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Aurora Caruso

L’afide e la formica: la corsa verso la libertà di Mario Vitale

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Premiato ai Fabrique du Cinéma Awards 2021 come Migliore opera prima italiana, L’afide e la formica di Mario Vitale racconta la storia di Fatima (Cristina Parku), sedicenne nata in Calabria da genitori marocchini, e di Michele (Beppe Fiorello), suo insegnante di educazione fisica. Tra i due si instaurerà un rapporto di simbiosi che cambierà radicalmente le loro vite. Il film, distribuito da Zenit Distribution e prodotto da Luca Marino per Indaco Film in collaborazione con Rai Cinema, dopo essere stato proiettato in alcune sale italiane, da domani approda su Sky Cinema e Now Tv.

Mario, quali sono le motivazioni che si nascondono dietro al titolo L’afide e la formica?

Nasce da un dialogo del film in cui i due protagonisti parlano di due insetti, l’afide e la formica, e prendono questo esempio di simbiosi in natura per descrivere il loro rapporto. Il film racconta di due personaggi che si scambiano emozioni, che entrano in contatto l’uno con l’altro aiutandosi vicendevolmente. Mi piaceva porre l’accento sullo scambio culturale ed emotivo che c’è tra i personaggi.

Il film è stato girato a Lamezia Terme, dove sei nato. Perché hai scelto la Calabria come scenario della storia?

Ci tenevo a raccontare una storia legata alla mia terra diversa rispetto alla narrazione stereotipata a cui siamo stati abituati in questi anni. Allargando inoltre il discorso ai nuovi cittadini italiani: gli immigrati di seconda generazione. Il mio sogno è sempre stato quello di fare cinema in Calabria e questa storia nasce ambientata nella mia città. Mentre scrivevo la sceneggiatura con gli altri autori i luoghi che descrivevamo erano quelli in cui ho vissuto, ed è stato automatico trasportarli nella realtà durante le riprese.

Come avete affrontato la costruzione di un personaggio attuale come quello di Fatima?

Sono da sempre un appassionato di film che hanno come tema la crescita, all’adolescenza realizzati negli anni ’80, come Stand by Me. Per raccontare Fatima ci siamo calati nel profondo di questi nuovi cittadini italiani provando a immaginare quale potesse essere la loro adolescenza, documentandoci anche attraverso varie testimonianze. Ma i temi principali dell’adolescenza sono comuni a tutti, che tu sia italiano, calabrese o marocchino.

L'afide e la formica
(ph: Giuseppe Carchedi)

Fatima è in una zona grigia: non sa chi è, se è italiana o marocchina. Rappresenta la generazione Z che rompe con il passato creando nuove identità…

È una nuova identità che prescinde dal luogo in cui nasci e cresci, legata specialmente alle emozioni e le vicissitudini che si affrontano nella vita. A un certo punto del film Fatima dice: «Non so se sono italiana, non so se sono marocchina. Io so solo che voglio essere come tutti gli altri». Forse neanche a lei interessa sapere se è italiana o marocchina. È così importante darci un’etichetta? Magari no, magari bisogna essere solo degli esseri umani che cercano la felicità e la libertà.

Ispirato dal coraggio di Fatima anche Michele (Beppe Fiorello) abbatte il muro del silenzio e della paura. Entrambi usano lo sport come mezzo di liberazione dal passato.

Nel film lo sport, rappresentato dalla corsa, ci sembrava la metafora giusta per parlare di un percorso. La corsa è sia voglia di scappare, come dice Michele a Fatima, sia la metafora giusta per parlare di un viaggio. Fatima e Michele partono insieme per un viaggio che non è altro che la corsa della loro vita. Non finisce, arriva a una destinazione che segna un nuovo inizio, con il passaggio di testimone tra loro due, come una sorta di staffetta. Michele finisce la sua corsa ma permette a Fatima di iniziarne una nuova.

Com’è stato lavorare con Giuseppe Fiorello, Valentina Lodovini e la giovane Cristina Parku?

