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Doralice Pezzola

Illoco, il teatro dei sogni nel palazzo occupato

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Vitale, concreto, coraggioso, Illoco Teatro è un atto politico di fantasia, una ribellione inesausta all’appiattimento delle narrazioni. Artisti, attori, insegnanti, guerriglieri dello spazio teatrale e sociale. È riduttivo costringere nelle definizioni la compagnia fondata nel 2011 da Annarita Colucci – direttrice artistica – e Roberto Andolfi – regista.

Dove vi siete incontrati?

A: Ci siamo incontrati all’Accademia internazionale di teatro di Roma – ex Circo a Vapore – che ci ha dato una formazione spiccatamente legata a Jacques Lecoq, contrapposta alla pedagogia dell’attore “esecutore” e orientata a formare artisti. Siamo attori fisici, corporei, gestuali. Nel teatro, dice Guido Di Palma, devi sapere «a chi sei figlio», anche se poi ci fai a pugni, lo rinneghi, vai a cercare un’altra casa, devi sapere da dove vieni.

R: Ad esempio io so che questa modalità di lavoro onnivora, dolorosa fino a perdere le forze, è figlia della direttrice e insegnante Silvia Marcotullio.

Siete scomodi nelle etichette del teatro “per bambini” o “per adulti”.

A: Sì. Cosa vuol dire teatro “per bambini”, “per ragazzi”, 3-6 anni, 9-12…? Il ritmo di una narrazione è universale. A qualunque età si può entrare, sedersi e prendere qualcosa. Cerchiamo di porci nella condizione dello spettatore; non tanto “capirà?”, ma “stiamo raccontando qualcosa?”.

R: Questo è Lecoq: uno sguardo opposto che ti spinge a chiederti: quello che sto facendo comunica al pubblico, oltre che a me stesso? Il problema è che gli adulti pensano che un bambino non debba affrontare “temi delicati”, che non possa ascolta la Primavera di Vivaldi perché è troppo complessa, e il risultato è che i bambini si ritrovano a vedere spettacoli con un attore con una maschera di spugna in testa e una brutta musica da pianola…

Illoco Umani
“Umani” (ph: Sabrina Dattrino).

In U-mani costruite un dispositivo fra cinema e teatro.

R: Siamo partiti dalla storia di un bambino a cui si rompe la televisione – era nata questa suggestione durante il lockdown – e con una telecamera analogica e un proiettore rotto abbiamo iniziato a giocare al cinema, prendendo inizialmente una marea di cantonate! Ci sono una serie di piccoli set sul palco, nei quali i piccoli personaggi – la protagonista è, letteralmente, una mano – vengono micromanipolati dagli attori che si muovono sul palco. Tutto avviene live, io monto quello che girano tre camere in diretta durante lo spettacolo, cercando di costruire il flusso di un film proiettato sullo schermo. Nell’inquadratura a volte si vedono le braccia e le facce degli attori, ma non è un errore; serve a riportare lo spettatore lì, insieme agli attori, a partecipare a qualcosa che sta avvenendo in quel momento.

Il tema della “perdita” ricorre in tutti i vostri lavori.

A: È il tema che ci accompagna per tutta la vita: perché perdiamo qualcuno, perché perdiamo dei luoghi, perché perdiamo delle abitudini, quella parte di noi non esiste più. Anche la crescita è in qualche modo la morte di una parte di noi stessi.

R: È centrale in Catch Me, che è uno spettacolo scritto a partire da dei nastri ritrovati, in cui una persona aveva registrato i propri sogni. Da questi sogni è evidente che aveva perso il padre da bambino e, mentre li ascoltavamo, questa perdita del padre ha acquisito per noi il valore di una perdita delle regole e delle certezze in cui ci siamo riconosciuti.

Dove avete trovato i nastri con i sogni registrati?

