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Chiara Del Zanno

Damiano e Lea Gavino: Che figata un film insieme, ma non abbiamo fretta

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È la loro prima cover insieme, la loro prima intervista doppia. Nell’organizzarla abbiamo iniziato a chiamarli “I Gavinos”: un soprannome che è allo stesso tempo austero e scanzonato, come loro due. Glielo racconto e ridono, ma d’altronde ridono spesso: sono cresciuti insieme e grazie alla recitazione hanno ritrovato una dimensione bambinesca, complice e bellissima da osservare. Lea e Damiano Gavino non si erano mai pensati attori, è iniziata per caso ma con notevoli premesse: Skam Italia, L’ombra di Caravaggio e Una storia nera per lei; per lui il successo Rai di Un professore e poi il ruolo da protagonista assoluto nel Nuovo Olimpo di Ferzan Özpetek. Presto li vedremo in una serie internazionale e in un nuovo film per il cinema: hanno superato la prova delle meteore. La somiglianza è negli occhi e nei volti spigolosi, che si prestano naturalmente al gioco del cinema. La particolarità è nella grazia pungente che Lea porta in scena e nel turbamento dolciastro che definisce Damiano. Sognano di condividere un progetto da protagonisti, ma non hanno fretta: «è una carta che va giocata bene. E quando succederà, sarà una figata».

In principio fu Lea, poi Damiano. Lea, sei stata tu a spingere Damiano verso i provini per Un professore: perché?

L: Lui non ci aveva mai pensato, finché non è capitato. Aveva fatto un self-tape con un suo amico che, con tutto l’amore, era un cane a dargli le battute. Così l’abbiamo rifatto insieme. Io avevo già iniziato la Volonté e mi sono resa conto che Damiano aveva una naturale capacità di musicalità del testo, riusciva a direzionare tutto in modo concreto: se gli chiedevi un tassello di profondità lui eseguiva senza battere ciglio e riuscendo persino ad arricchire con sveltezza. Quando è arrivato il callback con Alessandro D’Alatri l’ho accompagnato provando a motivarlo, perché lui era sull’orlo del “me ne vado”.

D: Guidava lei, io non ero in grado. Mancavano venti minuti ed è andata a prendersi un caffè, io ero pietrificato. Le dicevo: “Ma come fai a sta’ così tranquilla?”.

Damiano, a te è capitato di essere determinante nel percorso di Lea?
D: Ho partecipato al suo self-tape per L’ombra di Caravaggio. Mi ricordo che era d’estate, eravamo in vacanza e lei mi disse: «devo fare questa cosa enorme, è Caravaggio con Michele Placido. Sei l’unico che può darmi le battute». Le ho dato le battute per il ruolo di Louis Garrel, una cosa leggera… Quindi un po’ c’entro nelle cose successe a Lea. No, Le’?

L: Certo. Avevamo giocato molto con quella scena, Damiano ancora non aveva neanche fatto il provino di Un professore.

Quasi vi invidio. Nell’età in cui i fratelli tendono ad allontanarsi, voi grazie alla recitazione avete ritrovato la dimensione bambinesca del gioco.

D: Campiamo con quella.

L: Così qualsiasi tragedia diventa divertente.

D: Non abbiamo mai lasciato la dimensione del gioco ma quando l’adolescenza ci ha colpiti, abbiamo litigato anche noi. Lea mi ha menato finché sono stato più basso di lei.

L: Ho continuato a picchiarlo finché non è cresciuto, con le mie piccole spinte da quattro soldi. Mi ricordo il giorno in cui mi ha risposto con un’altra spinta e gli ho detto: «ok, è finita l’epoca in cui posso picchiarti». Ci è presa una crisi di riso, e quello è stato il giorno in cui abbiamo smesso di chiamare papà dall’altra stanza.

Quali pensate siano i punti di forza dell’altro? E qual è stato il momento in cui li avete messi a fuoco?

D: Per me è la delicatezza di Lea. In scena, perché invece nella vita… [ride]. L’ho vista per la prima volta ne L’ombra di Caravaggio, nella scena con Louis Garrel in cui lei subisce per poi esplodere. E anche in Skam, perché la linea tra l’essere delicata e risultare moscia era sottile, ma lei ha trovato delle corde comprensive ed empatiche senza togliere carattere al personaggio.

L: Dami aveva delle scene molto dure su Un professore, perché il personaggio di Manuel sa essere maleducato e forte nel linguaggio. Mi è piaciuto il contrasto che ha trovato: è come se verbalmente dicesse una cosa ma con lo sguardo ne comunicasse altre. La dolcezza dello sguardo è in contrapposizione con la crudezza dei gesti. Nuovo Olimpo invece è stato uno shock, perché ho visto proprio un’altra persona. Damiano è un attore che ha sempre gli occhi pieni e così crea tridimensionalità.

Invece cosa consigliereste l’uno all’altra per migliorare?

D: Ci sono delle occasioni in cui non devi guardare in faccia nessuno.

L: Apriti un po’ di più. Potrebbe creare delle sorprese interessanti.

Che impatto ha avuto su di voi iniziare con un bagno di popolarità? Un professore e Skam Italia si rivolgono a un pubblico di giovanissimi.

D: Abbastanza forte. Ti apre un po’ gli occhi sulla realtà. Come dice Lea, per conservare il mio lato più autentico ho le stesse amicizie da quando sono nato, i miei “famosi cinque”. Ma essere così esposto all’improvviso ti dà l’opportunità di conoscere altro.

L: A me ha messo ansia. Sono entrata in un progetto già consolidato con un successo enorme, e in preparazione già si sentiva: “sai quante persone vedono questa serie?”. È una responsabilità, perché alcuni giovani identificano in Skam una specie di terapia. Ho pensato fosse interessante quasi a livello antropologico, aver studiato psicologia e ritrovarmi parte di un prodotto rappresentativo di una generazione. È l’unica volta in cui mi sono posta sempre il problema del pubblico: cosa voglio fare arrivare alle giovani ragazze che vedranno questa stagione? E anche le parole fuori dal set hanno improvvisamente un peso: prima è stato angosciante, poi ho capito che bastava essere una di loro, cioè me stessa: una giovane ragazza che cerca di stare al mondo ed essere una brava persona, anche facendo degli errori.

Damiano, in Nuovo Olimpo sei stato un ponte tra generazioni: quella di Özpetek, per cui la libertà non era scontata, e la tua, che invece la rivendica con nuovi mezzi. Il vostro è stato un bell’incontro.

D: Straordinario. Avevamo una concezione diversa che però si è riuscita a sposare tramite un confronto profondo. Ad esempio il linguaggio: era difficile non farlo risultare troppo contemporaneo negli anni Settanta. Ferzan mi chiedeva come avrei detto alcune battute: io avrei usato un linguaggio troppo contemporaneo, ma lui ha pensato che toccare anche la generazione di oggi senza tradire l’epoca fosse un valore aggiunto.

La Viola di Skam, l’Artemisia di Placido, la Rosa di Una storia nera: Lea, tu interpreti spesso battaglie di genere che un tempo andavano quasi taciute, ma che oggi hanno ritrovato una forte dimensione politica.

L: È vero che c’è un filo conduttore quasi politico dietro le cose che faccio. Rosa è l’unica su cui non ho fatto questo ragionamento, perché lei prima di essere una donna è una figlia. Il confine tra giusto e sbagliato è compromesso dalla figura paterna, ma poi il risultato è inevitabilmente politico. Al contrario, con Viola ho cercato di trovare il tatto per parlare di molestie al liceo.

