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Davide Spinelli

Cosa racconta il cinema su Genova a vent’anni di distanza

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Per la mia professoressa di storia contemporanea Genova fa parte dei cinque episodi genitori dell’Italia attuale (gli altri: l’8 settembre ‘43, il Sessantotto, Piazza Fontana, il delitto Moro). È difficile che a braccetto con l’intenzione didascalica e pedagogica (in Italia) ci si dimentichi la retorica, ma chissà che non resti solo il cinema e un po’ di letteratura a puntellare gli Scritti corsari di Pasolini: «L’Italia rimuove il suo passato prossimo, lo perde nell’oblio dell’etere televisivo, ne tiene solo i ricordi, i frammenti che potrebbero farle comodo per le sue contorsioni, per le sue conversioni».

Per farsi un’idea di come il cinema italiano abbia raccontato il G8 genovese, sono tre i titoli da recuperare: Faces-facce (2002) di Fulvio Wetzl, Black Block (2011) di Carlo Augusto Blachschmidt, Diaz – don’t clean up this blood (2012) di Daniele Vicari. I documentari di Blachschmidt e Vicari si concentrano sulle violenze alla scuola Diaz e alla caserma di Bolzaneto tra il 21 e il 22 luglio 2001; quello di Wetzl traccia i contorni del contesto culturale e sentimentale in cui inserire i volti dei manifestanti che si preparavano alle contestazioni non violente.

L’elemento che impressiona dei documentari è il caos comunicativo e organizzativo sulla gestione dell’ordine pubblico. Il primo problema del G8 di Genova è stato Genova. Una scelta stravagante data la topografia del capoluogo ligure (basta googlare per scoprirlo). Un riassunto efficace e risolutivo dei quattro giorni genovesi è nella domanda di Luca (Elio Germano) in Diaz: «perché ci caricano?». No: Nessuno ha mai chiesto al questore di allora Colucci come accade che un ingente dispiegamento di militari/polizia attaccasse un corteo pacifico e autorizzato come un esercito invasore, mentre i Black Block giocavano a nascondino per le vie del centro storico. Le indicazioni via radio della questura erano chiare: dirigersi al carcere di Marassi per contrastare l’azione dei Black Block. Eppure i carabinieri caricano il corteo dei disobbedienti in Via Tolemaide. Inizia un ballo raccapricciante tra i caruggi che si spegnerà in piazza Alimonda, dove arrivano anche Wetzl e i suoi cronisti, ma Carlo Giuliani è già morto. Faces-facce restituisce tutta l’insensatezza e la concitazione del momento: non è chiaro chi sia morto, le prime notizie parlano di un ragazzo spagnolo. Poi la sceneggiata del Vice Questore Aggiunto Lauro che indica un manifestante: «sei stato tu col sasso! Bastardo! Pretendetelo!».

Genova Carlo Giuliani targa
Genova, piazza Alimonda-Carlo Giuliani.

Il cinema ha ricostruito più volte la morte di Giuliani – Carlo Giuliani, ragazzo (2002); Bella ciao (censurato nel 2002 dalla Rai); non abbiamo lo spazio per fare lo stesso, ma ribadiamo qualche quesito che la verità processuale non ha mai affrontato: A) il sasso evocato da Lauro, nel momento in cui cade a terra Giuliani, non c’è, appare solo in un secondo tempo. All’inizio non è sporco di sangue, poi lo diventa. Lo dicono le foto; i sassi camminano? Chi l’ha usato per infierire sul volto di Giuliani e perché? B) Perché più di un carabiniere si avvicina al corpo di Giuliani prima che arrivino i soccorsi e la polizia? C) Perché nella relazione autoptica si parla di decesso “in alcuni minuti” e invece il Gip conferma che Giuliani è morto subito? Quando il Defender dei carabinieri l’ha investito incidentalmente era ancora vivo? Per chi volesse, qui la controinchiesta completa, di cui in parte racconta Quale verità per piazza Alimonda (2001).