R: È una bella storia! Per la scenografia di Lumen, Anna aveva trovato un baule da un rigattiere, che ci ha detto di portarlo via con tutto quello che c’era dentro. E dentro c’era un mucchio di roba, tra cui una serie di nastri, su cui erano registrati 106 sogni. Io sono completamente impazzito. Volevo metterne in scena 7, legandoli a degli oggetti. Sembrava un’idea molto chiara, ma più lavoravamo su quel materiale, più gli attori ci entravano in contatto, e più andava sfumando. Perché mi accorgevo che di Ennio, l’uomo che ha registrato questi sogni, non sapevamo nulla. Ma scoprivamo anche che i sogni sono l’universalità per eccellenza. Ad esempio, in un sogno lui cerca di parlare in italiano, ma parla in tedesco e il padre non lo capisce: tutti si possono riconoscere in questo, cioè nell’impossibilità di comunicare coi propri genitori. Quello che è successo è che ciascuno degli attori ha cominciato a costruire il proprio Ennio. E litigavano fra loro! Ennio non è così, è cosà, ha amato solo lei, non è vero… infine, è venuto fuori uno spettacolo che parla di quattro Enni diversi, che servono soprattutto a loro stessi per dialogare, per assolversi, per capirsi, per perdonarsi.

A: Lo spettacolo stesso è, in parte, un racconto di ciò che è stato il processo. Parte del testo è infatti una messa in scrittura di quello che veramente accadeva alle prove, in cui ci attaccavamo, difendevamo il nostro Ennio, poi alla fine eravamo d’accordo, ci emozionavamo, ci proteggevamo…

Illoco
“Lumen” (ph: Antonio Palmieri).

Avete rigenerato una sala nello spazio sociale Spin Time Labs a Roma.

A: Siamo arrivati a Spin Time nel 2017, cercavamo uno spazio per provare. È iniziato un dialogo con le realtà del palazzo e piano piano è diventata la nostra casa. Dopo un anno abbiamo chiesto se c’era un piccolo spazio di cui ci potevamo prendere cura, e ci hanno portato al piano meno due; da lì è nato lo spazio Almenodue, un vecchio garage che abbiamo rigenerato affittando la sala per le prove alle compagnie e reinvestendo gli incassi per cambiare il pavimento, ritinteggiare, fare lavori strutturali, murari, mettere le porte, eccetera. Poi insieme al collettivo Spin OFF e all’Orchestra Notturna Clandestina abbiamo trasformato la vecchia sala convegni in auditorium e abbiamo messo in piedi una stagione teatrale – con nomi come Cosentino, Sinisi, Musella, completamente volontari – nel frattempo il giornale Scomodo ha rigenerato un’area molto grossa, e ora la nostra sala è circondata da un bar, una sala studio, una biblioteca, e il piano meno due è diventato un luogo culturale.

Qual è la cosa più importante che insegnate ai vostri allievi?

A: Lo studio teatrale è allenamento, è un’attitudine al fallimento che è propria del teatro. Spesso i più giovani vivono il fallimento come un rifiuto: “Questa cosa io non la so fare”. E invece andare a fondo e scoprire che quella cosa la sai fare, e magari meglio di come te la sto insegnando, è solo una questione di starci, in quella cosa.

R: È qualcosa di non razionale. È coordinazione e ritmo. Per questo all’inizio ci si scontra così tanto con i propri limiti. Gli allievi arrivano e non sanno recitare. Dopo dieci giorni di lavoro, sono consapevoli di non saper recitare. A quel punto stanno peggio – è successo anche a noi – ma una volta che qualcuno ti mette di fronte agli errori che fai, hai la possibilità di fare un salto. Però devi smettere di chiederti: l’ho fatto bene o l’ho fatto male? Quello che conta è se quello che stai facendo traduce sul palco quello che davvero vuoi fare.

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Liv Ferracchiati: dal teatro al romanzo, storie di trasformazioni

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Fra i più notevoli giovani talenti registici contemporanei, Premio Hystrio Scritture di Scena e Premio Scenario 2017, nel 2020 Liv Ferracchiati ha ricevuto una Menzione speciale alla Biennale di Venezia con un ringraziamento per aver «gettato nuova luce su ciò che dobbiamo fare per vivere una vita significativa, come dobbiamo relazionarci con il mondo, come dobbiamo agire».  Classe 1985, l’artista umbro ha già alle spalle una significativa carriera di sperimentazione dinamica fra le forme della scena, tutte legate da un’urgenza essenziale: un principio assoluto di presenza, una determinazione alla trasformazione, la lotta per uno stato di grazia sul palcoscenico come nella vita.

Qual è il tuo primo ricordo legato al teatro?

