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Andrea Porcheddu

Francesca Garolla. La realtà è incredibile, a pensarci bene

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Il viaggio di Francesca Garolla nel teatro – o meglio nella scrittura teatrale – si intreccia sin da subito con quello di uno spazio, ovvero il Teatro i, una realtà indipendente milanese che si è imposta, sul finire degli anni Novanta e agli inizi del nuovo secolo, come una delle più vivaci della scena lombarda e nazionale.

Teatro i, con il regista Renzo Martinelli e l’attrice Federica Fracassi (una delle migliori interpreti italiane), è stato per lei un punto di riferimento, un luogo di sperimentazione e ricerca, di elaborazione di nuovi linguaggi della scena. Francesca vi approda nel 2004, diventando parte integrante della direzione artistica e del teatro stesso. Arrivava da studi di Filosofia, da un diploma in regia all’Accademia Paolo Grassi di Milano, ma aveva scoperto ben presto – già prima della drammaturgia – il piacere della scrittura.

Come hai iniziato a scrivere?

Da ragazzina le amiche mi prendevano in giro perché dicevano che avrei dovuto vivere nell’Ottocento, quando si comunicava per lettera. E avevano ragione. Non a caso ho, da anni, lunghe e anacronistiche corrispondenze. La scrittura è sempre stata un modo di comunicare molto più efficace del parlare. Mi permette di esprimermi meglio, di prendermi il tempo per dire ciò che voglio dire, di avere un’adesione più profonda con quel che mi interessa. Eppure, non riesco a immaginare parole senza oralità e quando penso, penso pensieri dotati di punteggiatura, di virgole e punti, di a capo, di pause e di silenzi. Penso frasi in cui le parole sono le note di una musica.

Come è stato il passaggio dalla scrittura “ottocentesca” al teatro?

Ho iniziato a lavorare a Teatro i più di tredici anni fa, ma scrivo solo da otto: ci ho messo del tempo per capire che la voglia di fare teatro e la necessità, quasi fisica, di scrivere potevano unirsi. In effetti, anche prima di scrivere testi miei avevo sempre cercato nei testi degli altri la possibilità di esprimere la mia voce, spesso riscrivendo, scegliendo autori non prettamente teatrali e lavorando come Dramaturg: un ruolo che permette di fare del testo scritto un altro testo, il testo della scena. Posso considerarmi una “giovane autrice”, benché a scrivere per il teatro abbia davvero iniziato tardi, quasi a trent’anni, e anche se non sono giovane in generale, lo sono in questo particolare tipo di scrittura. Ed è anche grazie al mio percorso, inizialmente lontano dall’autorialità, che sono convinta che la scrittura teatrale sia soprattutto una competenza da acquisire e sperimentare: non un’improvvisazione, non un talento naturale, non qualcosa che si può imparare solo a scuola, ma un lavoro quotidiano di ricerca e di frequentazione del teatro. Perché quello che si fa, e bisogna tenerne conto, è lavorare su una parola che sarà “mediata”. Non solo dall’immaginazione di un lettore, ma da quella del regista, degli attori e, infine, ma è la cosa più importante, da quella degli spettatori che non vedranno in scena solo le mie parole, ma un altro testo, fatto di tutti gli elementi che costruiscono lo spettacolo.

E oggi che il teatro si è imposto nel tuo percorso nella sua essenza fisica, reale, concreta, come ti poni davanti alla pagina bianca?

Quando inizio un testo, inizio un dialogo, ma non è quello tra i personaggi che metto sulla scena, no, semmai un dialogo personale e unico che intrattengo con lo spettatore. Lui è l’altro da me e io sono libera con lui: posso parlare, immaginare quel che voglio, raccontargli una storia, un segreto, recitargli una poesia. Ogni battuta non è altro che il risultato del nostro dialogo: ad altri il compito di definire, descrivere, collocare, indirizzare. Per questo forse “sfuggo” alle regole dell’azione drammatica e del conflitto, che non si collocano sulla scena, ma piuttosto tra la scena e la platea. Così, mi piace definire la mia scrittura “politica”. Politica in un senso originario, perché ha in sé l’obiettivo di lavorare su una comunità: la comunità composta da me, da chi agisce le mie parole e da chi le ascolta. Una comunità che somiglia alla condizione umana, creata dall’interazione e dalla relazione e che non può prescindere dal contesto storico, culturale, sociale: dal suo presente.