Gli scontri di Via Tolemaide sono stati violenti, ma «si sono fatti pochi arresti» si dice in Diaz. Il giorno seguente la morte di Giuliani, parte la recita della scuola Diaz. Del tutto improvvisata. Il VII nucleo antisommossa irrompe nella scuola verso le 22, nasconde delle bombe molotov ritrovate poco prima per (di)mostrare la presenza dei Black Block e di armi da guerra (mai trovate); un poliziotto finge anche un’aggressione, tale Massimo Nucera. Nessuno dei manifestanti oppone resistenza. È una mattanza. Il docufilm di Vicari è stato criticato per aver spettacolarizzato la violenza e per «un’eccessiva aderenza al reale». I testimoni assicurano: «Vicari e i produttori hanno censurato per non far sembrare inverosimile il vero». L’obiettivo di Diaz è cronachistico; alimenta il dispositivo della memoria storica collettiva. È un’operazione che non ha niente a che vedere con prove come Romanzo di una strage, a cui è stato paragonato; non so se sarà mai possibile romanticizzare il G8 di Genova. Degli anni ’70-’80 le ragioni si conoscevano prima delle conseguenze; sul G8 le risposte non si possono ancora dare. Un centinaio degli arrestati alla Diaz furono portati al carcere di Bolzaneto; 69 furono ricoverati in gravi condizioni. L’incubo dei pestaggi e delle violenze non finì alla Diaz. Nel 2015 La corte dei diritti dell’uomo qualificherà come tortura i fatti della Diaz e di Bolzaneto. In Italia la tortura è reato dal 2017, “grazie” al G8.

Sono passati vent’anni. Alcune sentenze. I filoni principali d’inchiesta della procura di Genova sono stati tre, uno a carico dei manifestanti, due a carico delle forze dell’ordine.  La prescrizione ha salvato gran parte degli imputati. Molti di loro hanno fatto carriera istituzionale, avvallata da politici di ogni grado e partito, sino ai massimi gradi dei servizi segreti. C’è chi dice lo rifarebbe altre mille volte. Ci sono i sorrisi di poliziotti e carabinieri durante il processo. L’eco delle risate in Diaz, la paura di fronte all’abuso dello Stato. C’è l’incapacità delle istituzioni di assumersi le responsabilità degli errori commessi; l’unico modo per scardinare le premesse che hanno nascosto le violenze. Sembra uno scherzo: a processo, per riconoscere i poliziotti che hanno fatto irruzione alla Diaz, le questure hanno consegnato ai PM le foto degli agenti di vent’anni prima, nei giorni della comunione o della cresima. Il riconoscimento è stato impossibile.

Mio nonno ha fatto il carabiniere per 34 anni. Chi ha massacrato Stefano Cucchi indossava la stessa divisa; molti della macelleria messicana della Diaz anche. Se parlo con mio nonno del G8 è doloroso. Mi rassicura: mele marce. Credere che le forze dell’ordine siano una massa di criminali, o che tutti i manifestanti siano violenti perché una parte lo è stata programmaticamente, significa convincersi di una sineddoche viziata dalla retorica: la parte non fa il tutto. Ma ho provato a spiegare a mio nonno cos’ho capito da Diaz sul G8: non posso persuadermi che Black Block e polizia/carabinieri siano sullo stesso piano; non giustifico la violenza, ma dai primi me l’aspetto, cerco di prevenirla, ai secondi non la associo. In Italia ci si masturba di questo cortocircuito dal secondo dopoguerra: i fascisti hanno perpetrato cose orrende, ma i partigiani poi si sono macchiati delle stesse colpe. Tocca uscire da questo ping pong dell’orrore. Se penso alla polizia, non penso a un branco primordiale libero di accelerare i propri istinti senza il controllo della società civile circostante. Uno dei messaggi di Diaz è quasi banale: Dov’era la complessa macchina della democrazia che legittima in certi casi la mano ferma (e violenta) dello stato? Perché, se non mi chiedo questo, la domanda successiva non la voglio sentire: che differenza c’è fra Stato e Black Block? Come si sarà sentito Mark Covell, giornalista di Indymedia UK, preso a calci e pugni alla Diaz, e poi indagato per saccheggio e devastazione da chi lo avevo ridotto al coma? Se mettiamo sullo stesso piano Stato e Black Block, dello Stato di diritto ci piace solo la cacofonia.