A 8 anni i miei mi portarono a vedere un adattamento da  un romanzo di Dostoevskij. Dopo quella volta, trovando gli spettacoli che mi portavano a vedere noiosissimi, finsi di avere la febbre. Era quel tipo di teatro museale che spesso si pensa adatto agli abbonati, ma quando ero abbonato io non mi piaceva. Il pubblico è un insieme di persone intelligenti. Poi vidi Ascanio Celestini in La pecora nera. Fu uno spartiacque: il modo in cui dal foyer saliva sul palco, il fatto che si sedesse e lo spettacolo iniziasse così, senza troppi orpelli, e che parlasse come fino a un minuto prima parlava con le persone in platea, mi fece pensare che esisteva un’altra possibilità di fare teatro.

Liv FerracchiatiCosa è rimasto nel tuo teatro di queste prime impressioni?

La ricerca del rapporto diretto con il pubblico: quando lo spettacolo riesce a innescarsi si stabilisce quasi una presa erotica sullo spettatore, non in senso sessuale ma nel senso che sfiora i sensi, sposta nel corpo, smuove fisicamente le persone. È facile accorgersi di quando non scatta, basta contare i telefoni in platea: ogni volta che uno spettatore guarda un cellulare un regista muore, un attore sviene, un produttore ha un malore. Ma quando c’è dialettica, succede qualcosa. Dovrebbe essere sempre così il teatro, altrimenti non è teatro.

Nei tuoi lavori non si punta il faro sul transgenderismo, è un elemento integrato nella drammaturgia. Un approccio avanti anni luce alla nostra società, magari uno scorcio di futuro possibile.

Ho notato, ad esempio, che le nuove generazioni di attori e drammaturghi che partecipano ai miei laboratori sono più consapevoli. È un tema che ci coinvolge perché tutti costruiamo la nostra identità di genere – maschile o femminile o non binaria – aderendo, o rifiutando, un modello culturale. Il discorso del genere è complesso, anche se più vado avanti e più faccio fatica a capire cosa significhino maschile e femminile di preciso.

È appena uscito il tuo romanzo, Sarà solo la fine del mondo (Marsilio), sulla storia di un personaggio transgender, dal concepimento alla morte.

Inizialmente mi dicevo: si capirà che non è un’autobiografia? In fondo quanti autori cisgender scrivono di personaggi cisgender ma non si tratta di autobiografie? Che poi anche se si volesse scrivere una biografia vera e propria ci si riuscirebbe? Io e Greta Cappelletti a distanza di anni ancora litighiamo sulle battute di Peter Pan guarda sotto le gonne; a volte io dico: questo è un mio ricordo! E lei: ma no, è mio! Probabilmente alla fine è un ricordo costruito insieme, non è vero niente. La percezione modifica ciò che è accaduto realmente, la memoria con le sue lacune fa il resto, quindi, di fatto inventi. E se quello che scrivi è organico per te e per gli altri, a volte diventa più forte di ciò che è vero. Anche nella narrativa, per me è importante che la scrittura sia performativa.

Con la tua compagnia The Baby Walk hai portato in scena una Trilogia sull’identità.

Sono tre spettacoli dai linguaggi completamente diversi. Il primo capitolo, appunto Peter Pan guarda sotto le gonne, è un lavoro a scavare: poche parole, linguaggio molto semplice e realistico. Si racconta di bambini. Sono andato proprio al parco ad ascoltare i dialoghi dei ragazzini: scarni, semplici, spesso diretti. E c’è la danza: Peter Pan è interpretato da Alice Raffaelli, una danzatrice oltre che un’attrice, che ha una cognizione scenica assoluta – una potenza. Al contrario Stabat Mater è uno spettacolo di prosa, si usano tante parole, il protagonista parla tanto perché performa la propria identità attraverso la parola. È una storia con al centro un corpo femminile che si esprime al maschile e sul diventare adulti: il tema principale è l’incapacità di tagliare il cordone ombelicale con la madre, una simbiosi che molti creano con i propri genitori anche senza essere transgender.

In Un eschimese in Amazzonia, ti esponi tu stesso sul palco.

È il terzo capitolo della Trilogia, quello più performativo. Io sono in scena insieme a un coro, ho un microfono con asta come nella stand-up comedy e improvviso praticamente tutto. Ci premeva raccontare la difficoltà di una persona transgender nella relazione con la società: dover spiegare ogni volta agli altri chi sei, scegliere di dire, o non dire, e cosa; non c’è un prontuario da seguire, quindi ti trovi a improvvisare, come avviene in questo spettacolo. Inizialmente non avevo nessun coraggio di espormi, ma poi ho capito che sul palco a parlare con il pubblico doveva esserci l’autore. E restare lì, nell’azione, in quella zona grigia in cui scatta qualcosa fra il teatro e la realtà, anche quando quello che sta accadendo non è esteticamente canonico, anche se è sbilenco.