Cosa c’è nel vostro futuro?

D: Io sarò protagonista di un film che uscirà al cinema, Prophecy, ispirato all’omonimo manga giapponese [di Tetsuya Tsutsui, nda]. Mi sono divertito come un matto.

L: Io ho partecipato alla seconda stagione di SAS Rogue Heroes, serie BBC che per la prima volta mi ha dato l’opportunità di lavorare con una produzione internazionale.

E poi c’è sempre il sogno di un progetto condiviso: come lo immaginate? I Gavinos diretti dai D’Innocenzo suonerebbe bene.

D: Ehilà, una commedia leggera! La verità? Io non ho fretta. Perché è una carta che va giocata bene. E quando succederà, sarà una figata. Lea però deve fare un lavoro enorme, perché appena mi vede in scena ride. È un problema che va risolto!

L: Ma che posso farci? Magari ho la crisi di riso per un quarto d’ora, però poi riusciamo a lavorare. Comunque così sembra che rido solo io.

D: Certo, tu inizi e io poi ti vengo appresso come un cretino.

Damiano dice di avere “una fissa per i ricordi” e il cinema è tra i principali custodi della nostra memoria. Tra vent’anni come ricorderete questa prima cover insieme?

D: Come parte di un gioco serio.

L: Damiano, ma tu dici solo cose serissime? Allora io guarderò le rughe che non avevo. Non la appenderò in camera accanto al poster di Damiano, ma nel mio futuro vorrei fare un bagno delle cover. Questa entrerà sicuramente nell’album di famiglia, mamma non vede l’ora.

Fotografa Roberta Krasnig, Assistenti: Davide Valente, Sara Pinsone e Anna Dykhno; Stylist: Flavia Liberatori, Assistente: Carlotta Gallina; Hair Adriano Cocciarelli per @ADRIARE; Make-up Ilaria di Lauro per @IDLMakeup

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Enrico Borello, ogni volta una pelle nuova

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Alcuni lo ricordano in Lovely Boy di Francesco Lettieri, altri lo hanno scoperto in Supersex accanto ad Alessandro Borghi, e chi non lo ha visto arrivare se ne accorgerà presto, con il nuovo film di Gabriele Mainetti, stavolta da protagonista.

 Mi saluta citando Toro scatenato di Scorsese, una scena in particolare che maneggia come una bussola: «Robert De Niro rivela l’essenza del suo personaggio ma è completamente al buio. È in prigione, prende a pugni il muro, ripete “Io non sono cattivo”, ma non si vede mai in faccia». Per lui c’entra qualcosa con la forza di un attore che lavora in ombra, senza cercare a ogni costo la luce (in scena, nei ruoli, nella fama). Enrico Borello – una laurea in riabilitazione psichiatrica – ha iniziato a recitare tardi e di nascosto dagli amici di sempre, che avrebbero pensato «o sei un coglione o sei Billy Elliot». Alcuni lo ricordano in Lovely Boy di Francesco Lettieri, altri lo hanno scoperto in Supersex accanto ad Alessandro Borghi, e chi non lo ha visto arrivare se ne accorgerà presto, con il nuovo film di Gabriele Mainetti, stavolta da protagonista. Ha odiato il sistema, sta imparando a gestirlo e la vive come una partita a poker: «Io non bluffo mai, il punto lo dichiaro sempre. Poi la verità si vede in scena, quando siamo tutti sulla stessa barca e parliamo la stessa lingua».

Partiamo dalla fine: Gabriele Mainetti, una storia di kung fu ambientata a Roma, nel cast Ferilli, Zingaretti e Giallini, ma il vero protagonista sarai tu.

Sarò io insieme all’attrice Liu Yaxi. Di kung fu non ne capisco nulla, un film d’azione solo con me sarebbe stato troppo goffo. Per me la romanità è un fattore centrale, e me la sono giocata nella misura in cui Gabriele mi ha inserito nel contesto in cui sono cresciuto. Sono di Santa Croce in Gerusalemme e il film è ambientato a Piazza Vittorio, l’Esquilino è casa mia.

E se ogni attore porta in scena anche un po’ della sua storia, tu cosa ti porti dietro?

Elio Germano ha detto in un’intervista che la cosa migliore che può succedere a un attore è smettere di provare ad essere qualcun altro e imparare ad essere se stesso nel modo più potente possibile. Al momento mi accorgo che c’è una grande voglia di esprimermi e camuffarmi, senza nascondermi, ma cercando di trovare ogni volta una pelle nuova.

È il motivo per cui hai iniziato a fare l’attore?

Un po’ sì. Volevo vivere una vita che nella realtà mi costerebbe delle scelte da cui non si torna indietro. Volevo fare il maggior numero di esperienze possibili, però a rischio zero.

Quindi fino a che punto spingersi?

A volte mi è successo di rischiarmela. Psicologicamente ti puoi frammentare, nel nostro mestiere questo esiste e mi attrae. Per Lovely Boy sono stato quel personaggio dalla mattina alla sera, scrivevo canzoni, le registravo, per me il gioco era su tre livelli: non essere Enrico che interpretava il personaggio del film, ma essere un trapper che faceva un film sulla trap. Poi è stato problematico, ho capito che ci sono degli orari per fare certe cose, che la sera devi recuperare il tuo ritmo. Non sono Heath Ledger che sta facendo Joker, ma è vero che ti vesti dei panni di qualcun altro e certi vestiti te li porti dietro tutta la vita.

Questa è scuola Volonté o scuola Borello?

Macché Volonté! [ride] Queste sono esperienze collezionate. Per me non c’è scuola, maestro o persona che possa insegnarti a recitare. Quando sono entrato alla Volonté mi sono spaccato in quattro e alla fine ho capito che l’unica vera esperienza che si fa in un’accademia di recitazione è quella di misurarsi con l’altro: la lezione più importante, il banco di prova più utile. Ma se si tratta di stare in scena, io provo sempre a ricordarmi: cosa facevi quella volta che volevi essere il più bullo del quartiere? O quando pensavi che saresti diventato un medico psichiatra? Come ti comportavi, come hai cambiato pelle per stare all’interno di un ambiente?

Sei laureato in riabilitazione psichiatrica. Appartiene a un altro Enrico, oppure?

La pelle te la porti sempre dietro. Non credo a quello che dicono i Jedi, che devi disimparare ciò che hai imparato. Quando ho lavorato con le realtà più fragili dell’essere umano ho imparato a conoscere l’altro, anche negli aspetti che definiamo folli. L’esperienza di una psicosi è inafferrabile e incomprensibile, puoi simularla con delle sostanze stupefacenti ma non saprai mai che cazzo è.

Ti piace o ti spaventa l’idea di interpretare una psicosi che eri pronto a curare?

A un ruolo del genere mi affezionerei tanto, ma mi spaventa tutto. Io amo i ruoli morbidi, se potessi starei solo comodo. Quando interpreto personaggi violenti campo male, non sto bene, perché la violenza lavora dentro di te. Fare uno psicotico significherebbe fare i conti con un mare di violenza percepita.

Quando ti sei iscritto al primo corso di teatro lo hai nascosto a tutti: perché ti imbarazzava?