Dunque cosa cerchi nella scrittura?

Una rappresentazione del reale, soprattutto nella sua sostanza, non nella forma. Oggi la realtà è vicinissima, grazie a media sempre più presenti nelle nostre vite: se l’altra parte del mondo è a portata di mano, perché dovrebbe interessarci la replica impoverita di una realtà di immagini a cui accediamo comodamente con un click? Per questo mi interessa la realtà sommersa delle cose e per renderla visibile uso la finzione. I miei personaggi non sono veri, possono solo essere verisimili, e non è necessario che siano credibili, perché spesso la credibilità è qualcosa che manca anche alla realtà. La realtà è del tutto incredibile, a pensarci bene.

Il tuo recente lavoro, Tu es libre, scritto a La Chartreuse, prestigioso centro di drammaturgia francese che lo ha anche presentato come mise en espace durante il Festival d’Avignone dell’anno scorso, è stato anche finalista al Premio Riccione del 2017 e selezionato dal Bureau des lecteurs de la Comédie Françoise. Racconta di una ragazza francese che parte per la Siria. Come è nata questa idea?

Haner, la protagonista, non è pazza, non ha origini mediorientali, non è musulmana, eppure probabilmente si è unita all’Isis. Pare incredibile, ma è qualcosa che è davvero accaduto a molte persone. Questo mi interessa: riflettere e portare allo scoperto le contraddizioni del reale, senza cercare di imitare l’attualità, ma facendone metafora. E così la mia lingua può essere a tratti poetica, spazia, rifiuta spesso le regole della drammaturgia, sperimenta, tenta di avvicinarsi a qualcosa di antico, ancestrale, emotivo, che si allontana dal quotidiano anche se ne parla.

Chi sono i tuoi maestri?

Se penso a chi mi ha portato ad avere questo tipo di visione e a iniziare questa ricerca, mi vengono in mente artisti che non necessariamente hanno a che fare col teatro: Ingeborg Bachmann, Keith Jarret, Sergej Rachmaninov, il poeta romano Valerio Magrelli, Agota Kristof, e pure, perché no, Nanni Moretti. Una volta scrissi una lettera anche a lui, anzi, due volte, e in entrambi i casi mi telefonò per ringraziarmi e, credo, assicurarsi che non fossi pazza. Poi, in assoluto, la persona che più ha contribuito alla mia formazione è Renzo Martinelli con cui condivido, insieme a Federica Fracassi, la direzione di Teatro i. Renzo mi ha insegnato ad aprire lo sguardo e l’ascolto, a pensare ai testi teatrali come a spartititi musicali o a quadri da dipingere. Una libertà di pensiero, di approccio, di ragionamento che mi ha fatto trovare la mia voce e travalicare i confini della lingua, con collaborazioni internazionali e la selezione nel bel progetto Fabulamundi Playwriting Europe. Una libertà che mi permette di andare oltre le mura di un teatro. Ecco la cosa più importante: scrivere per il teatro uscendo dal teatro.

Davide Carnevali: per scrivere mi ispiro a Lionel Messi

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Da bambino volevo diventare un calciatore o uno scrittore. Ho fatto il calciatore fino a 16 anni. Quando era il momento di fare il calciatore sul serio, ho iniziato a fare lo scrittore.

Si presenta così, non senza (auto)ironia, Davide Carnevali, autore e teorico, classe 1981, tra i pochi – se non l’unico – giovani drammaturghi italiani capaci di lavorare, richiestissimo, in tutta Europa. Si fece notare nel 2009, con un lavoro intitolato Variazioni sul modello di Kraepelin, e da allora non ha smesso di presentare i suoi spettacoli a Barcellona o a Berlino, a Parigi o a Lisbona e i suoi testi sono tradotti anche in estone, in rumeno, in greco e in polacco.