Alla maggioranza dei ventenni che scesero in piazza allora – e che oggi scoprono il G8 solo per certificare il loro status antifascista, seguendo la moda riduzionista violenza=fascismo – non fregava nulla della politica. Ma saranno sempre le minoranze rumorose a colorare le piazze. Ai giovani di allora dicevano lo stesso: superficiali, scarso interesse politico, consumisti. Ma di quei giorni, oggi, restano due misteri, che il cinema deve continuare a interrogare. Qual era l’obiettivo politico di vent’anni fa? Chi sarebbero diventanti i centinai di ragazzi della mia età che scesero in piazza? Cosa hanno smesso di cercare? Sono questioni ombelicali, ma l’Italia deve staccarsi dalla mamma per crescere. Il G8 di Genova continua a essere misurato, circondato, fotografato. Ma attorno il paesaggio resta isomorfo. È la differenza tra una ferita e un segreto che sanno tutti.

 

 

Allora siamo tutti puttane: a proposito di Revenge Porn

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In Italia il Revenge Porn è reato dal 2019. È stato un passo cruciale per la lotta alla violenza di genere, ma il fenomeno resta endemico e di matrice culturale. La comprensione dei suoi effetti e delle conseguenze passa anche attraverso la rappresentazione che ne fa il cinema; gli esempi recenti di Nudes (la serie in streaming su RaiPlay)e Sesso sfortunato e follie porno (vincitore dell’ultima Berlinale) offrono degli importanti spunti di riflessione comuni, nonostante le profonde differenze. Ne abbiamo parlato con Silvia Semenzin, ricercatrice postdoc in Sociologia Digitale all’Università Complutense di Madrid e docente in New Media & Digital Culture all’Università di Amsterdam, nonché attivista della campagna #intimitàviolata che ha portato all’approvazione della legge del 2019. È in libreria, assieme a Lucia Bainotti, con Donne tutte puttane (Durango Edizioni, 2021).

Nudes

Nudes ha diversi meriti: la Rai prova a svecchiarsi, tiene accessi i riflettori su un tema che non sembra avere confini né diatopici né temporali, avvicina un target giovanissimo a un fenomeno di cui è necessario che si conoscano cause ed effetti. L’intenzione è ottima, ma con Silvia Semenzin abbiamo provato capire cosa non quadra.

Nella serie prima è Vittorio a vendicarsi di un rifiuto, poi è Emilia a diffondere un video intimo della migliore amica per sfogare la sua gelosia. La vendetta è il perno narrativo, ma per Semenzin con il Revenge Porn c’entra poco: «la traduzione italiana di Revenge Porn “pornovendetta” mette sulla strada sbagliata. La pornografia prevede un consenso (che non c’è); la vendetta una ritorsione da parte di qualcuno per un’offesa subita. Il Revenge Porn è solo in piccolissima parte un fenomeno legato alla vendetta, e circoscriverne la rappresentazione è fuorviante». È dirimente, per Semenzin, parlare di Revenge Porn nei termini di “condivisione non consensuale di materiale intimo”. Considerare il Revenge Porn un fenomeno istintivo-vendicativo ha due conseguenze: colpevolizzare la vittima (donna nel 90% per dei casi), e non riconoscere che alla base del fenomeno non c’è la vendetta, bensì una volontà di controllo, orientata ad alimentare un «un potere di matrice patriarcale».

Fotinì Peluso, fra i protagonisti di "Nudes"..
Fotinì Peluso, fra i protagonisti di “Nudes”.

Di più: «la storia di Sofia è statisticamente improbabile» ci dice Semenzin; alimenta la retorica de “le donne sono le peggiori nemiche delle donne”. L’ha spiegato bene Michela Murgia: «Se il patriarcato vuole dominare il sesso femminile senza ricorrere continuamente alla forza ha bisogno di convincere delle sue ragioni almeno due terzi delle donne e lo fa offrendo a ognuna un vantaggio che all’altra è negato» (Stai zitta, p. 52). Una rappresentazione come quella di Nudes enfatizza una narrazione del conflitto interfemminile che esiste nei termini in cui è usata dal sistema maschilista: è come se a calcio una squadra facesse anche l’arbitro della partita. L’obiettivo di questa struttura sociale è subdolo: filtrare un messaggio che criminalizzi l’impulso sessuale (femminile).

Un fenomeno con cui le donne fanno i conti da sempre, e che complice il distanziamento sociale ha investito anche il tema del sesso virtuale. Su tutte la pratica del Sexting (centrale in Nudes), criticatissima a causa delle sue «presunte conseguenze nocive dovute all’ibridazione tra sessualità e tecnologie». Il messaggio – ci perdoneranno gli autori di Nudes è preistorico: se fai Sexting il Revenge Porn è inevitabile. Ma Semenzin ci ricorda che «quello che c’è in comune tra il Sexting e il Revenge Porn è lo stesso che accomuna il sesso e lo stupro: nulla».

