Il viaggio di Francesca Garolla nel teatro – o meglio nella scrittura teatrale – si intreccia sin da subito con quello di uno spazio, ovvero il Teatro i, una realtà indipendente milanese che si è imposta, sul finire degli anni Novanta e agli inizi del nuovo secolo, come una delle più vivaci della scena lombarda e nazionale.
Teatro i, con il regista Renzo Martinelli e l’attrice Federica Fracassi (una delle migliori interpreti italiane), è stato per lei un punto di riferimento, un luogo di sperimentazione e ricerca, di elaborazione di nuovi linguaggi della scena. Francesca vi approda nel 2004, diventando parte integrante della direzione artistica e del teatro stesso. Arrivava da studi di Filosofia, da un diploma in regia all’Accademia Paolo Grassi di Milano, ma aveva scoperto ben presto – già prima della drammaturgia – il piacere della scrittura.
Come hai iniziato a scrivere?
Da ragazzina le amiche mi prendevano in giro perché dicevano che avrei dovuto vivere nell’Ottocento, quando si comunicava per lettera. E avevano ragione. Non a caso ho, da anni, lunghe e anacronistiche corrispondenze. La scrittura è sempre stata un modo di comunicare molto più efficace del parlare. Mi permette di esprimermi meglio, di prendermi il tempo per dire ciò che voglio dire, di avere un’adesione più profonda con quel che mi interessa. Eppure, non riesco a immaginare parole senza oralità e quando penso, penso pensieri dotati di punteggiatura, di virgole e punti, di a capo, di pause e di silenzi. Penso frasi in cui le parole sono le note di una musica.
Come è stato il passaggio dalla scrittura “ottocentesca” al teatro?
Ho iniziato a lavorare a Teatro i più di tredici anni fa, ma scrivo solo da otto: ci ho messo del tempo per capire che la voglia di fare teatro e la necessità, quasi fisica, di scrivere potevano unirsi. In effetti, anche prima di scrivere testi miei avevo sempre cercato nei testi degli altri la possibilità di esprimere la mia voce, spesso riscrivendo, scegliendo autori non prettamente teatrali e lavorando come Dramaturg: un ruolo che permette di fare del testo scritto un altro testo, il testo della scena. Posso considerarmi una “giovane autrice”, benché a scrivere per il teatro abbia davvero iniziato tardi, quasi a trent’anni, e anche se non sono giovane in generale, lo sono in questo particolare tipo di scrittura. Ed è anche grazie al mio percorso, inizialmente lontano dall’autorialità, che sono convinta che la scrittura teatrale sia soprattutto una competenza da acquisire e sperimentare: non un’improvvisazione, non un talento naturale, non qualcosa che si può imparare solo a scuola, ma un lavoro quotidiano di ricerca e di frequentazione del teatro. Perché quello che si fa, e bisogna tenerne conto, è lavorare su una parola che sarà “mediata”. Non solo dall’immaginazione di un lettore, ma da quella del regista, degli attori e, infine, ma è la cosa più importante, da quella degli spettatori che non vedranno in scena solo le mie parole, ma un altro testo, fatto di tutti gli elementi che costruiscono lo spettacolo.
E oggi che il teatro si è imposto nel tuo percorso nella sua essenza fisica, reale, concreta, come ti poni davanti alla pagina bianca?
Quando inizio un testo, inizio un dialogo, ma non è quello tra i personaggi che metto sulla scena, no, semmai un dialogo personale e unico che intrattengo con lo spettatore. Lui è l’altro da me e io sono libera con lui: posso parlare, immaginare quel che voglio, raccontargli una storia, un segreto, recitargli una poesia. Ogni battuta non è altro che il risultato del nostro dialogo: ad altri il compito di definire, descrivere, collocare, indirizzare. Per questo forse “sfuggo” alle regole dell’azione drammatica e del conflitto, che non si collocano sulla scena, ma piuttosto tra la scena e la platea. Così, mi piace definire la mia scrittura “politica”. Politica in un senso originario, perché ha in sé l’obiettivo di lavorare su una comunità: la comunità composta da me, da chi agisce le mie parole e da chi le ascolta. Una comunità che somiglia alla condizione umana, creata dall’interazione e dalla relazione e che non può prescindere dal contesto storico, culturale, sociale: dal suo presente.
Dunque cosa cerchi nella scrittura?
Una rappresentazione del reale, soprattutto nella sua sostanza, non nella forma. Oggi la realtà è vicinissima, grazie a media sempre più presenti nelle nostre vite: se l’altra parte del mondo è a portata di mano, perché dovrebbe interessarci la replica impoverita di una realtà di immagini a cui accediamo comodamente con un click? Per questo mi interessa la realtà sommersa delle cose e per renderla visibile uso la finzione. I miei personaggi non sono veri, possono solo essere verisimili, e non è necessario che siano credibili, perché spesso la credibilità è qualcosa che manca anche alla realtà. La realtà è del tutto incredibile, a pensarci bene.
Il tuo recente lavoro, Tu es libre, scritto a La Chartreuse, prestigioso centro di drammaturgia francese che lo ha anche presentato come mise en espace durante il Festival d’Avignone dell’anno scorso, è stato anche finalista al Premio Riccione del 2017 e selezionato dal Bureau des lecteurs de la Comédie Françoise. Racconta di una ragazza francese che parte per la Siria. Come è nata questa idea?
Haner, la protagonista, non è pazza, non ha origini mediorientali, non è musulmana, eppure probabilmente si è unita all’Isis. Pare incredibile, ma è qualcosa che è davvero accaduto a molte persone. Questo mi interessa: riflettere e portare allo scoperto le contraddizioni del reale, senza cercare di imitare l’attualità, ma facendone metafora. E così la mia lingua può essere a tratti poetica, spazia, rifiuta spesso le regole della drammaturgia, sperimenta, tenta di avvicinarsi a qualcosa di antico, ancestrale, emotivo, che si allontana dal quotidiano anche se ne parla.
Chi sono i tuoi maestri?
Se penso a chi mi ha portato ad avere questo tipo di visione e a iniziare questa ricerca, mi vengono in mente artisti che non necessariamente hanno a che fare col teatro: Ingeborg Bachmann, Keith Jarret, Sergej Rachmaninov, il poeta romano Valerio Magrelli, Agota Kristof, e pure, perché no, Nanni Moretti. Una volta scrissi una lettera anche a lui, anzi, due volte, e in entrambi i casi mi telefonò per ringraziarmi e, credo, assicurarsi che non fossi pazza. Poi, in assoluto, la persona che più ha contribuito alla mia formazione è Renzo Martinelli con cui condivido, insieme a Federica Fracassi, la direzione di Teatro i. Renzo mi ha insegnato ad aprire lo sguardo e l’ascolto, a pensare ai testi teatrali come a spartititi musicali o a quadri da dipingere. Una libertà di pensiero, di approccio, di ragionamento che mi ha fatto trovare la mia voce e travalicare i confini della lingua, con collaborazioni internazionali e la selezione nel bel progetto Fabulamundi Playwriting Europe. Una libertà che mi permette di andare oltre le mura di un teatro. Ecco la cosa più importante: scrivere per il teatro uscendo dal teatro.