Ancora oggi, due anni dopo le riprese, continuiamo a sentirci tutti. Il film è stato girato in piena pandemia e i problemi potevano essere tanti, invece sul set si è creato un clima veramente bello, sia con la troupe che con gli attori. Nonostante molti di loro, Beppe, Valentina, Alessio Praticò e Nadia Kibout siano attori di grande fama, sono diventati parte integrante di questo gruppo. Tra Cristina, alla sua prima esperienza, e gli altri attori si è creato lo stesso rapporto simbiotico che vivono i due protagonisti del film, ognuno è riuscito a tirar fuori il meglio l’uno dall’altro.

Qual è il filo conduttore che lega i tuoi lavori?

Recentemente mi sono reso conto che nelle storie che ho raccontato, sia con i corti che con questo primo film, i personaggi cercano una rinascita, una liberazione, e questa liberazione passa attraverso un’umanità che credo dovremmo ritrovare un po’ tutti.

Hai già in mente dei nuovi progetti?

In mente ce ne sono tantissimi. Ora si tratta di concretizzare al massimo e raccogliere i frutti di questo film, che sono l’esperienza acquisita e i riconoscimenti che abbiamo ricevuto sul campo, come il premio di Fabrique du Cinéma. Fare tesoro di tutto questo e realizzare un nuovo film, questo è il mio prossimo obiettivo.

 

 

Giulia: una protagonista senza filtri nel nuovo film di Ciro De Caro  

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Ciro De Caro sorprende ancora una volta con il suo terzo film Giulia – Una selvaggia voglia di libertà, dopo Spaghetti Story e Acqua di marzo, entrambi accolti positivamente dalla critica e dal pubblico. Il film uscirà nelle sale cinematografiche italiane il 17 febbraio, distribuito da Koch Media e prodotto da Ugo Baistrocchi, Maurizio De Arcangelis e Michael Fantauzzi.

Giulia (Rosa Palasciano) è costantemente in bilico tra il bisogno dell’amore di una famiglia e una travolgente voglia di libertà. Nel suo viaggio in una Roma estiva e assolata è affiancata da personaggi atipici come lei (nel cast anche Valerio Di Benedetto, Fabrizio Ciavoni e Matteo Quinzi).

‘‘Verità, rigore e leggerezza’’: come si traducono questi tre concetti nella tua regia?

È un processo che va dalla scrittura fino al montaggio. Tecnicamente cerco di lasciare quanto più spazio possibile agli attori. Chiedo a tutto il cast tecnico di non limitare in nessun modo la fisicità, l’espressività, i movimenti degli attori. Chiedo agli attori di accogliere il personaggio senza trasformarsi in qualcos’altro. Non ho previsto nessun reparto trucco perché mi sembrava un eccessivo passo verso la finzione. Per quei personaggi lì, la vita di tutti i giorni è senza trucco. Non ho voluto la segretaria d’edizione per avere la libertà di cercare qualcosa di vero, di nuovo, senza qualcuno che interrompesse il flusso, affinché i ciak fossero sempre diversi. Non bisogna cedere alla regola ‘‘si fa così, si è fatto sempre così’’, il rigore nella ricerca della verità dev’essere ferreo. Leggerezza perché tutto dev’essere semplice, dalla troupe al materiale tecnico, al rapporto che c’è sul set con tutti, soprattutto a partire dagli attori. Non mi piace dire che li ‘‘dirigo’’, ma che insieme troviamo una strada comune. La leggerezza di potersi muovere liberamente senza avere vincoli, pesi, che ti tengono inchiodato alle scelte fatte a tavolino e che poi sarebbe meglio cambiare.

Hai scritto il film con Rosa Palasciano. Com’è stato il processo creativo a due?

Lavorando con Rosa mi sono reso conto che se avessi dovuto scrivere solo io un personaggio così, avrei raccontato ancora una volta un personaggio femminile come ce lo immaginiamo noi uomini, quindi in maniera superficiale e non rispettosa. Rosa mi ha aiutato a comprendere quanto può essere limitata e superficiale la visione che abbiamo di un personaggio femminile.

Quello di Giulia è un personaggio complesso che rompe con la rappresentazione stereotipata che vediamo spesso nel cinema. Quali sono le sfumature che rendono la protagonista così reale?

