Nella stanza di Gino Paoli c’erano soffitti viola e pareti di alberi infiniti, nella stanza dei The Zen Circus c’è un fuoco che continua a bruciare, nonostante gli anni, la stanchezza, la maturità e una consapevolezza di non poter più mandare tutti affanculo. Quella stanza però non è più quella di un centro sociale di provincia, ma ha la forma oblunga di un capannone scuro, caldo e pieno di gente. Nell’aria dell’Atlantico di Roma c’è quel senso di Rock fuori tempo, gilet a petto nudo, maglie vintage di concerti leggendari, bandane legate ai polsi e capelli lunghi che presto si gonfieranno di umidità e sudori.
Sono in attesa quando delle ombre saltellanti appaiono sul palco. La grande scritta The Zen Circus sul retro si confonde con le fiamme stampate, svanendo nell’aria fumosa del palazzetto movimentato. Dei corpi si agitano tra i fari che ronzano, un saluto, un accordo stonato e poi il battito sfrenato di un rock che non molla, si fa uomo e recita Catene, parla di funerali e rapporti familiari, di grida sottaciute, di madri, di sogni e di incomprensioni, di un amore che si immagina solo dentro una chitarra. La folla si stringe sotto palco, Canzone contro la natura anticipa La terza guerra mondiale dove il fuoco esce dalla stanza e torna nella sfacciataggine di una gioventù che sfugge ma che non sta zitta.
Il concerto ha preso quota, in fondo alla sala le porte di emergenza cominciano ad aprirsi, spiragli di luce per far uscire le ondate di calore mentre la folla che molleggia avanti e indietro, saltellando e spingendosi. Il batterista chiama l’attenzione e precisa l’unica regola necessaria per seguire questo concerto: “Più voi fate casino, più noi facciamo casino”. Appino, il cantante, si posiziona tutto sulla destra, in un’asimmetria congegnata che rovina le foto di Instagram di tutti gli smartphone esposti all’aria. Al centro del palco dà spazio al resto della band: i frontmen diventano due chitarre speculari sui lati, accanto ad un basso quasi al centro a compensare la batteria posizionata sul centro-destra in seconda fila.
“Mettete tutti i vostri cellulari in tasca e provate a farvi più male possibile” consigliano dal palco. Questo è il tour de Il fuoco in una stanza e la scaletta attraversa tutto il mondo immaginario di un gruppo che ha avuto sempre qualcosa da dire, attraverso la voce graffiante ed i pensieri stonati del suo cantante. Ascolto quindi tutti i malanni della provincia, torno ai dilemmi generazionali, a una mamma che ti chiama figlio di puttana ed un padre che va a lavorare, a guadagnare, a faticare. Mentre tu continui a cantare, e cantando sei arrivato a quarant’anni e ripensi a quell’infanzia perduta tra un Maurizio Costanzo Show ed un night club di donnine, musica jazz e sigarette.
I quaranta portano però ricordi e nuovi pensieri, teoria delle stringhe, Gaviscon e amici drogati che si sposano, sopravvissuti a Chernobyl, a Nirvana e Serie B, con indosso giacche H&M e una buona notizia che riverbera sui social. Insieme a qualche vecchia canzone come Nati per subire, che anticipa i saluti e manda affanculo anche gli dei. “Grazie a tutti” dicono, mentre le luci restano spente ma solo per pochi istanti. Fari che tagliano bassi l’aria e illuminano fronti sudate e mani levate al cielo, a sventolare riflessi di oro e sabbia, si gridano che l’anima non conta e probabilmente pensano a qualche amica lontana che, libera e felice, se ne è andata ma saprà sempre dove trovarli.
Ancora un paio di canzoni, prima che le luci mostrino le uscite e un applauso che va scemando, prima che i tecnici salgano sul palco a lanciarsi qualche cavo, prima che l’ultimo vigile non disinneschi l’ingorgo. Prima che i ragazzi non vadano ad un altro aftershow, perché essere cresciuti non significa essere adulti. I ragazzi li vedo ancora e sono cresciuti bene. Forse non piacciono a tutti, ma tutti no, a noi tutti non ci sono mai piaciuti. Quei tutti che viva qualcosa, sempre viva qualcosa.