Strapremiato per la sua produzione drammaturgica, Davide Carnevali si racconta tra una prova e l’altra: «Ho sempre scritto cose differenti tra loro, per progetti differenti, e questa ricerca di diversificazione ha marcato molto la mia scrittura. Ci sono testi che nascono perché sento la necessità di scriverli, e che poi vivono vite proprie, messi in scena da altri, in luoghi e tempi altri; e testi che sono determinati da un incarico o progetti specifici, che sono legati a una certa opzione di messa in scena. Sono due processi creativi che hanno poco in comune, che mettono in gioco tratti distinti della personalità dell’autore: più viscerali, i primi; più cerebrali, i secondi. Quando scrivo per me, preferisco mantenermi lontano dalla scena, per la seconda tipologia, invece, un confronto con le persone che lavoreranno sul testo è utile, perché in questo caso le mie parole sono semplicemente materiale da usare sulla scena».

Ma in questo duplice binario compositivo il rapporto con la regia non è certo indifferente: naturale allora chiedere all’autore quale dialettica si instauri con il regista quando è un’altra persona a “impossessarsi” del testo dell’autore e cosa significhi fare regia. «Mi interessa – spiega Carnevali – la varietà di prospettive che offre, ma non sono un regista, mi approccio alla pratica come un autore che prova a mettere in scena un suo testo insieme agli attori, e cerco di sfruttare questo approccio naïf come un vantaggio. A Buenos Aires ho imparato che si può fare ottimo teatro con poco: un buon testo e buoni attori. L’esperienza di Maleducazione transiberiana è nata pensando di riproporre il modello di produzione del teatro off argentino e non avrei potuto farlo senza la collaborazione degli attori. Nei prossimi anni curerò altri progetti di creazione, ma questo non significa che io diventi un regista».

Davide Carnevali si è “scoperto” drammaturgo a ventun’anni in un seminario dell’attrice e autrice Laura Curino, una delle protagoniste del teatro di narrazione italiano. La svolta è avvenuta con il trasferimento a Barcellona, dove ha seguito workshop alla Sala Beckett, un vivacissimo spazio teatrale votato alla nuova drammaturgia. Tra gli incontri di quel periodo, Carnevali evoca alcuni tra i migliori autori europei: Carles Batlle, Martin Crimp, José Sancis Sinisterra, Biljana Srbljanovic. «In quella sala – racconta ancora – ho conosciuto il drammaturgo Juan Mayorga e l’ho proposto al critico teatrale e editore Franco Quadri. Così è nata la collaborazione con la casa editrice Ubulibri: lavorarci è stata un’esperienza ricchissima; così come lo è stato scrivere per il trimestrale di teatro «Hystrio» e per altre riviste internazionali, perché mi ha permesso di portare avanti parallelamente la teoria e la pratica. A quel punto ho capito che restare all’estero poteva diventare una risorsa. In quegli anni a Barcellona potevi leggere molti autori contemporanei tradotti in catalano, che in Italia non arrivavano, e vedere tanto teatro tedesco e argentino. Mi sono poi iscritto a un dottorato in Teoria del Teatro, ho frequentato un corso di Hans-Thies Lehmann, teorico tedesco del teatro post-drammatico; da lì la decisione di andare a Berlino. Poi, tra il 2011 e il 2012, sono stato a Buenos Aires per capire come si lavora nel circuito off argentino. Il teatro tedesco e argentino sono forse agli antipodi; ma da entrambi ho imparato tanto. A Buenos Aires comunque si mangia meglio».

