Quattro guardie giurate (un po’ imbranate ma di cuore, come ci piace a Roma) si improvvisano criminali per salvare il posto di lavoro a uno di loro. È il movente romantico che scatena l’incontro tra commedia e “colpo grosso” in (Im)perfetti criminali (su Sky e NOW): non per soldi, dunque, né per senso di riscatto, ma solo per amicizia.
Curiosamente impegnato a combattere alcuni luoghi comuni su tematiche d’attualità e sulla filiera cinematografica in sé, (Im)perfetti criminali è un film dedicato «a tutti quelli che perdono da una vita» (che omaggio irresistibile). Non è un caso che Alessio Maria Federici non sia uno innamorato dei vincenti, ma al contrario sia in prima linea accanto a quelli che devono lavorare il doppio per provare a farcela. Lo si nota in primis dalla scelta del cast (coraggiosa quanto azzeccata), poi dalla ricerca di una regia volta a raccontare la frustrazione e il fallimento dei personaggi.
Mentre Vita di Shirley Bassey esplode imponente sui titoli di coda del suo film, Federici porta i suoi studenti all’incontro con la stampa dove anche noi lo intervistiamo. Tra una pausa e l’altra si confronta con il gruppo di allievi sul compito che gli ha assegnato in classe (e noi drizziamo le antenne mentre gli raccomanda: «Non dovete mollare al primo ostacolo, perché questo è un settore di egocentrici»).
A noi invece racconta senza mezzi termini: «Io non sono un artista, sono uno shooter: vivo di questo mestiere. Vuoi sapere se sono soddisfatto del risultato? Mai. Sono un nerd e quindi un frustrato. Però a 46 anni sono anche fortunato, perché cerco sempre di spostare l’obiettivo un po’ più avanti. E che tu oggi l’abbia notato è la vittoria della mia giornata. Amando il mezzo in quanto mezzo, mi emoziona l’idea di poterlo declinare nelle sue molteplici sfaccettature. Per me il rumore del camion macchina da presa la mattina è il massimo».
Con una scelta di casting che ignora le regole di mercato anziché assecondarle, Federici mette al timone del film un trittico inatteso: Filippo Scicchitano, Guglielmo Poggi e Fabio Balsamo: «L’atto di coraggio è di chi ci mette i soldi, quindi bisogna ringraziare Olivia Musini di Cinemaundici, Sky e Vision. Mi hanno lasciato libero di scegliere quello che secondo me era giusto per la storia e per le umanità dei personaggi, e poi di raccontarlo nel modo che ritenevo giusto». Poggi (che nel film interpreta Massimo) fortunatamente coglie l’esca e fa una riflessione che andrebbe incorniciata: «Visto che abbiamo sdoganato questa polemica: io penso sia difficile fare un film di perdenti con tre facce vincenti che il pubblico è abituato a vedere ovunque. Perché in qualche modo già quel fattore rischia di raccontarli come dei vincenti. Grazie a Dio noi lavoriamo tutti, ma con tre facce più note credo che questo film avrebbe avuto un altro sapore. C’è tanto delle nostre sconfitte personali, delle umiliazioni che siamo abituati a vivere perché non apparteniamo al Gotha di quelli che non devono nemmeno andare a fare un provino».
«Nel nostro mestiere è inutile fare tanti giri di parole» interviene Anna Ferzetti (nel film Francesca), che di Federici apprezza proprio la capacità di andare dritto al punto, anche e soprattutto nel dirigere gli attori. «Con lui l’obiettivo è sempre chiaro: cosa vuole da quella scena e da quel personaggio. Ti ci sa portare, anche creando un clima da gita. Ma da gita bella, eh». Il personaggio di Anna in questo film possiede un gran bel pregio: porta la bandiera di due tematiche delicate (il precariato in conflitto con il desiderio di maternità cercata faticosamente) ma senza prendersi sul serio, con una autoironia persino cinica: «È stato bellissimo perché lo faccio anche nella realtà. Se hai la fortuna di interpretare la vita degli altri, è fondamentale raccontare anche la leggerezza di fronte alle difficoltà».