A ventidue anni era difficile raccontarlo agli amici. Sono sempre stato immerso nella Roma di tutti i giorni, che non è borgata ma è anche quella di chi lavora nelle officine o nei ristoranti, la cocaina la sera, le birre, e se dici che vuoi fare l’attore o sei un coglione oppure sei Billy Elliot. Quando ho iniziato a lavorare sul corpo e muovermi in modo strano, pensavo: “Mo’ sbuca l’amico mio Paoletto dalla finestra, me guarda e me fa: Enriche’, ma che cazzo stai a fa’?”

Hai raccontato che su Supersex Borghi ha sbloccato qualcosa dentro di te.

Ho sempre visto Borghi come una figura lontana, mitologica. Poi Alessandro mi ha sbloccato un processo umano: da lui mi sono sentito accolto, e sentirsi accolti in quelle situazioni non è una cosa da poco. Saper mettere l’altro a proprio agio richiede una grande forza, e questo mi ha fatto capire che davanti non avevo solo un grande attore che faceva parte del sistema.

Verso il sistema sei diffidente?

L’ho giudicato per tantissimo tempo. Poi Alessandro ha  rimosso una reticenza verso una realtà che per me era solo tossica. Quando “slivelli” ti accorgi che contano gli esseri umani e incontrarne uno del genere, nonostante il potere che il sistema gli riconosce, non è scontato. Mi capita di incontrarne altri e pensare: “Meno male che te vedo oggi e poi non te vedo più”.

Invece Gabriele Mainetti ti ha fatto capire cosa significa trasformare delle sensazioni in azioni. Vale a dire?

Che il mestiere dell’attore non è necessariamente sentire l’esperienza, ma a volte agirla, quando ti capita di non sentirla. Poter raggiungere la sensazione attraverso l’azione. Con Gabriele i take erano tanti, le scene difficili, le giornate lunghe. Lì se ti affidi solo alla sensazione, il corpo ti saluta. Deve subentrare l’aspetto atletico dell’attore.

L’attore che non è solo atleta delle emozioni.

Esatto. Con Gabriele ho trovato chiavi che aprono nuovi elementi del mio corpo. Ecco perché dico che la recitazione non te la può insegnare nessuno: arriva un momento in cui devi sopravvivere a quella scena. Ed è nell’urgenza che impari sempre qualcosa, il tuo corpo ti regala delle verità su se stesso e allora dici: “Questo farà parte del mio repertorio. Oggi ho capito che non so soltanto camminare, posso anche correre”.

Te lo sei meritato questo ruolo?

Me lo so’ faticato. Ho lottato, tanto. Per me è come una partita a poker, e io il punto ce l’ho. Non bluffo, non prometto cose che non ho in mano, il punto lo dichiaro sempre. Poi vediamo chi viene a vedere.

Credi che nella tua carriera stia per succedere qualcosa di grosso?

Io voglio crescere. Non faccio questo mestiere per la fama, anche perché, una volta ottenuta, che farei? A me piace il gioco, fare le foto per questa nostra cover, esprimermi. E quando la rivedrò tra qualche anno penserò: “Quante cazzate ho detto”.

Fotografa @robertakrasnig assistente @_davide.valente_

Stylist @flavialiberatori_ assistente @carlottagallina_

Hair @adriare

Makeup @idlmakeup

Abiti: @paulsmithdesign, calvinklein, @fendi @seafarer_since1900

 

Andrea Lattanzi: ogni tanto bisogna dare da mangiare ai demoni

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Andrea Lattanzi ci piace, e tanto. In scena ha l’istinto dell’animale sciolto, ma anche il paracadute sempre pronto: ha studiato molto, e questo gli evita lo schianto. La sua filmografia merita già attenzione: il premiatissimo Manuel di Dario Albertini, tre stagioni di Summertime su Netflix, La svolta di Riccardo Antonaroli, Grazie ragazzi di Riccardo Milani e tutto quello che – siamo sicuri – verrà, a partire dai due progetti in lavorazione (Io e il Secco di Gianluca Santoni e l’opera prima di Maria Tilli). Durante la chiacchierata ci ritroviamo a citare Marinelli e Germano, in particolare “quella scena” devastante in un film di Luchetti. Allora azzardo e faccio una scommessa: il suo destino è quello. Ha il talento naturale di far vibrare una battuta con un gesto, e quand’è così c’è poco da aggiungere.

Sei reduce da un altro viaggio a New York, dove tutto è iniziato.

È stato stranissimo tornare lì. Ci ho vissuto un anno e mezzo, avevo vent’anni ed era poco prima di girare Manuel. Ho fatto un tour nostalgia.

Quando l’hai lasciata avevi vent’anni, com’eri messo?

Male. Ero messo male [ride ndr]. Non c’avevo più una lira, ho dormito per strada. Chiamare mia madre non era fattibile, si sarebbe preoccupata.

Mi sembra di parlare con Patti Smith e Robert Mapplethorpe, questa tua New York randagia e pericolosa.

Guarda che sono finito in situazioni che, se sono vivo, è solo per miracolo. È stato bellissimo e traumatizzante. La verità è che ci ero andato per entrare all’Actors Studios, ma passavo lì fuori e non avevo il coraggio di entrare, mi metteva ansia e poi chissà che mi sognavo. Fatto sta che dopo un anno e mezzo ho trovato su Facebook un concorso RB Casting con Carlo Verdone, Lina Wertmuller e Daniele Luchetti in giuria. Bisognava portare un monologo in romanesco. Lì mi sono caricato, sono andato con la convinzione di voler vincere.

E se questo fosse un film, la prima svolta sarebbe il momento in cui tu dici a Verdone: «Però a me non me devi ferma’». Racconta.

Succede che su mille provinati, il ragazzo che si esibisce prima di me porta il mio stesso monologo. Assurdo. Carlo Verdone lo blocca dopo pochi secondi, perché aveva fatto pietà. Io capisco che non è aria e faccio per andarmene, invece mi sento chiamare: «Andrea Lattanzi». Mi blocco, mi giro, butto la borsa per terra e arrivo davanti a Verdone: «Guarda, ti porto lo stesso monologo di quel ragazzo». Lui allarga le braccia: «No, pure te!». E lì mi viene quella faccia da culo di dirgli: «Sì, però a me me lo devi fa’ fini’». Lui mi fulmina per qualche secondo, poi si infila le cuffie: «Ok. Quando vuoi tu». Faccio tutto, riprendo la borsa e poi esco in lacrime.

Stacco: ti chiamano, sei tra i dieci finalisti, e da lì parte tutto.

Sì, poi Dario Albertini vede il monologo incriminato su YouTube e mi chiama per il provino di Manuel.

L’amore per il cinema – hai raccontato – è nato per distrarti da certi demoni che ti porti dentro.

Ti dico una cosa: a me dà fastidio chi gioca su questa cosa, “io vengo dalla strada”. Chi viene veramente dalla strada non ci vuole più torna’. Io l’asfalto l’ho mangiato e non voglio stare qui a sfoggiarlo, anzi, me ne vergogno. Non ne parlo, perché ho fatto cose di cui non vado fiero. Quando dico che questo lavoro mi ha salvato la vita è vero, ma io ho studiato per farlo, era una passione. Però per tornare alla tua domanda: bisogna dargli da mangiare, ogni tanto, a ’sti demoni.

Sì, ma mentre il mondo brucia noi stiamo qui a parlare di cinema: voglio dire, perché fai l’attore?

