Per la mia professoressa di storia contemporanea Genova fa parte dei cinque episodi genitori dell’Italia attuale (gli altri: l’8 settembre ‘43, il Sessantotto, Piazza Fontana, il delitto Moro). È difficile che a braccetto con l’intenzione didascalica e pedagogica (in Italia) ci si dimentichi la retorica, ma chissà che non resti solo il cinema e un po’ di letteratura a puntellare gli Scritti corsari di Pasolini: «L’Italia rimuove il suo passato prossimo, lo perde nell’oblio dell’etere televisivo, ne tiene solo i ricordi, i frammenti che potrebbero farle comodo per le sue contorsioni, per le sue conversioni».
Per farsi un’idea di come il cinema italiano abbia raccontato il G8 genovese, sono tre i titoli da recuperare: Faces-facce (2002) di Fulvio Wetzl, Black Block (2011) di Carlo Augusto Blachschmidt, Diaz – don’t clean up this blood (2012) di Daniele Vicari. I documentari di Blachschmidt e Vicari si concentrano sulle violenze alla scuola Diaz e alla caserma di Bolzaneto tra il 21 e il 22 luglio 2001; quello di Wetzl traccia i contorni del contesto culturale e sentimentale in cui inserire i volti dei manifestanti che si preparavano alle contestazioni non violente.
L’elemento che impressiona dei documentari è il caos comunicativo e organizzativo sulla gestione dell’ordine pubblico. Il primo problema del G8 di Genova è stato Genova. Una scelta stravagante data la topografia del capoluogo ligure (basta googlare per scoprirlo). Un riassunto efficace e risolutivo dei quattro giorni genovesi è nella domanda di Luca (Elio Germano) in Diaz: «perché ci caricano?». No: Nessuno ha mai chiesto al questore di allora Colucci come accade che un ingente dispiegamento di militari/polizia attaccasse un corteo pacifico e autorizzato come un esercito invasore, mentre i Black Block giocavano a nascondino per le vie del centro storico. Le indicazioni via radio della questura erano chiare: dirigersi al carcere di Marassi per contrastare l’azione dei Black Block. Eppure i carabinieri caricano il corteo dei disobbedienti in Via Tolemaide. Inizia un ballo raccapricciante tra i caruggi che si spegnerà in piazza Alimonda, dove arrivano anche Wetzl e i suoi cronisti, ma Carlo Giuliani è già morto. Faces-facce restituisce tutta l’insensatezza e la concitazione del momento: non è chiaro chi sia morto, le prime notizie parlano di un ragazzo spagnolo. Poi la sceneggiata del Vice Questore Aggiunto Lauro che indica un manifestante: «sei stato tu col sasso! Bastardo! Pretendetelo!».
Il cinema ha ricostruito più volte la morte di Giuliani – Carlo Giuliani, ragazzo (2002); Bella ciao (censurato nel 2002 dalla Rai) –; non abbiamo lo spazio per fare lo stesso, ma ribadiamo qualche quesito che la verità processuale non ha mai affrontato: A) il sasso evocato da Lauro, nel momento in cui cade a terra Giuliani, non c’è, appare solo in un secondo tempo. All’inizio non è sporco di sangue, poi lo diventa. Lo dicono le foto; i sassi camminano? Chi l’ha usato per infierire sul volto di Giuliani e perché? B) Perché più di un carabiniere si avvicina al corpo di Giuliani prima che arrivino i soccorsi e la polizia? C) Perché nella relazione autoptica si parla di decesso “in alcuni minuti” e invece il Gip conferma che Giuliani è morto subito? Quando il Defender dei carabinieri l’ha investito incidentalmente era ancora vivo? Per chi volesse, qui la controinchiesta completa, di cui in parte racconta Quale verità per piazza Alimonda (2001).