Sesso sfortunato o follie porno

In Sesso sfortunato o follie porno la criminalizzazione dell’impulso sessuale femminile tocca un punto di non ritorno. Nella pellicola un video intimo di Emi, una maestra d’asilo di Bucarest, finisce (non si sa come) su Pornhub. Nella lunga sequenza finale va in scena un processo vero e proprio. La corte è composta dalla preside e dai genitori degli alunni, i quali accusano Emi di non essere «eticamente e moralmente accettabile». Una mamma mostra il video a tutti i presenti per «capire di cosa si tratti». Emi è lì accanto. Le accuse si susseguono. Un padre sostiene che «il problema non è che lei abbia fatto sesso. Il punto è che certi comportamenti li hanno solo le puttane».

Vecchia storia: «una donna o è santa o è puttana» dice Semenzin. Secondo i genitori, la maestra non è moralmente irricevibile perché ha fatto sesso con suo marito, ma perché nel farlo ha tenuto degli atteggiamenti da puttana”, come frustare il sedere del partner o fare Dirty Talk. Per il padre c’è un confine oltre cui il sesso non è più “normale” e diventa pornografico, quindi “immorale”. Al contrario, nessuno si sogna di attaccare la sessualità del marito, il quale ricopre un ruolo pubblico al pari della moglie. È evidente la sottotraccia del “doppio standard”: «emerge quando la sessualità maschile è giudicata libera, potente e incontrollabile, e quella femminile oblativa, orientata alla riproduzione».

La pellicola suggerisce un accorgimento decisivo per ribaltare una semantica della sessualità erronea: la maestra parla di “video intimo”, i genitori di “video hard”; giornali, media e cinema tendono a fare lo stesso, ossia riducono la semantica della sessualità alla semantica della pornografia per “immoralizzare” la prima (supponendo che la seconda lo sia).

Sesso sfortunato o follie porno
Un’immagine da “Sesso sfortunato o follie porno”, vincitore del Festival di Berlino 2021 (ph: Silviu Ghetie /Micro Film)

Ciò deriva da «un puritanesimo e una sessuofobia ancora vigenti, che considerano offensiva e volgare la nudità e la sessualità – soprattutto femminile – e stigmatizzano la pornografia e qualsiasi tipo di materiale erotico». Certo, la pornografia è nata per un pubblico maschile, ma – ribadiamolo – non è la pornografia il problema, lo è, al contrario, l’assenza di un’educazione sessuale nel nostro paese che inverta l’immaginario di una società maschilistica ed educhi anche alla fruizione della pornografia. Il focus lo indica la pellicola rumena: sostituiamo al concetto esclusivo di normalità una cultura del consenso.

Il video di Emi e il marito fa da prologo al film, poi la camera pedina il quotidiano della donna per quasi un’ora. Fa la spesa, va in libreria, pranza. Impossibile: Emi – che faceva cose “da puttana” – fa anche cose “normali”? Il messaggio chiave di Sesso sfortunato o follie porno è qui; lo suggerisce Semenzin: «è fondamentale distinguere tra sessualizzare e oggettificare». Se per esempio una donna – come fa Emi – vi dice (consensualmente!) “sono la tua puttana”, è perché gode nel dirlo, e nel suo immaginario quella frase la colloca al centro del piacere, non a lato; sta sessualizzando voi, la frase, il momento. Poi si stufa e i magari i ruoli si ribaltano. Spoiler: tutti vogliamo essere sessualizzati. Viceversa, oggettificare è una degenerazione della sessualizzazione; è eroticamente mortifero, concretizza il dislivello di genere come status quo della dinamica relazionale. È questo l’humus allarmante che alimenta il commento del padre.

Allora, se certi comportamenti sono da puttana, è il caso che ci inventiamo un termine anche per quelli da puttana al maschile, oppure la smettiamo di raccontare a ragazzi e ragazze un cortocircuito in cui una società machista nasconde ciò che in realtà impone: un dislivello di genere (che non riguarda solo uomo-donna) da perseguire e imporre per gli uomini e da accettare per le donne. Non basterebbe mettere al centro “consenso e “piacere”? Nudes ci prova a metà, Sesso sfortunato e follie porno ci riesce quasi. Ma qua siamo ancora fermi a una ragazza che ha mangiato una mela 2021 anni fa. Dicono.