Perché è una cosa che amo, e mi distrae da quello che accade intorno, dai disastri e dalla miseria. Ne soffro, ma anche qui mi dissocio dal metterlo sui social e partecipare alla fiera dell’ipocrisia. Da una parte pure quando recito mi tornano fuori i mostri, anche perché non sono uno stinco di santo. Vado tuttora in terapia, ogni tanto dico che dipende da questo mestiere, ma non è vero. Ci vado perché ho fatto un sacco di cazzate in vita mia. Ci sono state grandi mancanze che mi hanno lasciato dei traumi.

Manuel è il film che ti ha cambiato la vita. Hai detto che sei nato con il cinema d’autore ed è lì che vuoi tornare.

Io ho sempre voluto fare cinema d’autore, non avrei mai scelto di fare nessun altro tipo di progetto. Sono incazzato perché in Italia diciamo che non c’è più la cultura della sala, ma se tu un film come Manuel lo distribuissi nello stesso numero di copie che concedi ai film mainstream o americani, magari qualcosa cambierebbe, no?

Non c’è niente che ti pesa fare?

Mi pesa quando non trovo sensibilità sul set, quando manca tatto verso gli attori. Se lo fai notare, magari ti rispondono con l’esempio dell’America, “quell’attore però si è buttato in una vasca a meno venti gradi”. E certo, chissà in che condizioni di lavoro l’hanno messo per farlo, lì ci sono i soldi e le cose si fanno in grande. Ma io non vado a mori’ a meno venti gradi per i cazzi tuoi. Se non amassi così tanto questo lavoro, certe volte me ne andrei.

Quanto conta questa tua faccia in questa tua carriera? A Roma non ti definiremmo un bello canonico, ma uno che tira.

Io nel dubbio cerco sempre di fare bella figura ai provini. Germano o Marinelli per me sono bellissimi. Di essere un Ken non mi importa, non mi sono mai detto allo specchio: “Ammazza Andre’, quanto sei bello”. Il concetto di bellezza al cinema andrebbe davvero sdoganato, soprattutto per le attrici. Conosco colleghe bravissime che farebbero numeri rispetto ad altre che sono ora in circolazione. Però ci sono pure i belli e bravi, eh, non è che mo’ dobbiamo essere tutti intriganti.

Cover Fabrique: non ti chiedo cosa sogni, ma dove pensi di poter arrivare.

Ho tanta fame di questo lavoro e ho appena iniziato. Ho le idee chiare, quando vado a dormire me le proietto tutte in testa. Mi avevano preso per due progetti esteri importanti, ma ho dovuto rifiutare perché stavo girando altro. Il fatto che abbiano già bussato mi fa pensare che capiterà ancora. Non mi interessa andare fuori dall’Italia per avere successo, è che voglio vedere come fanno il cinema dall’altra parte. Qui, invece, sogno di lavorare con i più grandi registi che abbiamo

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Cinque validi motivi per vedere Call My Agent Italia

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Call My Agent Italia, l’attesissimo remake del fortunato format francese, ha dalla sua (almeno) cinque punti di forza rispetto all’originale. Eccoli:

1) Da Boris a Call My Agent Italia: Italians do it better

Terreno pericolante come pochi, quello su cui si incamminava Call My Agent Italia. A stargli con il fiato sul collo c’erano, direttamente da Parigi, il format originale con uno schieramento di star internazionali (Jean Reno, Charlotte Gainsbourg, Isabelle Huppert, Juliette Binoche, Jean Dujardin) e giocando in casa il mostro-sacro-Boris. Il confronto qui era immediato: si passa dal pesce rosso insider dei set all’italiana, al cane mascotte dell’agenzia di spettacolo CMA, Marcello (richiamato al suon di «come here», che fa già ridere così). Il tutto inevitabilmente ambientato a Roma, anche stavolta. Siamo nell’universo del meta cinema, della casta che svela i propri altarini in chiave comedy: e farlo in Italia dal 2007 in poi, senza provocare il paragone con Boris, è praticamente impossibile.

Invece il nostro Call My Agent non solo diverte e fila che è una meraviglia – scritto da Lisa Nur Sultan, sempre più forte, e diretto da un accuratissimo Luca Ribuoli – ma ci ricorda che questa è anche una delle cose che sappiamo fare meglio. Vuoi per scanzoneria innata o perché non ci resta che ridere, ma quando si tratta di autoironia siamo i migliori della classe. L’elenco di scene brillanti e battute che hanno il potenziale per tradursi in citazioni popolari “alla Boris” è davvero succoso. Dal tormentone sul nuovo mito del «ruolo femminile irriverente tipo Fleabag» (che ormai utilizziamo per vendere qualsiasi contenuto come “molto poco italiano”), all’attrice megalomane senza talento incarnata da Emanuela Fanelli (se vogliamo, spassoso update della “cagna maledetta” firmata Crescentini), ma anche a gag che inquadrano le dinamiche penose del lavoro all’italiana (di cui Biascica rimane il portavoce per eccellenza): «Non non sei tu che te ne vai – urla l’agente alla sua assistente under 30 – ma sono io che ti licenzio! (pausa) Che cazzo dico, non sono io che ti licenzio senza giusta causa, ma sei tu che te ne vai». D’altronde Favino sale sul palco dei David, farfuglia in spagnolo ma riceve comunque la standing ovation perché è Favino, mentre Sorrentino orchestra un pesce d’aprile proponendo la terza stagione sul Papa con Ivana Spagna, Madonna e Lino Banfi, senza che nessuno osi battere ciglio… Un po’ come quando René Ferretti dava del «genio!» a chiunque lasciando il re nudo, no?

2) I “pacchetti agenzia”: è outing

Ebbene sì, Call My Agent Italia lo fa: inserito en passant durante una scena tra Maurizio Lastrico e Kaze (il contesto è un litigio tra agente e attrice esordiente), la serie mette in bocca all’agente il famoso segreto di Pulcinella. La questione funziona più o meno così: in fase di casting c’è sempre una gerarchia di ruoli ed interpreti; allora può capitare che se per il tuo film vuoi il pezzo da novanta della mia agenzia, in cambio mi prendi anche alcuni attori minori tra quelli che rappresento. È una moneta di scambio, discutibile o meno, che tutti conoscono ma che nessuno dichiara apertamente. Per questo la battuta ha il retrogusto di un outing: «Ho fatto quello che fanno le agenzie – ammette il personaggio di Lastrico – cioè dei pacchetti. Ho cercato di prendere due piccioni con una fava». Dopotutto chi si era mai vantato di “smarmellare” prima che Duccio aprisse le danze? Insomma, i cast di certe serie tv con cinque o sei attori provenienti dalla stessa agenzia, e gli aneddoti su callback e ruoli vinti per legittima bravura ci lasciano un po’ disorientati, ma qui il dubbio sulla leggenda dei pacchetti viene risolto «così, de botto». E amen.

Call My Agent Italia
Sara Lazzaro in “Call My Agent Italia”.