Una vita movimentata, quanto meno geograficamente, a far humus per la scrittura, per l’elaborazione di una lingua scenica che si è presto tramutata in testi, in opere compiute. Ma tra Italia, Catalogna, Germania e Argentina, che lingua usa Davide Carnevali per scrivere i suoi testi? «Il teatro è il luogo privilegiato del rapporto tra linguaggio verbale, immagine mentale e realtà materiale. Questa può darsi in differenti modi rispetto alla parola: può compiere le aspettative che essa genera, oppure può frustrarle. Ma non solo: la realtà, quando appare davanti allo spettatore, può sembrare distorta rispetto all’immagine mentale che la parola aveva generato. Questo scarto mette a nudo l’incapacità del linguaggio di “com-prendere” la realtà, e può manifestarsi in tutta la sua violenza davanti allo spettatore solo in teatro. Credo sia a questo che mira il mio linguaggio teatrale. Di solito – continua – non creo personaggi, ma funzioni drammaturgiche di supporto alla lingua e all’azione. Detto così sembra complicato, in realtà non lo è, ma può risultare molto problematico per attori abituati a costruirsi un percorso psicologico e a cercare a tutti i costi la coerenza della storia. A me piace vedere l’attore che gioca con il suo essere attore, che non prende sul serio né se stesso, né il personaggio».

Dal suo osservatorio di girovago, di autore che ha casa in strutture e città diverse, Carnevali rivendica l’importanza di lavorare fuori dall’Italia: «Per me è stato molto sano. Ho l’impressione che l’ambiente teatrale, se lo frequenti troppo, distorca la tua percezione della realtà; spesso manca di sincerità, di coscienza critica e soprattutto di autoironia. La Catalogna mi ha dato tanto a livello di formazione; in Germania, è iniziata la mia carriera di autore. Il primo incarico come docente universitario l’ho avuto in Argentina. Le prime pubblicazioni dei miei testi in Francia, con Actes Sud, mentre il mio libro di teoria è stato pubblicato in Messico. Nessun paese è il paradiso, però ci sono posti in cui il teatro conserva ancora un ruolo nel dibattito sociale e ha mantenuto un rapporto con il pubblico molto più saldo. Cercare di fare in modo che questo torni ad accadere anche in Italia è il presupposto su cui è nata la mia collaborazione con il regista Claudio Longhi e il teatro Nazionale dell’Emilia Romagna per il prossimo triennio».

Ma cosa cambia nello scrivere per il teatro italiano e per quello di altri paesi? Carnevali non ha dubbi: «Il senso dell’umorismo». E a questo proposito, tra il serio e l’ironico, ci parla di quelli che considera i suoi maestri: «Credo che il Barcelona di Guardiola tra il 2008 e il 2012 sia uno dei picchi più alti raggiunti dall’arte performativa in questo secolo. Seguo il Barça dall’anno della prima Liga di Rijkaard, ho visto debuttare Messi: vederlo giocare per tutti questi anni è stata una grande ispirazione, dico sul serio. Se lo vedi giocare ogni settimana ti accorgi che la sua Weltanschauung non è differente da quella di Cézanne, Kafka, Beckett, Sarah Kane o Tommy York». Ovvero? Possibile paragonare Leo Messi a Kafka o Cézanne? «Messi ha la genialità di un bambino, per cui tutto è potenzialmente sempre possibile; la realizzazione di questo potenziale ha molto a che vedere con la capacità di non autocensurarsi e liberare l’immaginazione – cosa che in fin dei conti vale anche nella scrittura. E la concezione di gioco di Guardiola è stata fondamentale per lo sviluppo della mia concezione drammaturgica, perché implicava allo stesso tempo l’accettazione e il rifiuto di uno schema portante, cioè la costruzione e al contempo la distruzione di una logica. Così ho lavorato per testi come Variazioni sul modello di Kraepelin, Sweet Home Europa o Menelao. Cercare di scrivere come Messi gioca: con quella libertà, quella necessità viscerale di rendere possibile l’impossibile, è stato un po’ il mio obiettivo».

E il cinema? «Mi piacerebbe scrivere per il cinema – conclude Carnevali – ma non me l’hanno mai chiesto. Certo, mi piacerebbe anche giocare nel Barça, ma neanche quello me l’hanno mai chiesto».

La “non scuola” di Marco Martinelli

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Ci vorrebbero pagine e pagine, libri interi – e ce ne sono – per raccontare l’avventura artistica di Marco Martinelli.