 

Un ladro di immagini: Emanuele Pisano e “L’oro di famiglia”

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Finalista nella sezione cortometraggi agli ultimi Fabrique Awards con L’oro di famiglia, Emanuele Pisano è un giovane regista che conta già importanti collaborazioni con artisti come Briga e Ultimo, e che sogna un giorno di poter distribuire film con la sua Pathos Distribution.

Come hai cominciato a fare cinema?

È stato osservando il lavoro di compositore di mio zio Paolo Buonvino che credo di aver capito come il cinema potesse rappresentare il veicolo migliore per esprimermi. Quando ho iniziato a fare i primi cortometraggi nei corridoi di casa con una handycam, Gabriele Muccino e Paolo Sorrentino erano i miei riferimenti più importanti. Il primo aveva appena stravolto le regole della commedia italiana con L’ultimo bacio; il secondo iniziava a diventare autore con Le conseguenze dell’amore. Ricordo che realizzavo i primissimi corti ascoltando una colonna sonora e immaginando scene, dialoghi, e ipotizzando di dirigere i grandi attori. Non so dire quanto valore abbia avuto questo approccio atipico ˗ non amavo Kubrick, conoscevo poco Scorsese per esempio ˗ però credo che abbia influenzato molto il mio modo di fare cinema.

Sbirciando qua e là in rete, ho scoperto i moltissimi videoclip musicali che hai diretto. I videoclip possono essere una buona palestra cinematografica? Com’è lavorare con artisti come Ultimo, Briga?

Jacopo La Vecchia (CEO di Honiro Label) cercava dei videomaker che potessero girare con poco budget dei videoclip prodotti dalla sua casa discografica. Io all’epoca facevo il classico lavoro da assistente di regia sul set, ma dato che avevo un gran voglia di mettermi in gioco, mi sono buttato. Ho iniziato con videoclip a bassissimo budget e questo mi ha permesso di esercitarmi sulla creazione di idee che rispettassero i costi ma fossero comunque di qualità; ero alla continua ricerca di possibili escamotage narrativi e visivi. Questa graduale evoluzione mi ha aiutato a modellare un mio personale modo di girare che mi è servito tantissimo per i corti. Lavorare con grandi artisti è prima di tutto un incentivo a dare qualcosa di tuo. Sia con Briga che con Ultimo ho sempre goduto di molta libertà. Non ho mai avuto delle regole da seguire, anche perché un videoclip arriva spesso da una visione, da un pensiero ispirato da un libro o un articolo di giornale. Poi, crescendo artisticamente, Ultimo ha capito che il videoclip può essere un mezzo per far conoscere di più il suo pensiero e quindi i concept narrativi partivano da lui.

Quanto credi sia importante il legame tra musica e cinema?

L’imprinting musicale è tutt’ora molto presente in ciò che faccio. Perfino quando dirigo gli attori faccio provare loro le scene con in sottofondo delle musiche che ritengo stimolanti. Credo che la musica abbia il potere di accompagnare lo spettatore verso delle aree emotive altrimenti insondabili. E per musica intendo anche e soprattutto il paesaggio sonoro naturale.

 Arriviamo a L’oro di famiglia, finalista ai Fabrique Awards. Ho letto che hai definito Rec Stop & Play, il corto che ti ha fatto conoscere, come «una forma di scippo soggettivo». Il tema del furto mi riporta a L’oro di famiglia. C’è un filo rosso che collega questi due cortometraggi?

Devo confessarti che non ci avevo mai riflettuto, ma la tua domanda mi porta a pensare che sicuramente ci siano dei temi che mi attirano, e che, in forme diverse, trasformo e modello con il tempo. Per quanto riguarda L’oro di famiglia, il corto nasce dall’esigenza di raccontare il legame viscerale che lega l’uomo al passato. Nonostante i cambiamenti, la nostalgia verso ciò che si è stati è una sorta di maledizione.

Cos’è per te L’oro di famiglia?