3) Sofia e Monica: un passo avanti ai francesi

Che poi non è che in Dix pour cent filasse proprio tutto liscio, specialmente in termini di scrittura. Su certi personaggi solidissimi e originali (in primis la Andréa Martel di Camille Cottin) gravava il peso di altri ruoli abbozzati in modo macchiettistico e un po’ ridicolo, poi corretti nel corso delle stagioni. Noémie e Sofia (nella versione originale Laure Calamy e Stéfi Celma) sono l’esempio meno riuscito. Nel nostro remake italiano, invece, si ha l’impressione che già in sceneggiatura siano state individuate e rifinite proprio queste mancanze, riscrivendo i personaggi con l’obiettivo di superare frivolezze e momenti d’imbarazzo. La Monica di Sara Lazzaro e la Sofia di Kaze brillano per caratterizzazione e interpretazione – non per riflesso – e acquisiscono una nuova dignità. Entrambe portano a un’imprevedibile riscoperta dei due ruoli: chapeau.

4) Viva Jean Reno, però…

Sorrentino fa Sorrentino. Entra in scena annunciato dal primo piano di una suora, dispensa aforismi sulla vita e si prende gioco di tutti, a partire da se stesso (non dimentichiamo i pionieri del format “Sorrentino che imita Sorrentino”: i The Jackal). Accorsi fa Accorsi. E qui è davvero uno showman di prim’ordine, tra il santone del cinema italiano e il ragazzaccio ancora tormentato di Radiofreccia, sempre ossessionato dalle sue due cose preferite: l’Emilia Romagna e «l’ennesima idea di Stefano Accorsi». Favino è esilarante. Rimane il dubbio che la sua, più che una partecipazione, sia una richiesta d’aiuto: “Pietà, smettetela di prendermi così sul serio”. E poi tra De Angelis che manda al diavolo il web politicamente corretto e Cortellesi che studia il proto-etrusco mostrandoci (di nuovo) quanto ci incensiamo anche in quelle occasioni, arrivano loro due: Guzzanti e Fanelli, insieme. Che vorresti ridere ma non ci riesci, per quanto fa ridere.

5) Perfetti sconosciuti e Bali: la storia ci insegna che

Due moniti grossi come monoliti, da non sottovalutare solo perché siamo in piena commedia. Primo: un cinema senza coraggio e senza lungimiranza, è un cinema perdente. Il più grande errore commesso alla CMA ha un nome, un cognome e un titolo venduto in 80 paesi per un incasso globale di 320 milioni di dollari: Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese. Il poster del remake coreano campeggia sulla macchinetta del caffè dell’agenzia per ricordare a tutti che quando un regista propone un’idea insolita, un agente dovrebbe pensarci bene prima di rispondere: «Non suona. Messaggini e spuntine blu? Ma fai Immaturi 3, non rompere il cazzo».

Secondo: al netto del fatto che Call My Agent Italia fa satira, la maggior parte di ciò che mostra corrisponde alla realtà. Quel tipo di adrenalina è davvero il motore della nostra industria, ma il senso di ridicolo che spesso ne scaturisce… pure. Il segreto per prenderla con leggerezza e ricordarci che non siamo a questo mondo per salvarlo, ma al massimo per intrattenerlo un po’, è nei primissimi episodi. Questa storia inizia quando il fondatore dell’agenzia, in videocall dall’Indonesia, annuncia a tutti di voler mollare la baracca: «In un pianeta dove esiste Bali, me vuoi di’ perché devo mori’ a Roma Prati?». Ma infatti: perché?

 

 

 

 

Beatrice Grannò: Meglio la verità della perfezione

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Se Beatrice Grannò è il talento emergente sulla cover di Fabrique n. 38 è anche doveroso chiedersi dove e come stia emergendo, dopo anni di carriera: all’estero, intanto. E nella musica, presto. Perché in mezzo a tanta recitazione, datele un pianoforte, un microfono e un po’ di folk… e non è detto che si volti indietro a guardarvi.

Era sul set di Doc – Nelle tue mani 2 quando ha scoperto di aver vinto il provino per The White Lotus: Sicilia. In pochi giorni è scappata a Taormina per iniziare le riprese di una serie internazionale amatissima dalla critica, che di lì a poco avrebbe dominato gli Emmys in mondovisione. Viaggiando tra Italia e Stati Uniti, ovvero tra Rai ed HBO, ma anche tra un personaggio drammatico e tormentato (Carolina in Doc) e una nuova versione di sé impudente e maliziosa (Mia in The White Lotus), Beatrice Grannò si porta già dietro un bagaglio da mestierante: l’accademia di Londra, il teatro di strada, il film di Cristina Comencini in cui è co-protagonista accanto a Giovanna Mezzogiorno (Tornare, del 2019) e quello di Leonardo Guerra Seràgnoli tratto da Gli indifferenti di Moravia (con un paio di scene durissime, insieme ad Edoardo Pesce). E poi, certamente, Security di Peter Chelsom, la serie Netflix Zero e quel film di nicchia a cui lei resta sempre legata: Mi chiedo quando ti mancherò di Francesco Fei.

Quindi sei con un piede nella serie di punta Rai, e l’altro nella HBO: sogni o sei desta?

Pensa che ero sul set di Doc e mi sono ritrovata a fare il provino per The White Lotus, mi sembrava una realtà così lontana. Quando Mike White [nda: autore della serie] è venuto a Roma per l’audizione dal vivo, il tutto è durato dieci minuti… E dopo una settimana ero già sul loro set. Mi ci sono ritrovata catapultata.

Serialità mainstream e serialità di nicchia: parliamone.

La cosa interessante di White Lotus è che oggi è molto popolare in America, ma quando uscì la prima stagione rientrava nelle serie con una grande identità autoriale, osannata dalla critica. Quindi di primo impatto per me non aveva l’aria di essere una serie-evento tipo Euphoria o Succession. Il successo enorme è arrivato con gli Emmys: lì si è iniziato a capire che la nicchia poteva diventare popolare. Allo stesso tempo ricordo che mentre stavamo girando The White Lotus a Taormina era appena uscita Doc2 ed io ero in copertina su TuStyle. I miei colleghi americani pensavano che fossi chissà chi, e a me veniva da ridere.

Il contrasto tra i due personaggi è piuttosto forte: in Doc sei la fragile figlia di Argentero, in The White Lotus una giovane donna ammiccante e spregiudicata.

Quello che mi piace del personaggio di Mia, in contrapposizione a ciò che ho sempre fatto anche con Carolina in Doc, è che inizialmente lei è reticente ma quando poi prende il via non ha mai un momento di vulnerabilità. E invece tutto ciò che è dramma per me funziona. Io mi sento molto serena nel raccontare personaggi in difficoltà, mentre Mia in un certo senso non dubita mai di sé, è quasi comica quando ripete “I’m a great pianist, I can sing very well”. Non fa che dire: “Sono pazzesca, sono bravissima e mi merito tutto”.

Quindi una drama queen come lavora sull’anti-drama?

Spesso scherzavo con Mike: “Ma questa Mia non ha mai un momento di crollo? Perché io questa cosa la so fare benissimo, fammi versare una lacrima, dai!”. In realtà è stata una grande sfida per me raccontare un personaggio così pieno di sicurezza, con una forza femminile che tuttavia non rientra nello stereotipo, perché Mia è determinata quanto maldestra.

Hai vinto un provino ambitissimo: come è andata?