Liv Ferracchiati
Liv Ferracchiati in “Un eschimese in Amazzonia” (ph: Andrea Macchia).

La tragedia è finita, Platonov ha vinto una Menzione speciale alla Biennale Teatro 2020.

Platonov è uno dei rari testi che ho pensato di mettere in scena. Ho iniziato a studiare e raccogliere materiale dal 2013. In scena c’è questo Lettore che legge e rilegge l’opera di Čechov e a un certo punto interagisce con i personaggi. Volevo indagare come un’opera d’arte influisca davvero nella vita di chi ne fruisce, come qualcosa di profondo ti agganci, ti sposti, crei in te una trasformazione interiore e come esci da quell’esperienza, se sei cambiato. Platonov ha avuto quest’effetto su di me, il mio obiettivo era provare a riprodurlo.

Quali sono gli autori di riferimento di Liv Ferracchiati?

Mi appassiona particolarmente la letteratura russa: Turgenev, Lermontov, Dostoevskij. Per quanto riguarda il cinema sono cresciuto con Woody Allen e Nanni Moretti, che ora sento più distanti ma hanno contribuito molto alla mia visione ironica della vita, poi Truffaut, Cassavetes, Kaurismäki. Con le serie ho un problema, non riesco a vedere neanche la prima puntata: sono schiacciato dalle aspettative che quelle 8, 9, 10 stagioni hanno su di me. Mi sono appassionato soltanto a Trotsky, anche se forse l’abbiamo vista solo io e la madre dell’attore che fa Trotsky.

A cosa ci serve il teatro nel 2021?

A teatro, c’è un’energia tra chi fa lo spettacolo e chi lo riceve. Può sgretolarsi e cadere tra la prima fila e il palco, oppure invadere la platea, e poi tornare indietro e investire gli attori, che la riflettono a loro volta… questa dialettica tra attore e spettatore, che è il quid del teatro, secondo me nel 2021 dovrebbe servire a scuotere le persone e portarle a essere attive. Nel Platonov, Čechov si chiede: «perché non viviamo come avremmo potuto?». La potenza dionisiaca del teatro serve a questo: infondere vitalità, portare le persone a vivere come, invece, potrebbero.

 

 

Giovanni Ortoleva: “Se il teatro morisse davvero sarebbe un problema serio”

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«L’idea che la cultura non è una parte integrante del nostro Paese, e che con la cultura non si mangia, ci è entrata in testa, ci ha colonizzato». Così Giovanni Ortoleva, regista fiorentino neanche trentenne, già premiato come «promessa» nel 2018 con una menzione speciale alla Biennale College, ha presentato il suo nuovo lavoro alla Biennale Teatro 2020. Estremamente lucido, stratificato, dinamico, il teatro di Ortoleva rifiuta di romanzare il mondo. Piuttosto, invita tutti noi a ricominciare «a parlare. Non individualmente, cercando di farci le scarpe a vicenda, ma insieme, come gruppo, perché in teatro da soli non si può fare niente».

Come hai incontrato il teatro?

Al liceo andai a vedere un amico che faceva Mercuzio in Romeo e Giulietta, e in scena morì urlando come un pazzo, mi si ficcò in testa. Il resto dello spettacolo era un incubo, uno Shakespeare fatto in una parrocchia, ma lui ci sconvolse tutti, ci fece venire la pelle d’oca. Né io né i miei compagni riuscivamo a credere a quanto era stata intensa quell’interpretazione di un nostro amico che vedevamo tutti i giorni, e questa cosa mi colpì profondamente: la possibilità di diventare un’altra persona sul palco, di arrivare a qualcosa che poteva scuotere un’intera platea, mostrare qualcosa che nessuno si sarebbe mai aspettato. In quel momento ho sentito un profondo fascino. Per anni ho cercato di capire, e credo che sia nato lì il mio desiderio di avvicinarmi al teatro.

Sei reduce da un debutto alla Biennale Teatro 2020. Come sei arrivato fin qui?