Con Rosa, che è un’attrice talentuosa e istintiva, ci siamo posti la sfida di scrivere e mettere in scena un personaggio che viaggiasse su un confine sottile, per renderlo vero e reale. Giulia è un personaggio che odi e ami, e se Rosa non avesse avuto la capacità di camminare su questa linea sottile sarebbe facilmente caduta nel drammatico, nel melodrammatico o nella comicità. Le sfumature rendono questo personaggio credibile, e sono fatte dalle piccole cose che spesso al cinema vengono tagliate perché sono troppo normali. Un personaggio è vero perché ha quelle sfumature che abbiamo tutti. Ogni battuta, scena, sequenza, non è studiata in modo tale da raccontare l’essenziale, cioè quello che serve far capire al pubblico, ma è basata sul contesto e sul sottotesto.

Giuia
Rosa Palasciano è Giulia.

All’inizio del film Giulia afferma di desiderare una famiglia, poi paradossalmente si scontra con i parenti del suo ex-fidanzato in occasione di un incontro. Emerge una frattura della società, i loro sono due mondi che parlano senza capirsi.

Giulia si scontra con un concetto più ampio non solo di famiglia, ma di realtà, che considera desiderabile solo una vita programmata e prevedibile. La famiglia del suo ex rappresenta chi non riesce a comprendere le persone che vivono in maniera diversa nella nostra società, che non vuol dire per forza in maniera totalmente opposta. C’è una frattura, uno scontro di due mondi che non possono stare assieme. Pur volendo entrambi una stessa cosa come concetto, una famiglia, quelle che cercano sono famiglie diverse.

Giulia raccoglie continuamente giocattoli abbandonati senza aver dato alla luce nessun bambino…

L’idea ci è venuta mentre passeggiavamo al mare: al tramonto le onde trasportavano i giocattoli usati sulla spiaggia. Non era previsto, ma ci ha aiutato nella costruzione del personaggio di Giulia che accumula giochi come una formica accumula cibo per l’inverno, sperando che il suo desiderio di maternità si realizzi. Giulia non ha soldi e quello è il modo in cui può preparare le cose per questo bambino che tanto desidera. A me piace immaginare che quel bambino è anche lei, è Giulia bambina, il personaggio che non si vede ma a cui lei vorrebbe donare una felicità o un’infanzia probabilmente migliore di quella che ha avuto.

Nel film vengono affrontate tematiche sociali che rispecchiano la situazione contemporanea, qualsiasi ragazzo o ragazza potrebbe essere Giulia, con difficoltà relazionali e di occupazione. A quale riflessione vorresti portare le nuove generazioni?

Non so se ti deludo, ma non voglio portare a nessuna riflessione. Non pretendo di avere una soluzione e indicare la strada a qualcuno, ma solo puntare la luce su un mondo e su personaggi che secondo me vengono ignorati dal cinema italiano o rappresentati in maniera superficiale e grottesca. Voglio bene ai personaggi che ho raccontato e proprio per questo li voglio far vedere per quello che sono, senza calcare la mano sulla comicità o sul dramma. Mi limito a questo, a mostrare qualcosa per quello che è senza filtri.

 

 

Mauro Mancini colpisce al cuore con “Non odiare”

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Dopo la laurea in Scienze della Comunicazione, Mauro Mancini scrive e dirige nel 2005 il corto Il nostro segreto, che segna l’inizio di numerosi successi internazionali. Esordisce nel lungometraggio con Non odiare, unico film italiano in concorso alla 35esima Settimana Internazionale della Critica, acclamato dal pubblico. È un’opera prima che ha uno sguardo rivolto verso le contraddizioni che si celano in ognuno di noi, raccontate dal regista sullo sfondo di una società dove serpeggiano profonde spaccature culturali.

Dopo la presentazione del tuo film a Venezia, quali sono le tue sensazioni?