Credo sia il racconto di un tormento personale. Il protagonista galleggia nella speranza che un ricordo scolorito dal tempo possa riemergere da una semplice fotografia. Il corto nasce anche da una riflessione sul tema della fotografia: negli ultimi cinquant’anni il digitale ha spodestato l’analogico in modo definitivo. Nel mondo si scattano ogni anno 2,5 trilioni di immagini che sono per lo più archiviate su dispositivi digitali. Solo una percentuale minuscola è stampata e conservata in formato analogico. Io amo chiamare le fotografie stampate “memorie tangibili”, perché la fotografia va anche vissuta, come accade per il protagonista del corto.

Qual è la relazione tra L’oro di famiglia e il ricordo?

L’esigenza del protagonista è quella di rivivere un’istantanea del passato. C’è un impulso che lo spinge a dover conservare l’elemento più prezioso che ogni famiglia possiede, ossia il ricordo, l’unica cosa che non può essere rubata. In questo senso, ho cercato di approfondire uno stile di regia che cercasse di sottolineare l’imprevedibilità delle scelte del protagonista in relazione al passato. Per questa ragione, la macchina spia, ma non anticipa mai i movimenti del protagonista, limitandosi ad attendere le sue decisioni.

Domanda finale d’obbligo: progetti futuri?

Nell’ultimo anno e mezzo insieme a Maurizio Ravallese, Roberto Urbani e Rocco Buonvino ho creato una distribuzione di corti e short-documentary, Pathos Distribution, con l’obiettivo di valorizzare e diffondere sguardi autoriali che altrimenti rimarrebbero nascosti; il sogno è quello un giorno di poter distribuire una pellicola. Inoltre, negli ultimi anni ho avuto la fortuna di poter dirigere delle serie per Disney [Sara e Marti – #LaNostraStoria] e Rai Gulp. Forse continuerò con queste tipo di serialità, nel frattempo, dopo L’oro di famiglia, assieme a Francesco Garritano e Angelo Benvenuto, ho girato uno short documentary a tema green che è attualmente in fase di montaggio. Spero di potertene parlare nella prossima intervista!

 

 

Il pesce toro: la libertà secondo Alberto Palmiero

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Dopo il successo de Il Pesce Toro, selezionato nella sezione Percorsi del Molise Film Festival, abbiamo intervistato il giovane regista Alberto Palmiero. Un regista, come racconta, nato un po’ per caso: “Il mio approdo al cinema non era inizialmente certo: mi sono iscritto contemporanea sia al corso di regia al Centro sperimentale, sia alla laurea magistrale in informatica. Il destino ha voluto che il corto con cui mi presentai alla selezione – Saddafà – sia piaciuto alla commissione e così sono entrato in questo mondo, lasciando da parte l’informatica.”

Il Pesce Toro è il tuo ultimo corto. Perché questo titolo?

Tutto nasce dalla cicatrice che porto sul pollice. Ogni volta che qualcuno mi chiede cosa ho fatto, racconto la storia (inventata) che ho combattuto con un enorme pesce, e parlandone con la co-sceneggiatrice abbiamo deciso di inserirla nel cortometraggio. Tuttavia, quello che volevo raccontare con questo corto era un sentimento libertà. Infatti, nella scrittura del cortometraggio sono partito dalla fine per costruire poi gli eventi pregressi. Quest’immagine dei due ragazzi che vestiti si buttano in mare mi affascinava. Come, parallelamente, il mare per me rappresenta un elemento di evasione a cui sono molto legato.

La libertà sembra però contrapposta anche al suo contrario: la reclusione.

Esattamente. Volevo trasporre sullo schermo lo stato d’animo di claustrofobia che vivevo al tempo in cui ho scritto il film, e l’idea di inserire nella prima parte i due personaggi in uno spazio chiuso, invalicabile, mi permetteva di accentuare la contrapposizione con la scena finale, giocata appunto sulla libertà. Allo stesso modo, i due protagonisti rappresentano la medesima ambiguità: il ragazzo napoletano, quello più irrisolto dei due, un po’ spaccone, è la chiave per scardinare la chiusura del ragazzo toscano.

Il Pesce Toro è quindi anche una storia d’amicizia. 

Nel cortometraggio ho voluto sovrapporre il sentimento di libertà con quello di amicizia. Sono legatissimo ai miei amici e ho provato a rappresentare la potenza salvifica che il legame con gli altri può avere. Il senso è quello secondo cui, a volte, solo tramite l’amicizia con qualcuno riesci ad avere la consapevolezza della situazione in cui sei.

Il finale del cortometraggio si presta a più letture, qual è quella che senti più tua?