Dopo il liceo avevo chiaro che dovevo andarmene, quindi mi iscrissi all’università a Trento per studiare psicologia cognitiva. La fuga è sempre stata una cosa in cui sono un campione: non sappiamo quello che vogliamo ma dove non vogliamo stare lo sappiamo bene. Sono fuggito anche da Trento, nel 2013. Avevo ventun anni, scappai a Roma per seguire due laboratori, uno con Fiorenza Menni e uno con Antonio Latella al Valle occupato. Fu un’esperienza molto intensa, ero il più piccolo, dormivo lì, e capii che era ciò che volevo fare. Nel 2014 sono entrato alla Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi. I miei genitori si sono ripresi da questa decisione forse l’anno scorso, quando mi hanno preso in Biennale.

Il tuo primo lavoro, Oh little man, è un monologo sul capitalismo e sulla scomparsa del tessuto sociale.

Sì. È un lavoro del 2018 con Edoardo Sorgente. È la storia di un broker finanziario che mentre è in nave ha un’illuminazione: deve vendere tutto prima che sia troppo tardi, perché sta per esplodere una bolla finanziaria. Solo che non riesce a mettersi in comunicazione con la terra. Quindi passa questi 45 minuti di spettacolo a impazzire. Alla fine la nave affonda, e il pubblico deve decidere se salvarlo o no, dandogli o non dandogli un salvagente.

E il pubblico cosa decide di solito? Lo salva o no?

Lo salva sempre. E poi se ne pente. Si rende conto di aver salvato un individuo terribile. Volevo indagare i meccanismi di empatia, e ho scoperto che anche se nella vita, forse, le persone si comporterebbero diversamente, in un contesto come il teatro sono portate a fare “il bel gesto”. È difficile per una comunità intera chiudersi, dire di no. Ed è interessante quello che succede dopo, quando la voce dice: «complimenti, avete salvato un capitalista», e le televisioni in scena mostrano immagini di disastri ambientali. Gli spettatori si arrabbiano, si sentono presi in giro. Ma nessuno riesce mai a tenere una linea dura di fronte a un personaggio che ha dichiarato esplicitamente di essere pronto a passare sopra qualsiasi cosa per il proprio profitto.

Giovanni Ortoleva I rifiuti, la citta e la morte
Un altro momento dello spettacolo di Giovanni Ortoleva “I rifiuti, la citta e la morte”.

Per la Biennale hai messo in scena un testo di Fassbinder.

Rainer Werner Fassbinder è stato un mio riferimento culturale per anni, e questa è stata l’occasione di incontrarlo. I rifiuti, la città e la morte è un testo del 1975 che scrisse quando aveva la mia età, durante un viaggio in aereo. Parla di una giovane prostituta che si chiama Roma, del suo rapporto con Dio e della sua incapacità di vivere tra gli uomini. È un testo sull’antisemitismo che usa gli stereotipi dell’antisemitismo, e per questo è stato a lungo scambiato per un testo antisemita e censurato. Portandolo in scena mi sono accorto che anche adesso la critica continua a osteggiarlo. Io credo, al contrario, che sia il più bel testo di Fassbinder. Un autore utopico nel profondo – il desiderio di un mondo dove non ci si sfrutta era dietro ogni sua opera – ma allo stesso tempo capace di scendere a patti con ciò che aveva intorno.

I tuoi ultimi due spettacoli, Saul e I rifiuti, la città e la morte, raccontano storie di devozione.

Mi interessa il rapporto con ciò che è “più alto”. Il Saul, che con Riccardo Favaro abbiamo tratto liberamente dall’Antico Testamento e da André Gide, è la storia di un Re che viene abbandonato da Dio. Allo stesso modo, I rifiuti, la città e la morte di Fassbinder è la storia di una ragazza che si sente abbandonata da Dio. Crede, crede, crede, ma un certo punto si chiede: «Dio, perché ci fai questo?». Sono ateo, ma ho un grande rispetto per alcuni aspetti della tradizione cristiana. L’umanità, la collettività, per me, è l’alto. Immaginare qualcosa di più alto ci aiuta a vivere con gli altri, perché di fronte all’alto siamo tutti degli zeri. E allora possiamo fare qualcosa insieme.

Cos’è il teatro?