Con Ermanna Montanari, una delle più grandi attrici teatrali italiane, e con un gruppo affiatatissimo di persone amiche, Marco Martinelli ha creato il Teatro delle Albe, oggi Ravenna Teatro, che dalla città romagnola si è imposto come una delle realtà più vive della scena nazionale e internazionale. Un teatro antico e contemporaneo, il loro, attento a temi che abbracciano le inquietudini del presente con scritture originalissime, oppure che rendono ipercontemporanei i grandi classici. Ecco, così, che dalla drammaturgia creata da Marco Martinelli scaturiscono spettacoli che possono raccontare l’epopea di Marco Pantani oppure un Molière che si impregna dei sapori e dei suoni di Scampia.

Oggi Marco Martinelli, raggiunta una “maturità” artistica che è consapevolezza e lucidità di sguardo, debutta al cinema. Si è “inventato” sceneggiatore e regista di un film che prende vita, quasi a mo’ di spin off, da un bellissimo spettacolo teatrale dedicato alla figura di Aung San Suu Kyi, la coraggiosa leader birmana, impegnata nella lotta per i diritti umani tanto da meritare il Premio Nobel per la pace nel 1991.

Naturale allora chiedere a Marco Martinelli cosa abbia significato per lui debuttare dietro la macchina da presa, firmare un’opera prima a sessanta anni. «È stata un’esperienza entusiasmante, in ogni momento, dalla sceneggiatura alle riprese al montaggio. Ho letto da qualche parte che i calligrafi dell’antica tradizione cinese, arrivati alla maturità, si cambiavano il nome: era un modo per rinascere, per rinnovare la propria arte. Così è capitato a me, dopo quarant’anni di teatro: trovarmi sul set è stato come cambiare nome».

In questi anni Martinelli ha elaborato un modo di comporre con i suoi attori per il palcoscenico che lo ha reso sicuramente riconoscibile. E trasporre un’opera dalla scena al set ha comportato, racconta il regista, anche un cambio di stile: «Certo la scrittura cambia, e non tanto per l’alchimia con gli attori, ma per il fatto che quando scrivi per la scena hai tutta l’aria attorno, quando scrivi per il cinema devi pensare che tutto sta racchiuso in quel “quadro” che è il fotogramma. A teatro lo spazio sembra limitato, in realtà ha l’infinitezza del qui e ora, del nostro essere di carne, attori e spettatori, il fiato sul collo. Al cinema, invece, le potenzialità che dà la macchina di catturare tutti gli spazi del pianeta, si imprigionano in quella “finestra”».

Ma cosa spinge a scrivere per il teatro o per il cinema? Per Marco «è sempre una domanda oscura che porta a scrivere, ha a che fare con le nostre viscere: e questa domanda rimbalza sui fatti che ti accadono, o che accadono agli altri che “sono” te, talvolta anche “più te di te”. Che io scriva di derelitti davanti a una slot machine, di morti nel mediterraneo, di come è stato ammazzato un campione come Marco Pantani, di come una donna in Birmania ha resistito agli arresti per vent’anni, la domanda è sempre quella, ha a che fare con Dioniso, dio allo stesso tempo vittima e carnefice: chi sono io? Cos’è questa violenza nera che mi attraversa? E perché in me, nonostante tutto, qualcosa spinge sempre verso la luce?».

Dioniso, la vecchia divinità dell’ebrezza e del teatro, il nume tutelare di quanti, in qualsiasi modo, fanno teatro, torna spesso nei racconti di Marco Martinelli. E torna soprattutto quando questo regista, con il suo gruppo, ha a che fare con gli adolescenti: «da molti anni, infatti, il Teatro delle Albe è impegnato in una originalissima “non-scuola”, una forma speciale di teatro fatto con ragazzi e ragazze adolescenti». Esperienza iniziata a Ravenna, e poi replicata con enorme successo in vari luoghi del mondo, spesso segnati da serie difficoltà: da Scampia, a Napoli, fino a Diol Kadd in Senegal; da Milano a Chicago, dalla Francia al Brasile. È possibile allora insegnare la passione per il teatro? «La passione non s’insegna – risponde Marco – ognuno di noi sa che cos’è, è quella che ci fa vivere e morire. La passione è ardore, incendio, e insieme patimento». Dunque come vi siete rapportati ai ragazzi turbolenti di mezzo mondo? Come avete coinvolto tanti giovani e giovanissimi? «I bambini e gli adolescenti sono il sacro. Sono l’oro del mondo. Non cadiamo nell’equivoco dei cellulari sempre accesi, quella non è che la superficie, la schiuma delle onde. Dobbiamo saper guardare oltre, noi adulti, e leggere dietro quell’apparenza, là in fondo pulsano cuori assetati di felicità e di assoluto».