La verità è che a volte, quando ottieni questi ruoli, la vera fortuna sta nell’essere molto vicina all’idea che il regista ha di un personaggio in sceneggiatura. Mike stava cercando un’attrice italiana, che avesse un’energia innocente ma che fosse disposta a tutto per realizzare il sogno di cantare e suonare. Mi sono detta: “Ok Beatrice, questa è roba tua”. Mi sono presa vari giorni per allenarmi con il siciliano e una domenica ho convocato a casa un gruppo di persone che mi aiutassero a preparare il selftape. Io e Simona Tabasco eravamo sul set di Doc mentre studiavamo entrambe per i provini di Mia e Lucia, e ci siamo divertite così tanto che le dicevo: “Simo’, ma ci pensi se questa cosa succede davvero?”.

Mi piace l’idea di chiedere a un’attrice che debutta in una serie internazionale pluripremiata: quanto ti è tornata utile l’esperienza della lunga serialità italiana?

Il set di Doc mi ha insegnato a mantenere una concentrazione costante con dei ritmi sempre incalzanti, perciò quando sono arrivata a girare The White Lotus ero allenata. Però era un lavoro del tutto diverso, perché dal dramma sono passata alla commedia. Mi sembrava di essere tornata a Londra, con il mio direttore di accademia che ci ricordava di essere liberi e spontanei. Bisognava che trovassi delle cose mie da portare nel personaggio, per renderlo comico ma anche unico. L’obiettivo era che Mia e Lucia tenessero sempre un’energia molto alta nell’economia della storia. Io dico sempre che sono come due biglie che vengono lanciate in questo albergo di lusso per alterare gli equilibri delle famiglie…

E tu, guarda caso, sei una biglia che canta e suona il piano.

Tutto in live session. Per la prima volta mi stavo esibendo dal vivo con un pianoforte a coda, e lo stavo facendo davanti a tutti, su un set americano così importante. Ero preoccupata ma il regista voleva che la performance fosse reale, anche con dei piccoli errori e dei momenti di respiro. È stato liberatorio, mi ha fatto staccare dall’idea di dover sempre ottenere la performance perfetta: ho sacrificato la perfezione in cambio della verità.

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Foto di Roberta Krasnig; Stylist Stefania Sciortino; Makeup Ilaria di Lauro per IDLMakeup; Capelli Adriano Cocciarelli per Harumi; Prodotti per capelli: Body e Sun Schwarzkopf Professional 

Agrodolce, una storia di sognatori

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Quattro ragazzi, quattro vite diverse, quattro sogni difficilmente realizzabili. Ambientata in una cittadina della pianura padana, questa è una storia di ventenni, vista dallo sguardo di un ventenne. Marco, Cecilia, Tommaso e Paola, i protagonisti del film, sono dei gran sognatori e immaginano nel loro futuro la realizzazione delle loro aspirazioni e il riconoscimento delle loro capacità. Inseguono i loro sogni con determinazione, con passione e con grande fiducia… ma sbatteranno presto contro la dura realtà.

Scrive MyMovies: «Alessandro Prato, al suo primo lungometraggio totalmente autoprodotto, mostra un controllo del mezzo nonché un’abilità nel fare casting e poi nel dirigere gli attori che non molti film di esordienti possiedono». 27 anni, nato a Cremona e trasferitosi a Roma, nonostante la giovane età Prato si è formato lavorando con maestri come Pupi Avati, Giancarlo Giannini, Tonino Zangardi e Abel Ferrara, che lo ha scelto per recitare accanto a Willem Dafoe nel suo film Tommaso. Proprio nella sua città il regista è tornato ad ambientare la sua opera d’esordio, Agrodolce, per cui ha scelto un titolo tutt’altro che casuale, in riferimento alla vita di una generazione che gravita attorno a soddisfazioni e dolori: «Cremona mi ha regalato location di notevole bellezza: Piazza del Duomo, Palazzo Raimondi, Palazzo Araldi – Erizzo, la campagna cremonese, il parco Po, i licei, le botteghe di liuteria: questa città è la più importante al mondo per la costruzione di strumenti musicali ad arco».

Il film è vincitore del Premio Utopia alla 35ª edizione del Festival del cinema giovane – Castellinaria (in Svizzera), dove il regista è stato premiato per aver diffuso «la magia dell’utopia e del ‘non luogo’, ma pure di concetti quali la scoperta, la ricerca interiore, il sogno, il coraggio, la solidarietà, la giustizia e la bellezza». Già apprezzato dalla critica e dal pubblico per l’attualissima tematica trattata, la scelta e la direzione del cast e la capacità di Prato di strutturare un racconto coerente e sincero, in cui i personaggi raggiungono l’identità di persone reali, Agrodolce è ora disponibile su Amazon Prime Video, Google Play ed Apple Tv, distribuito da Direct to Digital.

2Flows. La musica attraverso chi la vive

She è una cantante di successo annoiata dalla vita che viene sfruttata dal suo manager Cristiano, uno squalo del settore musicale. Luca, aka Tempo, è un artista che lavora come lavapiatti per aiutare la madre ad estinguere il mutuo della loro casa. Luca, dopo aver inciso la sua nuova canzone con l’aiuto dei suoi amici Marco e Boro, scopre che il suo ultimo video è diventato virale su tutti i social. Grazie a questo successo viene notato e contattato da Cristiano che gli dà appuntamento al Blue Velvet, un locale molto rinomato in città. È lì che i destini di Luca e She si incroceranno grazie alla mano inconsapevole di Cristiano che, seppur non volendo, cambierà per sempre le vite dei due ragazzi.

Presentato a Torino, 2Flows è ora disponibile su Amazon Prime Video, Google Play e prossimamente su Apple TV distribuito da Direct to Digital. Il titolo si rifà ad un gioco di parole che rappresenta due diversi flussi di vita ma anche due stili di rap. D’altronde la particolarità del film è nella sua stessa natura: questa è una storia sulla musica interpretata da artisti veri, che raccontano con onestà e passione tutti i sacrifici, le ansie e le emozioni di chi la musica la sogna, ma cerca anche di farne un mestiere.

Nel cast: Nicolò Bertonelli (Oltre la soglia; Braccialetti Rossi 3; The Christmas show), Maria Teghini, Gianmarco Bellumori (La grande bellezza), Roberta Carluccio (influencer da 2 milioni di follower), Alessandra Carrillo (1994; Il processo; Oltre la soglia; Il paradiso delle signore; Luna Park), il noto rapper Boro Boro, il rapper Vaz Tè e il producer-dj Zero Vicious.

Ambientato nella scena rap torinese, 2Flows mette a confronto la vita dei musicisti protagonisti evidenziandone le differenze: c’è chi come Luca sogna di emanciparsi dalla periferia per diventare un rapper famoso, e chi, come She, è già una cantante affermata ma soffre nel rigido mondo dello showbiz. La vera sfida sarà capire dove trovare la felicità… senza mai rinunciare ai propri sogni.

Il nostro nome è Anna: Anne Frank oggi

Anne Frank è il simbolo di tutti i bambini che furono vittime della Shoah, ma anche di coloro che oggi continuano ad essere discriminati. I suoi ideali sono condivisi attraverso gli occhi di Anna, un’adolescente dei giorni nostri.

“Cosa succede quando gli ideali di Anne Frank si scontrano con la vita quotidiana del nostro tempo?” si è chiesto il regista Mattia Mura Vannuzzi, contattato da Federica Pannocchia, Presidente dell’Associazione di volontariato Un ponte per Anna Frank, con l’obiettivo di capire come trasmettere al giorno d’oggi i valori presenti nello storico diario. Immaginando il candore e la maturità di una giovane Anna contemporanea (qui interpretata da Ludovica Nasti in stato di grazia), e affidandosi al realismo magico che il cinema concede.