È un comportamento verso cui tendiamo, è un’abitudine, è come correre o nuotare. Diciamo tanto che il teatro è morto, ma se morisse davvero sarebbe un problema serio. Io credo che il teatro sia inevitabile per noi. Quindi cerchiamo di farlo sopravvivere, nonostante chi lo vuole far morire dall’interno, cioè chi continua a farlo senza crederci più. È quello il vero problema, non il pubblico diffidente, che si convince se gli fai vedere qualcosa di onesto, senza strizzargli l’occhio, affondando direttamente nella materia, evitando la “nebbiolina” del contemporaneo. Il teatro è un’azione indiretta sul mondo. Non credo che possa “cambiarlo”, ma credo che possa modificare la percezione e la sensibilità delle persone. A Berlino c’è un parco con un orto di cui ognuno può coltivare una parte. Condividerlo fra cittadini è un atto pubblico di responsabilità che chiede, insegna e pretende dalle persone di rispettare il lavoro altrui, qualcosa di molto più utopico di un “bello spettacolo”. Ecco, se mai riuscirò a fare qualcosa di simile con il mio lavoro, a creare un senso di rispetto, di amore per l’altro come fa quell’orto in un parco di Berlino, sarò molto felice.

Chiara Bersani, protagonista alla Biennale Danza

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Premio Ubu 2018, Chiara Bersani è una giovane regista, coreografa, performer e attrice piacentina dal talento indiscusso. È tra i protagonisti della Biennale Danza, in laguna da oggi fino al 25 ottobre, dove porterà il suo spettacolo Gentle Unicorn. Le idee di Chiara Bersani sul rapporto fra corpo e sguardo, i rischi dell'”abilismo” e il valore della provincia sono da annotare e andare a rileggersi ogni tanto.

Quando hai incontrato il teatro?

Come spettatrice, da bambina. Il teatro c’è sempre stato. A dirla tutta, al liceo avrei voluto seguire il laboratorio di giornalismo, ma non potevo: era nei giorni in cui dovevo fare fisioterapia. Allora mi sono iscritta al laboratorio teatrale. Quindi si può dire che ci sia stato un pizzico di casualità! A ogni modo, vivendo in un momento storico in cui non era contemplata per una persona disabile la possibilità di diventare attrice, tenevo questo mio desiderio a una certa distanza. È stato solo quando a Parma ho incontrato la realtà creativa di Lenz Rifrazioni che ho iniziato a considerarlo un lavoro possibile. Poi ho conosciuto Alessandro Sciarroni e abbiamo fondato Corpoceleste. Da lì è stato un andare per tentativi, intessere rapporti, cercare maestri – Alessio Maria Romano, Rodrigo García, Jerome Bel… – e pian piano qualcuno ha iniziato ad ascoltarmi quando dicevo che c’era un problema se un artista disabile non riusciva a lavorare in Italia.

Come hai capito che volevi essere un’autrice, oltre che una performer?

Al debutto del mio lavoro come attrice vennero scritte da giornalisti, su testate nazionali, recensioni molto positive, ma in cui l’accenno delle mie competenze veniva sempre dopo un’importante descrizione del mio corpo. Ed erano descrizioni… forse dovrei dire involontariamente violente, ma direi più incoscientemente violente, perché una persona che di lavoro scrive non può non sapere che «corpo deforme» è un’espressione molto forte. Fu un colpo violentissimo per me, perché io ero pronta a un pubblico che magari avrebbe reagito al mio corpo in un certo modo, ma a un professionista che non avrebbe saputo leggere il mio corpo, no. Questa pratica di sottolineare la stranezza del mio corpo è andata avanti per anni, fino al punto che per me è diventata molto difficile da sostenere, o meglio, è diventato difficile accettare che non si parlasse della questione. E quindi ho iniziato a macinare nella testa l’idea di diventare autrice.

Nel lavoro Gentle Unicorn è molto forte il rapporto tra il tuo corpo in scena e lo sguardo degli spettatori.

È uno spettacolo che si concentra proprio sulla tematica corpo-sguardo, cerca di farla esplodere. Desideravo che fosse veramente il rito di una comunità, di un gruppo di persone in una stanza che si incontra. E ovviamente nessuno se ne può chiamare fuori, perché siamo a teatro, dove anche se va in scena il più classico degli spettacoli di tutto l’universo, lo spettatore dell’ultima fila che tossisce influenza il lavoro: non è come al cinema, non sei mai fuori. Sei sempre dentro.

L’incontro è un concetto chiave della tua poetica.