Gli scontri di Via Tolemaide sono stati violenti, ma «si sono fatti pochi arresti» si dice in Diaz. Il giorno seguente la morte di Giuliani, parte la recita della scuola Diaz. Del tutto improvvisata. Il VII nucleo antisommossa irrompe nella scuola verso le 22, nasconde delle bombe molotov ritrovate poco prima per (di)mostrare la presenza dei Black Block e di armi da guerra (mai trovate); un poliziotto finge anche un’aggressione, tale Massimo Nucera. Nessuno dei manifestanti oppone resistenza. È una mattanza. Il docufilm di Vicari è stato criticato per aver spettacolarizzato la violenza e per «un’eccessiva aderenza al reale». I testimoni assicurano: «Vicari e i produttori hanno censurato per non far sembrare inverosimile il vero». L’obiettivo di Diaz è cronachistico; alimenta il dispositivo della memoria storica collettiva. È un’operazione che non ha niente a che vedere con prove come Romanzo di una strage, a cui è stato paragonato; non so se sarà mai possibile romanticizzare il G8 di Genova. Degli anni ’70-’80 le ragioni si conoscevano prima delle conseguenze; sul G8 le risposte non si possono ancora dare. Un centinaio degli arrestati alla Diaz furono portati al carcere di Bolzaneto; 69 furono ricoverati in gravi condizioni. L’incubo dei pestaggi e delle violenze non finì alla Diaz. Nel 2015 La corte dei diritti dell’uomo qualificherà come tortura i fatti della Diaz e di Bolzaneto. In Italia la tortura è reato dal 2017, “grazie” al G8.
Sono passati vent’anni. Alcune sentenze. I filoni principali d’inchiesta della procura di Genova sono stati tre, uno a carico dei manifestanti, due a carico delle forze dell’ordine. La prescrizione ha salvato gran parte degli imputati. Molti di loro hanno fatto carriera istituzionale, avvallata da politici di ogni grado e partito, sino ai massimi gradi dei servizi segreti. C’è chi dice lo rifarebbe altre mille volte. Ci sono i sorrisi di poliziotti e carabinieri durante il processo. L’eco delle risate in Diaz, la paura di fronte all’abuso dello Stato. C’è l’incapacità delle istituzioni di assumersi le responsabilità degli errori commessi; l’unico modo per scardinare le premesse che hanno nascosto le violenze. Sembra uno scherzo: a processo, per riconoscere i poliziotti che hanno fatto irruzione alla Diaz, le questure hanno consegnato ai PM le foto degli agenti di vent’anni prima, nei giorni della comunione o della cresima. Il riconoscimento è stato impossibile.
Mio nonno ha fatto il carabiniere per 34 anni. Chi ha massacrato Stefano Cucchi indossava la stessa divisa; molti della macelleria messicana della Diaz anche. Se parlo con mio nonno del G8 è doloroso. Mi rassicura: mele marce. Credere che le forze dell’ordine siano una massa di criminali, o che tutti i manifestanti siano violenti perché una parte lo è stata programmaticamente, significa convincersi di una sineddoche viziata dalla retorica: la parte non fa il tutto. Ma ho provato a spiegare a mio nonno cos’ho capito da Diaz sul G8: non posso persuadermi che Black Block e polizia/carabinieri siano sullo stesso piano; non giustifico la violenza, ma dai primi me l’aspetto, cerco di prevenirla, ai secondi non la associo. In Italia ci si masturba di questo cortocircuito dal secondo dopoguerra: i fascisti hanno perpetrato cose orrende, ma i partigiani poi si sono macchiati delle stesse colpe. Tocca uscire da questo ping pong dell’orrore. Se penso alla polizia, non penso a un branco primordiale libero di accelerare i propri istinti senza il controllo della società civile circostante. Uno dei messaggi di Diaz è quasi banale: Dov’era la complessa macchina della democrazia che legittima in certi casi la mano ferma (e violenta) dello stato? Perché, se non mi chiedo questo, la domanda successiva non la voglio sentire: che differenza c’è fra Stato e Black Block? Come si sarà sentito Mark Covell, giornalista di Indymedia UK, preso a calci e pugni alla Diaz, e poi indagato per saccheggio e devastazione da chi lo avevo ridotto al coma? Se mettiamo sullo stesso piano Stato e Black Block, dello Stato di diritto ci piace solo la cacofonia.
Alla maggioranza dei ventenni che scesero in piazza allora – e che oggi scoprono il G8 solo per certificare il loro status antifascista, seguendo la moda riduzionista violenza=fascismo – non fregava nulla della politica. Ma saranno sempre le minoranze rumorose a colorare le piazze. Ai giovani di allora dicevano lo stesso: superficiali, scarso interesse politico, consumisti. Ma di quei giorni, oggi, restano due misteri, che il cinema deve continuare a interrogare. Qual era l’obiettivo politico di vent’anni fa? Chi sarebbero diventanti i centinai di ragazzi della mia età che scesero in piazza? Cosa hanno smesso di cercare? Sono questioni ombelicali, ma l’Italia deve staccarsi dalla mamma per crescere. Il G8 di Genova continua a essere misurato, circondato, fotografato. Ma attorno il paesaggio resta isomorfo. È la differenza tra una ferita e un segreto che sanno tutti.