Molti dei ragazzi coinvolti nelle prime “non-scuole” ravennati oggi sono parte integrante della compagnia di Marco ed Ermanna, oppure lavorano altrove. Altri non hanno continuato a fare teatro o cinema, eppure la passione cova ancora dentro di loro. Allora, intanto, aspettiamo il film di questo debuttante dalla lunga storia.

Nel cast, oltre a Ermanna, anche Sonia Bergamasco e Elio De Capitani, a raccontare – partendo dal punto di vista di sei bambine – una storia birmana: «Quando si debutta a sessant’anni – conclude Martinelli –  si ha negli occhi la storia del cinema, quella di cui ti sei nutrito fin da quando eri ventenne, da Dziga Vertov a Kaurismaki, passando per Fellini e Pasolini, in un immaginario ispirato ad autori come Derek Jarman o Sergej Iosifovič Paradžanov per la loro visionarietà e ritualità: un cinema d’arte e poesia che per decenni ha nutrito il mio teatro».

 

Stefano Massini, la parola è movimento

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Drammaturgo e autore: il 40enne Stefano Massini è certamente uno dei nomi più importanti del teatro oggi in Italia. Uno dei pochi, dopo Pirandello, Fo, De Filippo, rappresentati all’estero.

La sua è una scrittura incisiva, in costante contatto con la realtà, eppure di grande poesia e umanità. Uno dei suoi testi più recenti – quel Lehman Trilogy che un maestro della regia come Luca Ronconi ha diretto, sua ultima regia prima di morire, al Piccolo di Milano – è un affresco straordinario e appassionante attraverso cui leggere i nostri tempi di crisi. Oggi Massini è consulente artistico di quello stesso teatro, e da Ronconi ha preso l’entusiasmo, la curiosità, la passione per un modo di vivere la scena che non perde di vista l’utopia.

Il teatro, dunque, è il terreno d’azione, l’orizzonte di riferimento per questo scrittore classe 1975: ma ultimamente Stefano Massini si è avventurato anche nel cinema, grazie alla trasposizione filmica per mano di Michele Placido del suo 7 minuti che, in forma di spettacolo, era già stato applaudito in tutta Italia. Naturale, incontrandolo, partire proprio dall’eterna (e forse irrisolvibile) dialettica cinema-teatro. Cambia qualcosa nel pensare un testo per lo schermo o per il palcoscenico?

«Mi sono sempre occupato di teatro – risponde Stefano Massini – che ha una missione e una caratteristica diversa dal cinema. Il cinema spesso si sente legato alla dimensione “commerciale”: la presenza del pubblico condiziona nelle scelte e talvolta anche nella modalità linguistica ed espressiva del film stesso. 7minuti, ad esempio, è un testo nato per il teatro, che non ha come tema il lavoro ma una riflessione sul linguaggio: all’inizio del nuovo millennio ci troviamo sulle spalle un secolo ingombrante come il Novecento, profondamente ideologico, che ci ha lasciato dizionari molto retorici. Però parliamo di fenomeni e problemi d’oggi con quei dizionari, poco utili, perché “sfiaccati” proprio dalla retorica. Cosa succede se qualcuno si trova a discutere di un problema reale con strumenti dialettici di una retorica sindacale superata e inutile? Shakespeare dice che il sentimento è più forte delle parole d’amore. Ecco: oggi avviene lo stesso in ambito politico e sindacale. Il problema è che abbiamo solo quella retorica».