Il nostro nome è Anna
Ludovica Nasti in Il nostro nome è Anna

«Anne Frank non è solo il simbolo di quei bambini che sono stati uccisi durante il nazionalsocialismo – dichiara il regista – ma anche di tutti coloro che vivono al limite della società». Il riferimento è senza dubbio agli aspetti più cupi della nostra attualità: dal movimento #BlackLiveMetters in America agli emarginati, i richiedenti asilo siriani, i rifugiati e qualsiasi vittima dell’indifferenza: «Di fronte al filo spinato del campo profughi dell’Isola di Lesbo ho avuto gli stessi brividi che mi hanno colpito prima di entrare ad Auschwitz, e ho sentito un’eco che è come un graffio nell’anima del mondo. Nel silenzio e nel consenso, il mondo ha chiuso gli occhi e ha lasciato che accadesse, e a volte vedere è ciò che ci separa dall’incredibile». E così che Anna, oggi più che mai, incarna una speranza e anche un sogno della coscienza.

Parte di un percorso di sensibilizzazione più ampio, Il nostro nome è Anna è stato proiettato nelle scuole e nelle biblioteche per arrivare direttamente agli studenti, ovvero i giovani che stanno crescendo e cresceranno ancora nel mondo attuale. Dalle parole di alcuni di loro emerge tutta l’importanza della divulgazione culturale, come nel caso di K., 10 anni: «Mi sono sempre sentita diversa, inoltre a casa i miei genitori litigano sempre… con Il nostro nome è Anna ho capito come essere felice». Il cortometraggio è ora disponibile anche su Amazon Prime Video, distribuito da Direct to Digital.

Ambrosia Caldarelli, protagonista di Circeo: “sul set avevo sempre la voce di Donatella nelle cuffie”

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Alcuni insider dal set di Circeo (la nuova secretatissima serie di Andrea Molaioli, prodotta da Cattleya con VIS per RAI e Paramount+ Italia) ci riportano commenti estasiati su una giovane attrice che interpreterà Donatella Colasanti nella pagina più avvincente della sua vita, quando dopo essere sopravvissuta al massacro del 1975 è diventata il simbolo del movimento femminista nel nostro Paese.  Lei si chiama Ambrosia Caldarelli, metà pugliese e metà romana, cresciuta a Trastevere con San Callisto nel DNA. Voce rauca e sguardo che sa mettere in soggezione, una faccia camaleontica che si presta a tutto: le prime foto già stanno circolando, la vediamo trasformata dal make-up e dallo studio maniacale del personaggio.

Tra spot, TV e qualche ruolo nel cinema (l’ultimo nel delicatissimo Il filo invisibile di Marco Simon Puccioni), Ambrosia sta per essere lanciata come protagonista da due progetti che hanno investito molto su di lei: oltre a Circeo (dove sarà affiancata da Greta Scarano e Angelo Spagnoletti) arriverà il film Non sono quello che sono, un dramma torbido diretto e interpretato da Edoardo Leo.

Ambrosia, come il nettare che rende immortali gli dei…

Mia madre una volta sfogliò I fiori del male di Baudelaire e lesse nella poesia L’anima del vino di un’«ambrosia vegetale». Qualche anno dopo aprì un cassetto nella biblioteca dell’università e ci trovò scritto dentro «ambrosia». Troppe coincidenze, quindi contro tutto e tutti decise di chiamarmi Ambrosia. Mi piace molto, non ce l’ha nessuno.

Ed è difficile da dimenticare, ottimo per questo mestiere. Quando hai capito che volevi fare l’attrice? È stata un’epifania o un percorso?

Diversi anni fa io e le mie amiche ci siamo ritrovate in fila per dei casting, sembravano i provini di X Factor però al Nuovo Sacher, per un film di Moretti. Ci fotografavano con un numeretto, era un evento di massa. Senza che me lo spiegassi mi hanno richiamata per un ruolo. Mi sono ritrovata a fare un provino con Nanni: ero andata con l’idea di fare la comparsa per gioco e mi sono ritrovata con un grande del cinema. Ovviamente è stato un disastro totale, però qualcosa dentro mi è scattato.

Cos’è che ti ha emozionato, quella prima volta?

Dare voce a un personaggio. A pensarci bene, oggi è quello che mi spinge a fare questo lavoro. Infatti ora non mi vedrei a fare nient’altro… che rischia pure di essere un problema [ride].

Con Circeo hai dato voce a un personaggio che più complesso di così non si poteva, Donatella Colasanti. Sarà il primo ruolo da protagonista con cui il pubblico ti conoscerà. Ci si può mai sentire pronti per un ruolo del genere?
È proprio quello il punto, forse non ci si sente mai pronti. E forse l’ho fatto anche per questo, perché se ci avessi pensato troppo avrei rifiutato. Ho studiato moltissimo ma mi sono anche un po’ buttata… sennò non ce l’avrei fatta.

Com’è arrivato questo ruolo?

Era uno dei mille self-tape, ma notavo che continuavano a chiamarmi. Al sesto provino ho iniziato a crederci un po’. Quando mi hanno telefonato per dirmi che mi avevano presa stavo lavorando in un ristorante come cameriera, ero in pausa e ho urlato davanti a tutti. Ricordo che dall’inizio ho iniziato a informarmi e poi ad affezionarmi a Donatella. Era pesante anche solo la preparazione, perché non facevo che guardare i video di repertorio.

Ho l’impressione che tu abbia un fortissimo senso della disciplina…

Hai ragione. Se faccio qualcosa diventa totalizzante. Ma non è un vanto, credo sia questione di carattere. Se ho un progetto in ballo io non esco di casa, entro in modalità secchiona. Anche quando facevo la cameriera la vivevo così, penso sempre che se mi è arrivata una cosa devo tenermela. Nessuno ti regala niente.

Interpretare una storia vera: come hai trovato l’equilibrio tra fedeltà verso la persona reale e libertà verso il tuo lavoro sul personaggio? È uno dei tranelli più difficili del mestiere…

Sai, ho studiato tantissimo Donatella, i video in cui parlava, la sua postura, la gestualità. Sul set avevo sempre nelle cuffie la sua voce. E mi è piaciuto osservarla, farla mia, cercando sempre di non esagerare. Non ho un metodo, magari ce l’avrò in futuro. Oggi non so spiegarti come faccio, ma so che una volta dato lo stop torno a casa e sono io. Non continuo a essere il personaggio, anche perché cinque mesi sempre nei panni di Donatella sarebbero stati devastanti. Io la vedo così: è comunque un lavoro, e a un certo punto della giornata devi uscirne.

A questo punto non giriamoci intorno: nel film di Leo che ruolo avrai?
È una storia psicologicamente violenta, dominata dalla gelosia. Ho il ruolo di una ragazza che si sposa molto presto per poi subire delle violenze dal suo compagno.

Lo chiedo a tutte le cover: se in questo momento guardi il nuovo cinema italiano, cosa vedi all’orizzonte?

Vedo tante facce nuove, finalmente. Ci sono attori che non vengono notati ma che sono bravissimi. In Circeo c’erano colleghi giovanissimi, anche con ruoli minori, che però tenevano la scena con grande potenza. Allora mi auguro che non vengano scelte sempre le stesse persone. E che venga premiata la bravura, non solo la bellezza. Soprattutto quando si parla di attrici spesso si guarda all’immagine e non all’interpretazione. Va bene l’estetica, ma l’anima?

