fa riferita proprio a Gomorra. E Dogman risponde con estrema coerenza a questo proposito.

dogman di matteo garrone

Garrone ambienta Dogman in una periferia che potrebbe essere tutte le periferie, è riuscito a concepire insieme al suo scenografo Dimitri Capuani una location fatta di sabbia e di costruzioni incompiute, dove degrado e dissoluzione convivono,  e poi con il nuovo direttore della fotografia Nicolaj Brüel ha studiato una trasposizione per immagini fatta di toni lividi, scegliendo non a caso di fare in modo che in cielo non splendesse mai il sole, anzi accentuando le ombre, sottoesponendo (non solo fotograficamente) i suoi personaggi.

Pure splende, comunque, il sole, nella vita di Marcello: fra le varie zone d’ombra della sua vita (la cocaina, l’amicizia con il crudele Giancarlo, la frequentazione coi pusher), c’è la piccola figlia Alida, a cui regala esplorazioni nei fondali marini e con cui sogna di andare alle Maldive. Nulla è casuale nell’impianto di Garrone, per quanto sia ben noto come i suoi film vengano costruiti per gran parte sul set, con il giusto grado di preparazione ma con una sostanziosa (e sostanziale) dose di apertura all’imprevisto e alla spontaneità: Marcello è felice solo sott’acqua, è un anfibio che quando riemerge si rattrista, e solo la figlia può accorgersi di una sfumatura del genere.

In un mondo che il regista è bravo a proporre come irrimediabilmente animalesco e bestiale, alla fine è grazie alla furbizia, è grazie all’intuito che Marcello riesce ad avere la sua rivincita/vendetta: “Ho un piano” pronuncia, fatidicamente, a un certo punto. E alla fine questo piccolo Davide raggrinzito, perseguitato, umiliato, riafferma la propria identità, e vince contro Golia.