La confezione da film scanzonato e disimpegnato svela in realtà un contenuto pronto a schierare una serie di battute spregiudicate e per certi versi scomode. «Il politicamente corretto serve semplicemente a nascondere decenni di insulti» risponde Federici, predisposto alla chiacchiera senza filtri anche durante il junket (per nostra gioia). «Non è che scegliendo il pronome giusto rispetti qualcuno a cui hai tirato i sassi per trent’anni». Grazie a certe scelte di scrittura calibrate e mai villane (la sceneggiatura è di Luca Federico, Ivano Fachin, Giovanni Galassi e Tommaso Matano) la provocazione sulla «questione minoranze» è lasciata a briglie sciolte, e proprio per questo diventa spunto di riflessione, come solo la buona commedia può e dovrebbe fare. «La sceneggiatura era validissima dal principio – parola di Scicchitano, che nel film interpreta Riccardo – e questo ci ha dato la spinta per creare un’atmosfera giusta. Alessio ha messo in scena qualcosa a cui abbiamo creduto subito». Dall’orientamento sessuale dei personaggi alla dimensione sociale dell’immigrato medio, qui tutti gli stereotipi finiscono col ribaltare lo stereotipo in sé: «Confesso che quella di svecchiare il cliché dell’orientale immigrato è anche la mia battaglia personale all’interno del cinema italiano» racconta Babak Karimi parlando del suo personaggio. «Feci la stessa cosa anche per La linea verticale con Mattia Torre, ho sempre cercato di uscire dal’immaginario del disgraziato ed emarginato. In questo film, già nel modo di parlare e gesticolare, si capisce che Amir non è solo un estraneo che parla declinando i verbi all’infinito, “io andare, io mangiare”».
Ultimo ma non per importanza: il ruolo inedito di Fabio Balsamo, qui concentrato sugli aspetti più intimi di un personaggio che emerge per romanticismo più che per comicità. Il suo Pietro ha una vivacità ‘alla Balsamo’ e una sessualità fluida: «Al di là delle capacità tecniche, Alessio ha ricercato degli attori con una sensibilità precisa. Per quanto riguarda me, eravamo sul set di Generazione 56k. Durante un piano d’ascolto in cui dovevo semplicemente osservare, lui mi ha chiesto di piangere a dirotto per tre ore senza che fosse previsto in sceneggiatura. Mi sono affidato completamente, e in seguito mi ha detto che quella richiesta era stata il mio provino per (Im)perfetti criminali».
Veniamo agli aspetti nerd, quelli che piacciono a noi e anche a Federici, qui alla prova con una regia che utilizza quasi sempre ottiche grandangolari su una macchina in costante movimento: «Io vengo preso in giro da mia moglie e i bambini perché l’ultima cosa che leggo la sera sono i manuali dell’Arri Cam sulle macchine da presa. Quello di cui parli è un tentativo ricercato: volevo stare vicino agli attori quando raccontavo il dramma, e cercare di imparare da chi è molto più bravo di me nel raccontare l’azione, cioè allontanandomi o meno in base a quello che succedeva in scena». Per le riprese è stato utilizzato il nuovo Arri Trinity, «con grande sofferenza – ironizza lui – perché è un mezzo nuovo e in più nel mondo italiano, piccolo e provincialotto, non è facile farlo accettare. Adesso gli operatori di macchina pensano che gli rubi il lavoro con la steadycam, che però è uno strumento che esiste dagli anni Settanta. Ho cercato di non tirare le ottiche oltre il 75mm, perché altrimenti avrei rischiato di creare una distonia con i fondi che non avrebbe aiutato l’emozione di cui avevo bisogno. Quando Anna si lamentava della vita di merda che faceva, dovevo vedere anche la casa di merda dove abitava» conclude Federici.
A conti fatti e nell’ottica di un nuovo cinema italiano, (Im)perfetti criminali compie diverse scelte per provare a scuotere dinamiche di settore e di etichetta: piccoli tentativi di rottura infilati tra le maglie della commedia e dell’heist movie. Un film tutto da ridere, sì, ma anche da osservare con attenzione.