Per Stefano Massini, dunque, la questione è più profonda e strutturata: si tratta di osservare, come al microscopio, la lingua parlata, le chiavi d’accesso alla comunicazione per riflettere su quanto e come possiamo dire (e capire) il presente. L’interesse dell’autore, infatti, è per una drammaturgia non scontata, non consolatoria: «Mi piace una scrittura contraria al comune sentire» dice. Ovvero un parlar “stonato” – così lo definisce – che apra la possibilità di una «biopsia del tessuto comunicativo». Scandagliare la lingua, scavare nelle parole con le parole, inventare possibilità diverse: non è questo il teatro?

«Ricordo – ci racconta ancora– che un regista del calibro di Peter Brook disse, più o meno, che “un ortopedico, un ginecologo, un cardiologo sono tre medici, ma nessuno pretende di convertire l’altro”. Ognuno di noi sviluppa una propria forma di teatro, ma pretendiamo invece di “convertire” chi non la pensa come noi. Il mio discorso teatrale si basa su una certezza: che il teatro e la drammaturgia debbano essere inevitabilmente sperimentali. Ovvero abbiano come obiettivo il cambiamento di chi ne fruisce. Ho scritto Lehman perché sentivo tutti protestare contro l’economia che “affamava il popolo”, contro i consumatori, contro gli economisti “brutti e cattivi”. Ho pensato che servisse un testo che raccontasse un’epopea di banchieri come epopea di grande umanità, ossia l’opposto di quel che ci si poteva aspettare».

E la questione tocca anche i cosiddetti “classici”: per Stefano Massini, «certi autori, come il caustico Molière o il controcorrente Shakesperare, sono considerati “classici” e per questo collocati in una sfera per cui vengono messi in scena come “garanzia rassicurante” per il pubblico, come qualcosa che non farà male. È la tendenza, nefasta e ferale, dell’occidente industrializzato che vuole sempre essere preventivamente rassicurato: viviamo l’era della “rassicurazione preventiva”.  Si tratta, invece, di lanciare delle sfide, come in 7 minuti: ho deciso di mettere in scena undici donne di provenienza culturale e economica diversa, armate di armi spuntate per affrontare problemi reali. Se abbiamo solo la fionda per andare contro qualcuno che ha l’atomica, che facciamo? Rinunciamo a combattere? In 7 minuti la violenza scatta quando mancano gli strumenti verbali».

Chiacchierando con il drammaturgo emergono mille spunti di analisi. E Stefano Massini si infiamma affrontando un altro tema che gli sta a cuore. Da quando è esploso il fenomeno dei blog e dei siti, c’è una “proliferazione di giudizi”: «Compro dei biscotti e sulla confezione c’è scritto che, come consumatore, posso esprimere il giudizio connettendomi al blog o sito. Tripadvisor o Trivago ne hanno fatto una questione redditizia. L’aver trasformato ognuno di noi in potenziale “elargitore di giudizi” ci ha reso recensori di ogni cosa in ogni momento. Questo però non ha moltiplicato, ha anzi azzerato le capacità dialettiche e argomentative di giudizio: nel 90% dei casi siamo di fronte al semplice pollice retto o verso».

Però internet e i giornali sono una fonte di ispirazione: «Da anni – racconta – sono abbonato a sei o sette giornali italiani: leggo nel dettaglio, ritaglio e archivio. È un’opera certosina. Con internet mi faccio un’idea di quel che accade fuori da me. È la meravigliosa bolla della medio-sfera, in cui il mio discorso prende forma nel Grande Discorso. La drammaturgia nasce dal rapporto di osmosi con il discorso che sta fuori. Il teatro è come un grande apparato digerente, prende il cibo da fuori, per trasformarlo in calorie, in particelle critiche, e mangiandole le trasforma in risorse di comunicazione».

A chiedergli, infine, come nascono le sue idee, Stefano Massini svela una pratica creativa davvero singolare: scrive in movimento, o meglio pedalando. «Sono incapace di scrivere da fermo: per me la parola è movimento. Dunque esco in bicicletta, ho il telefono con le cuffie e in bici recito ad alta voce. Registro per 30 o 40 km, e quando torno a casa sbobino tutto. Tutto quel che scrivo nasce dal e in movimento. Se sto fermo, vengono fuori solo cose noiosamente celebrali».