Sì. Partendo dalle letture fatte sul mio corpo, rendendomi conto che in realtà vengono fatte letture su tutti i corpi, ho messo a fuoco il fatto che non ci prendiamo il tempo per guardarci e andare oltre il primo impatto. Non me la sento di mettere sotto inchiesta il pregiudizio, che è un meccanismo umano, animale, di difesa. Ma sento invece il bisogno di mettere in discussione il tempo che non ci prendiamo per verificare poi quel pregiudizio, che solo un incontro dai tempi “altri” può mettere in crisi. In Goodnight, peeping Tom, ad esempio, io e gli altri tre performer – Marco Agostin, Matteo Ramponi, Marta Ciappina – siamo in scena per quattro ore, e i fruitori possono entrare cinque alla volta, per 55 minuti massimo, durante i quali sono chiamati a scegliere se passare del tempo da soli con uno di noi, e con chi. Tutto quello che accade lì dentro è un dialogo senza parole, è una continua scelta reciproca. La responsabilità del pubblico sta nello scegliere quanto osare durante quei 55 minuti.

chiara bersani in gentle unicorn
Chiara Bersani in “Gentle Unicorn”

Il tuo ultimo lavoro, Il canto delle balene, è ispirato al whale watching.

Avevo l’idea di lavorare su una vicinanza che non necessita della prossimità. Sono partita dallo spirito di comunità delle balene, che possono comunicare a tantissimi chilometri di distanza attraverso un canto emesso dalla calotta cranica. Nello spazio scenico ci sono infatti moltissime sedie dove le persone possono sedersi, scegliendo il proprio punto di vista, e il performer (Matteo Ramponi) fa parte del pubblico. Ciascuno spettatore è invitato a vivere lo spettacolo “in solitudine”, a cercarsi uno spazio proprio, non di gruppo. Fa un po’ sorridere pensare che abbia debuttato a marzo, l’ultimo giorno prima del lockdown, perché ha l’aria di un distanziamento sociale ante litteram.

Perché hai scelto il teatro?

Io vengo dalla provincia, e ora, quando ci torno per presentare un lavoro, so che lì troverò le reazioni che mi emozionano. Sono quelle che negli anni mi hanno permesso di lavorare sui progetti, magari fatto cambiare rotta. Raramente in una grande città o in un festival internazionale ho avuto una rivelazione su quello che stavo facendo. Dalle date in provincia invece sì! Quindi: perché ho scelto il teatro? Credo, infine, veramente per il rapporto esclusivo che può avere con la provincia.

Il tuo lavoro sui corpi ha un forte significato politico. Non a caso in passato hai parlato dei rischi dell’“abilismo”…

Senza andare sul melodramma, a quanti è capitato di rompersi una gamba e rimanere a casa tre mesi? Iniziare ad avere difficoltà con il lavoro, o perderlo proprio, rimanere senza sovvenzioni, incontrare insomma una serie di difficoltà: in quel momento, quelle persone si stanno scontrando col pensiero abilista, che è un modo di pensare basato sul presupposto che tutto funzioni sulla falsa riga dei corpi abili, da un punto di vista atletico, ma anche cognitivo, psicologico, neurologico, sensoriale, emotivo, relazionale. È un pensiero che esclude la fragilità del corpo. Ma l’essere umano è fragile. Ogni animale è fragile. L’umano è un animale fortemente sociale e comunitario, per il quale l’accudimento, l’integrazione e la vita condivisa sono fondamentali. Poi, non per tirare acqua al mio mulino, ma io sono profondamente convinta che le persone disabili siano fondamentali per la società: meno una società è eterogenea, e meno è felice. Le persone disabili, come tutte le minoranze che hanno possibilità di prendere voce, aprono altri immaginari, altri mondi possibili.

 

Fabio Condemi: il teatro è un sassolino

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Fabio Condemi, da Pasolini a De Sade

Giovanissimo e straordinariamente colto, persona dalla mitezza inconsueta e insieme autorevole, il regista Fabio Condemi si è segnalato al panorama nazionale nel 2017 con una menzione speciale alla Biennale di Venezia. La sua profondità di sguardo si misura spesso con testi e autori dalla letteratura, da Walser (con il premiato Jakob Von Gunten), a Joyce, a Pasolini e De Sade (La filosofia nel boudoir).

Come ti sei avvicinato al teatro?

Ho iniziato a Roma studiando Lettere, poi al Teatro Stabile di Genova per un anno, come attore. Mentre ero lì feci il provino come regista per l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico: decisi di portare l’unico testo teatrale di James Joyce, Esuli, un omaggio a Ibsen. In Accademia ho fatto incontri importanti: Lorenzo Salveti, allora direttore, Manetti, Cirillo, Paolo Terni che era un grandissimo musicologo. Infine Giorgio Barberio Corsetti, per me un’autentica rivoluzione: ci propose di lavorare liberamente sui testi di Pasolini. Lo ammirai molto per la grande libertà che ci dava. Dopo l’Accademia chiesi di fargli da assistente, e da lì è cominciato un altro percorso importante, dal 2015 ho seguito molte opere liriche con lui.