Ho avuto la fortuna di ricevere un’accoglienza molto calorosa alla prima, addirittura cinque minuti di applausi in sala. È stato un qualcosa di inaspettato che è andato al di là di ogni possibile previsione. Del resto questa Mostra ha segnato un punto di rinascita e mi ha dato la sensazione che si può tornare in sala con pochi ma necessari accorgimenti. Ho preso davvero coscienza di aver realizzato Non odiare solo vedendolo insieme a tantissime altre persone: fare cinema è un atto di fiducia reciproca perché i film si fanno insieme.

Da dove nasce la necessità di raccontare una storia che invita alla comprensione dell’altro?

Nasce da un trafiletto che avevamo letto su un quotidiano io e lo sceneggiatore Davide Lisino. Un medico ebreo aveva rifiutato di compiere un’operazione di routine su un paziente con un tatuaggio nazista, dichiarando che l’intervento sarebbe andato contro la sua coscienza; il paziente venne operato da un altro medico. Il nostro protagonista Simone Segre, interpretato da Alessandro Gassmann, sta per salvare un uomo vittima di un incidente stradale al quale assiste, ma quando scopre la svastica tatuata sul corpo della vittima tradisce il giuramento di Ippocrate, lasciandolo al suo tragico destino. L’intolleranza è uno dei mali della nostra società e nel film siamo partiti da un odio ben specifico per poi concentrarci su un’intolleranza più ampia, intesa in senso lato. Non bisogna essere indifferenti, ma pensare con la propria testa e aprirsi al dialogo mettendosi in ascolto. Mi piacerebbe che questo film venisse proiettato nelle scuole e che lo vedessero anche i ragazzi, la generazione che ha in mano il futuro.

La storia è ambientata a Trieste, città multietnica, ma l’intolleranza si diffonde in tutto il territorio italiano, perché l’Italia non ha un’identità culturale davvero comune. Il cinema può contribuire a diminuire queste distanze culturali?

La cultura in generale ha il compito di diminuire queste distanze, suggerendo delle domande a chi guarda o legge, per indurlo a una riflessione, lasciando che sia poi lui a trarre le conclusioni. Erigere muri è semplice, abbatterli è molto più complicato.

Qual è il punto di vista della storia?

Cercare di non giudicare i personaggi è stato molto difficile, perché il pregiudizio interviene inevitabilmente quando scrivi. Il mio non è un film privo di punto di vista, ma con la macchina da presa ho scelto di stare un po’ più distante del solito perché nella vita a volte guardi delle cose che accadono e non puoi farci niente. Guardarci dall’esterno ci aiuta a comprenderci meglio e aiuta anche gli altri.

Mauro Mancini sul set
Mauro Mancini sul set

Il ritmo della comunicazione è scandito da silenzi e pause che mettono in risalto l’espressività degli attori, lasciando che il dialogo avvenga quasi senza usare le parole.

Non odiare è molto asciutto nella regia, nella messa in scena e nei dialoghi perché volevo il più possibile evitare che si generassero degli equivoci e le parole spesso portano a degli equivoci. Uno sguardo invece può essere più sincero delle parole. Sapevo di avere due attori pazzeschi, con cui potevo lavorare sui silenzi e sui non detti.

Cosa rappresenta l’attrazione che nasce tra Marica (interpretata da Sara Serraiocco) e Simone?

È l’attrazione per un mondo che non conosci, ma che ti affascina, con il quale non puoi convivere in quel momento, anche se probabilmente vorresti. Il loro è quasi un abbraccio carnale tra persone che si cercano. È voglia di accudire l’altro.

Simone e Marcello, il fratello neonazista di Marica, hanno entrambi ereditato dai rispettivi padri un determinato retaggio culturale che li accomuna e li divide allo stesso tempo. È come se si guardassero allo specchio senza riconoscere il proprio riflesso.

Quando Simone si prova il cappotto del padre, non l’ho volutamente ripreso attraverso lo specchio perché volevo che stesse da solo con lo specchio e noi non vedessimo ciò che vedeva lui. Simone e Marcello si guardano allo specchio, ma è come se non si vedessero: nella scena che ho citato ho cercato proprio di restituire questo effetto. In altri momenti invece sono inquadrati mentre si specchiano, anche per dare l’idea che siamo più di un pensiero solo e che possiamo imparare a diventare più di quello che siamo già.