Molti hanno letto il finale come un vero e proprio suicidio, ed è una lettura validissima. L’ambiguità porta anche a questo. Tuttavia, la mia idea contemplava anzitutto la rappresentazione della fuga come ricerca, e non come scappatoia da se stessi. In questo senso il titolo ha un suo valore specifico: non è altro che una bugia bianca che permette una via di fuga. E, come ho detto, spesso è proprio la relazione con qualcun altro a permetterti di vederla e percorrerla.

Quali sono gli autori a cui ti sei ispirato?

Un autore che amo molto, anche se appartiene al campo della letteratura, è Camilleri, perché è abile in quello che vorrei fare io: sapersi innestare su un genere, rendendolo personale. Dal cinema, cito invece un grande del passato: Ettore Scola. Il suo modo di indagare le relazioni umane mi affascina.

Quali sono i tuoi progetti futuri?

Come ti ho detto, amo il mare e infatti sto lavorando a un corto dal titolo Amarena, che tratterà dell’incontro di due coniugi in un porto. Ammetto però che il cortometraggio è un formato che mi sta strettissimo, anche se è un’eccellente palestra. Sono un grande amante dei tempi lunghi, sia come spettatore che come autore, quindi spero di dedicarmici in futuro.

Mauro Aragoni: dal fantasy sardo allo spaghetti western

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Dopo il successo del suo cortometraggio Nuraghes s’Arena, con protagonista il rapper Salmo, Mauro Aragoni, uno dei più promettenti registi esordienti del panorama contemporaneo del cinema italiano, è ora sul set della serie That dirty black bag, prodotta da Palomar in collaborazione con Bron, di cui può Aragoni può rivelare ancora molto poco: si solo che è stata definita “un western, con un pizzico di horror e mistero, e con elementi di steampunk”.

Dopo il fortunato Nuraghes, Mauro Aragoni è al lavoro su una serie internazionale

In esclusiva per Fabrique, ripartendo dal successo di Nuraghes (2017), da poco più di un mese disponibile anche in streaming, lo abbiamo intervistato spaziando tra cinema e serie, tra nuovi e vecchi progetti, tra personalissime fonti di ispirazione e progetti futuri.

Nuraghes, il tuo apprezzatissimo corto, che si potrebbe definire un fantasy proto-sardo, è da poco più di un mese disponibile sulle piattaforme on demand; perché secondo te è ancora attuale?

 Molti fan lo riguardano spesso proponendomi diversi significati e interpretazioni, o facendomi parecchie domande su cose che mi chiedo persino io. Una volta lessi il commento di un ragazzo che spiegava il finale ad altri spettatori e ne rimasi affascinato anche io. Credo sia perché è un’opera onirica, che apre diverse strade. Questo rende Nuraghes suggestivo e curioso, e forse per questo resta ancora adesso attuale.

Da dove scaturisce un’idea così insolita?

Per quanto sia una storia inventata, il corto è ispirato da una civiltà realmente esistita della quale purtroppo non si sa molto; questa civiltà è così misteriosa e visivamente potente che ho optato per girare il film nel modo più oscuro. La trama è molto semplice, volutamente banale direi, ma proprio per questo regala spazio alla regia e alle atmosfere creando l’equilibrio tra storia e visione.

Nuraghes di Mauro Aragoni
Un’immagine del cortometraggio di Mauro Aragoni

Parliamo ora del progetto che ti sta tenendo impegnato in questi mesi: That dirty black bag. Anzitutto, qual è per te la differenza fondamentale tra lavorare a un cortometraggio e lavorare a una serie?

Le serie sono colossi. È molto difficile fare una serie, ci sono infiniti particolari, incastri che complicano  le cose, più di quanto accade a un film o un lungometraggio. Spesso basta spostare una pedina, un secondo, un dettaglio per far crollare interamente una linea che dura delle ore. Le serie sono delicate, complesse e lunghe. Sul set devi dare il meglio di te in meno tempo cercando di ottenere la stessa qualità dei film. È una sfida, ma anche un elemento cruciale dell’evoluzione del racconto seriale; tant’è che se oggi le serie non avessero la qualità del cinema e fossero rimaste alle fiction di vecchio stampo, personalmente non avrei scelto di lavorarci.

Quali sono i nomi che ti hanno di più influenzato per la realizzazione di Nuraghes e che continuano a essere una guida anche per la nuova serie?