Il tuo primo spettacolo è stato un testo di Pasolini.

Sì: Bestia da stile, un’autobiografia poetica traslata nella Repubblica Ceca, un diario pieno di appunti e riferimenti culturali scritti nell’arco di dieci anni. Insomma un testo quasi impossibile da mettere in scena e fu proprio la ricerca di un linguaggio per rappresentarlo ad appassionare me e gli attori: il grado di vibrazione del testo sul palco era incredibile.

Qual è il metodo di lavoro di Fabio Condemi?

Disegno molto. Non benissimo, ma sto migliorando! Ho bisogno di contemplazione, di trovare un silenzio dentro di me in cui le parole di uno scrittore cominciano a tradursi in immagini. Non lavoro con le improvvisazioni, credo piuttosto nella grande libertà dell’immaginazione, nella meditazione sulle cose. Poi, nel momento in cui qualcosa si è formato nella mia testa, lo metto alla prova assieme agli attori, in un dialogo aperto.

È stato questo il processo anche per Jakob Von Gunten?

Robert Walser è un autore particolare. Si è rinchiuso volontariamente in un manicomio a Herisau in Svizzera, dove è rimasto fino alla morte, avvenuta la notte di Natale del ’56. Jakob è ambientato in un istituto in cui si impara a servire, parla dell’estasi dell’obbedienza contro un’idea di libertà generica. Ci siamo detti che, per lavorarci, tutti noi dovevamo essere schiavi di qualcosa, anche io come regista: ci siamo chiusi in una stanza con una dedizione da servi, lavorando su gesti a vuoto, così sono nate le geometrie alla base dello spettacolo.

Che rapporto hai con il cinema?

Mi piacciono i registi che hanno uno sguardo nuovo, limpido, sulla realtà. Andrej Tarkovskij, Sergei Parajanov, Peter Greenaway. Un regista a cui penso molto è Jonas Mekas, del New American Cinema Group. Diceva di essere un “filmer” e non un “film-maker”: i suoi film sono lunghissimi diari filmati, quasi tutti dedicati ai fratelli Lumière. La qualità del suo cinema che trovo incredibile è questa capacità di sguardo che si concentra tutta nella scelta dell’inquadratura, una contemplazione che allo stesso tempo ci parla interiormente ed è un atto politico.

Il tema dello sguardo emerge nel tuo spettacolo Questo è il tempo in cui attendo la grazia.

In un’epoca saturata dalle immagini, per noi che ci occupiamo di rappresentazione, il tema dello sguardo, del saper guardare, mi sembra importante. Lo spettacolo è un omaggio a Pasolini che parte dalle sue sceneggiature: una scrittura al limite tra letteratura e cinema.

Di nuovo una prospettiva trasversale sulle arti.

È come per il lavoro con l’opera lirica: si tratta di sentirsi esuli ma in senso positivo. Questo mi dà la possibilità di partire ogni volta da un grado zero. Ho bisogno di stare nel limite tra la rappresentazione e ciò che non è rappresentabile. È qualcosa che ha a che fare con la chimica, quasi: un rapporto tra il vuoto dell’inizio, il testo, il palco, me che ci lavoro. C’è uno scritto che amo molto di Thomas Eliot, Tradizione e talento individuale, che parla proprio del rapporto tra tradizione e creazione: il poeta deve agire come un reagente chimico.

A cosa serve il teatro?

È difficile dare una risposta. Il teatro funziona per illuminazioni. È il suo essere effimero che offre la possibilità di questi momenti. È un luogo mentale che rimane e agisce dentro la mente dello spettatore: il segno teatrale è un sassolino che crea richiami infiniti. In Jakob Von Gunten a un tratto il protagonista immagina di essere nella campagna di Russia con Napoleone e dice che sarebbe un soldato perfetto, che diventerebbe una rotellina nell’ingranaggio di qualcosa di più grande di lui: non vedrebbe mai Napoleone, ma sarebbe lì e terrebbe la testa china per un imperatore che non esiste. Quello che noi facciamo è questo, il teatro è così: è chinare la testa a un dio nascosto.

Leggi l’intervista completa a Fabio Condemi a pag. 20 su Fabrique du Cinéma n. 28