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Fotografa Roberta Krasnig, Assistenti Sonia Pagavino, Gina Lisa Paccagnella

Stylist Stefania Sciortino, Assistente Giulia Laface

Capelli Adriano Cocciarelli@Harumi

Make-up Ilaria Di Lauro@idlmakeup Assistente utopia.sfx@idlmakeup

Prodotti per capelli Body e Sun Schwarzkopf Professional

Abiti Patrizia Pepe, Philipp Plein

LOCATION: Borgo Ripa/Roma

L’età dell’innocenza: il giudice, mia madre

28 maggio 1974, Brescia. Una bomba nascosta in un portarifiuti esplode ferendo 102 persone e uccidendone altre 8, durante una manifestazione contro il terrorismo neofascista. Una delle piazze più famose del bresciano diventa all’improvviso un sostantivo macabro del vocabolario italiano, come succede solo alle località colpite dalla cronaca nera: La strage di Piazza della Loggia. 43 anni dopo il giudice Anna Conforti pronuncia l’ultima sentenza del processo e della sua carriera: «È stato il momento in cui ho deciso di fare questo film, L’età dell’innocenza. Mi sembrava che stessimo vivendo tutti e due, in contemporanea, un momento di passaggio importante. Io me n’ero andato di casa da poco, mia madre stava per chiudere la sua vita lavorativa con una sentenza storica».

A parlare è Enrico Maisto, autore del docufilm L’età dell’innocenza, prodotto da Start e Rai Cinema e premiato al 62º Festival dei Popoli come Miglior documentario italiano. Attraverso lo spirito young-adult, e senza voler più trovare risposte né emettere “sentenze”, Maisto racconta la storia vera del distacco tra lui e sua madre, filmandola nel suo ultimo giorno di lavoro alla Corte d’Assise di Milano. «Pensa che all’inizio immaginavo un film molto più cupo, con un sentimento di lutto rispetto a un’epoca che finisce. Poi la commedia della vita è entrata a gamba tesa».

Dopo l’ultima sentenza la telecamera spia la coppia di genitori in cucina, dove regna un silenzio quasi mistico. Senza mai romperlo, il marito dà alla moglie una pacca leggera sulla spalla e poi un bacio, sempre piccolo e sempre sullo stesso punto. La delicatezza è quella dell’Amour di Haneke, ma senza messa in scena. «Due ergastoli. Chiudere una carriera con due ergastoli è pesantissimo, ti sconvolge anche se sei convinto che sia la scelta giusta. Tornati a casa dopo la sentenza, nell’aria c’era il senso della fine e anche il rendersi conto che tutti i telegiornali già ne stavano parlando. Mia madre, ovunque fosse in quel momento, era irraggiungibile. Solo lei può sapere cosa stava provando, noi le giravamo intorno senza capire come accarezzarla. Mio padre era l’emblema di questa tensione, e alla fine è venuto fuori un gesto molto semplice, che dice tutto di quel momento e di loro due».

Enrico Maisto è nato alla fine degli anni Ottanta, figlio di magistrati in un’epoca in cui esserlo conferiva un’aura di timore e insieme di ammirazione. «In quegli anni sono successe due cose fondamentali rispetto alla magistratura: le stragi, che hanno trasformato i giudici in martiri, e poi Tangentopoli, che prima li ha visti come degli eroi e poi, con l’arrivo di Berlusconi, ha rovesciato totalmente la loro immagine. Ma il periodo in cui erano sia martiri che eroi ha coinciso con il momento in cui io ero più piccolo, e questo ha lasciato un segno profondo. C’era anche la paura di perderli, che li ammazzassero. Arrivavano echi dagli anni di piombo, i delitti di mafia, quelli legati al terrorismo politico. L’aspetto di morte, lugubre e tetro, ancora risuonava. Così da piccolino mi è venuto da fare questo paragone tra la toga di mia madre e il mantello di Batman. Nel ’92 avevo quattro anni ed erano appena usciti i primi film di Tim Burton, che mi hanno investito in pieno. Non è un caso che il mio eroe preferito sia un orfano».

L'età dell'innocenzaImpenetrabile, ironica, mordace. Anna Conforti è un magistrato rigido e perso nei silenzi del film, che poi d’improvviso si fa carico di tutta una comicità materna dal retrogusto alla Zerocalcare (è uno spasso vederla uscire fuori dalla TV, mentre al telegiornale scorrono le immagini della sentenza, e andare a parlare col figlio assumendo quasi le sembianze di Lady-Cocca). «Mi sono reso conto che mia madre era un personaggio bellissimo, da film. Non ho fatto nient’altro che provocarla perché si potesse rivelare. Lei ha questi lampi, queste frasi che hanno un carattere quasi lapidario. A volte sono molto divertenti, altre molto incisive».

Tra le frasi più forti (rispetto a ciò che ci aspetta che una donna pensi e dica, ancora oggi) Anna confessa: «Non voglio giudicare più, e soprattutto non voglio più essere giudicata. Perché chi giudica alla fine viene giudicato sempre». Maisto commenta: «Vai a costruire le tue piccole trappole per provocare i bersagli del film ma poi succede qualcosa che ti spiazza. Quel momento rappresenta il logoramento che quel ruolo ha prodotto in mia madre in quarant’anni di professione. La fatica, il convivere con la paura del dubbio e dell’errore, il desiderio di liberarsi di questa toga. Non è un caso che quando lei dice di non voler più giudicare inizi anche un dialogo nuovo tra di noi».

«Mi sono innamorata di te e della maternità poco per volta… Che poi, quando c’ero riuscita, tu te ne sei andato. Che sfiga, eh?». L’altra frase è fulminante, eppure Enrico-figlio non solo la accoglie, ma da regista sceglie anche di inserirla nel film. «È una frase che ti rovescia addosso un bel senso di colpa. Esprime tutto il suo desiderio di volersi riappropriare di quello che ha perduto a causa del lavoro, di tutti i momenti della vita in un colpo solo». E di far pace con il periodo storico in cui Anna ha iniziato ad essere madre e giudice insieme, che ha più a che fare con le aspettative sociali mancate che con le mancanze di un genitore.

Divertito all’idea che il suo terzo film sia uscito in sala insieme a Top Gun: Maverick – «Ovviamente lo so solo io, Tom Cruise non ne ha idea» – Maisto nota che mentre Cruise è arrivato a pilotare aerei per far coincidere la sua persona con il personaggio (sul mito di quel cinema partito negli anni Ottanta che sognava da bambino), lui stia invece portando avanti una narrazione che «fa i conti con un uomo fragile e vulnerabile, diverso da quei modelli maschili introiettati in passato». Enrico incarna una dimensione generazionale, il conflitto di quelli nati sotto il segno dell’adolescenza perpetua e che non smettono mai d’essere figli. Il confronto con sua madre è spietato: uno va via di casa a trent’anni, l’altra chiude il capitolo di una strage italiana. Si scrutano e quasi non si conoscono: l’età dell’innocenza del figlio si conclude quando inizia quella della madre.

Questa è un’anticipazione dell’articolo che sarà pubblicato per intero sul prossimo numero di Fabrique du Cinéma, disponibile solo per gli abbonati: per abbonarti vai sulla pagina Fabrique du Cinéma/Abbonamenti