Ho sempre amato Carpenter, Kubrick e Tarantino. Nuraghes prende anche molta ispirazione dal manga Berserk e da Valhalla Rising di Refn: tutti nomi e titoli che mi guidano anche nella realizzazione di That dirty black bag, oltre ovviamente alla trilogia di Leone.

Come procede questa tua esperienza internazionale a capo di un grossa produzione? E quali sono i progetti futuri?

Procede bene anche se è molto impegnativa. Sto vivendo un periodo molto particolare della mia vita, lavorare in una serie internazionale con i grandi del cinema non è solo un’occasione, ma anche il sogno di una vita e un grande onore. Riguardo al futuro, ho tanti film nel cassetto, tante idee tra cui Nuraghes 2, ma diciamo che per ora non vedo l’ora di avere tra le mani il cofanetto blu ray di That dirty black bag.

 

 

 

Because of my Body affronta un tema tabù

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Dopo il successo internazionale del cortometraggio Red Line, Francesco Cannavà porta sullo schermo virtuale del Biografilm Festival 2020 Because of my Body, docufilm che tratta il difficile tema dellassistenza sessuale alle persone disabili. Prodotto da 8Roadfilm, Replay  e con partner Lovegiverl’associazione che si occupa della formazione degli OEAS (Operatore all’emotività, alla sessualità, all’affettività) -, il lavoro del regista messinese racconta la storia di Mauro, un’operatore di 51 anni, e Claudia, una giovane ragazza che soffre di spina bifida.

La pellicola di Cannavà è prima di tutto un’azione artistica culturalmente necessaria, che racconta con grande sensibilità un tematica che in Italia patisce di un enorme vuoto sia a livello normativo sia, per l’appunto, a livello culturale. Because of my Body è un profondo e chirurgico atto di denuncia, anch’esso bivalente: da un lato il documentario è la narrazione di una mancanza fisica, dall’altro la triste consapevolezza di un abbandono sociale. In questo senso, il docufilm di Cannavà, dentro un tessuto cromatico spento come l’affettività di Claudia, sembra raccontare di una realtà lontana, quasi parallela, che è (triste) metafora di quella condizione irrevocabilmente solitaria in cui la ragazza è lasciata a se stessa – «mi manca essere toccata» ripete più volte.

Because of my Body non ha solo il merito di accendere i riflettori sul mondo degli OEAS, ma anche quello di non perdersi in una narrazione didascalica: la pellicola non descrive, non indica, ma mostra, con una camera che tende quasi sempre a stringere il campo dell’inquadratura, esacerbando l’elemento decisivo, ovvero quello del corpo. Che, per Claudia, grazie all’aiuto di Mauro, da prigione diventa fonte di scoperta. Cannavà, dunque, riesce nell’intenzione di scoperchiare un tema tabù come quello del piacere e mostrarlo come bisogno primario della persona. Accanto a questo, Cannavà tratteggia una narrazione del quotidiano di Claudia, sempre con l’occhio vigile del racconto lineare, quasi crudo nella sua asciuttezza.

Because of my Body, tra i lunghi dialoghi di Claudia e Mauro allo scoperta del corpo, è un grido d’aiuto, un urlo a metà, nell’immagine anestetizzata che ritrae Claudia mentre deve salutare per l’ultima volta il suo operatore. E, proprio in quest’ultimo momento, quando la ragazza non desidera proseguire con l’ultimo step del percorso educativo ma preferisce trascorre il loro ultimo giorno insieme parlando, c’è la chiave di un documentario intransigente ma accorto, delicato ma incisivo: in Because of my Body le sequenze del corpo e quelle animate dalle “sole” parole si amalgamano, fino a provare come quest’ultime sanno essere e farsi corpo.

La sequenza del body painting è, su tutte, l’istantanea da conservare di Because of my Body: Mauro chiede a Claudia di colorare le parti che le piacciono e quelle che non le piacciono di un uomo. Cannavà racconta di una donna che desidera essere notata per la sua normalità. La pellicola gioca sull’equilibrio/disequilibrio della rottura dell’anonimato, che come il corpo è vittima e carnefice. Nella sua volontà di fare «come gli altri», Claudia restituisce quella necessità di attenzione che è l’anima del documentario, e, al contempo, sottolinea con forza e senza imbarazzo quel sogno di emulazione che, in fondo, è alla base della crescita di ognuno.