Madonna che silenzio senza Nuti

francesco nuti e ornella muti nel film tutta colpa del paradiso

Ventisei anni, il primo film da protagonista. Ventotto, il primo da autore e protagonista. Trenta, esordio alla regia. Trentanove: la caduta dopo dieci anni di successi, tre David di Donatello, un Nastro d’Argento, il premio al Festival di San Sebastián.

Più regista di Troisi, meno colto di Benigni, più scorretto di Verdone, Francesco Nuti ha segnato la coscienza della commedia anni ’80. Giovane, la forza di una meteora lanciata verso l’(auto)distruzione, ha attraversato senza filtri il decennio più pop del nostro cinema. Non amava fare promozione e non aveva un agente, non firmava esclusive, si incazzava, litigava, beveva mentre il resto del mondo tirava cocaina, preferiva i fumetti ai libri, si innamorava e veniva regolarmente lasciato. Scriveva cose bellissime, tratte dalla sua vita. E le girava con mano d’autore. Nell’Italia ubriaca di craxismo fu il primo, nell’epica scena del telaio impazzito di Madonna che silenzio c’è stasera, a prevedere la crisi dei giovani che sarebbero diventati bamboccioni.

Ultimo coraggioso outsider di una commedia all’italiana sprofondata nel conformismo personaggista, Francesco Nuti è oggi ostaggio di una malattia che gli impedisce di parlare. Un grandissimo autore, che Fabrique ha il coraggio di chiamare col suo nome: icona.

un'immagine di francesco nutiNUTI, IL TALENTO

Per Gianfranco Piccioli, suo produttore storico (dal primo film, Madonna che silenzio c’è stasera, fino a Donne con le gonne), «fra di noi non c’era il classico rapporto regista-produttore. Non abbiamo mai avuto un contratto: siamo andati avanti guardandoci negli occhi e capendoci al primo sguardo. Se qualcuno lo cercava, lui diceva: parlate con Gianfranco».

Come vi siete incontrati?

Un giorno andai a vedere a Roma il gruppo dei Giancattivi a teatro. Mi resi subito conto che nel linguaggio di quel trio c’era qualcosa di diverso e mi incuriosii. Li conobbi, li trovai persone sensibili, intelligenti. E nacque così il loro primo e unico film, A ovest di Paperino.

Subito dopo fece esordire Nuti. Da solo.

Francesco aveva problemi col gruppo. Lo vedevo, durante le riprese, che se ne stava in disparte e scriveva: era la bozza di Madonna che silenzio c’è stasera. Era un brogliaccio, ma ci vidi dentro tutto un mondo astratto, perso, pieno tuttavia di valori e sentimenti meravigliosi. Misi in mano quel materiale allo sceneggiatore Elvio Porta e dissi a Francesco: scrivi quel che ti pare, ma se mi dici che vuoi fare il regista vatti a cercare un altro produttore. Prima impara: ora non sei nelle condizioni. E così lo affidai a Maurizio Ponzi, un grande metteur en scène.

Nuti era consapevole del suo talento?

Gli sono bastati tre film per capirlo. Allora venne da me e disse: ora posso? Era un uomo dolce, generoso. Con un talento impressionante: in Casablanca, Casablanca si mise dietro alla macchina da presa con una naturalezza incredibile. Aveva intuito per la regia, per le inquadrature, il senso del dolly. Avrebbe potuto tranquillamente solo dirigerli, i film.

Di cosa si nutriva la sua ispirazione?

Lo nutrivano le sue radici, la vita di paese, gli amici che aveva avuto, la figura paterna che era stata importantissima, e che quando mancò fu per lui una perdita quasi insuperabile. Aveva un padre toscano e una madre calabrese, due culture completamente opposte e diverse che non dialogavano, ma in casa c’era rispetto e armonia. In qualche modo questa formazione gli permise di raccontare con i suoi film un’epoca. E per affermarsi ci ha messo tempo, film dopo film, mica come Troisi. Mi ricordo le liti con Pippo Baudo per inserirlo in promozione, diceva che non meritava dieci minuti. E io dicevo Pippo, guarda che ti stai sbagliando…

francesco nuti sul setNUTI SCENEGGIATORE

Malù Di Lonardo è stata amica, assistente alla regia e cosceneggiatrice di Nuti ne Il Signor Quindicipalle e per due soggetti mai girati, Olga e i fratellastri Billi e Solo quando potrò cullare un bambino. «Francesco è stato un artista. Nella vita, prima che nel cinema».

La scrittura: da cosa partiva Nuti?

Da fatti che gli erano accaduti personalmente: l’esperienza con gli psicologi in Caruso Pascoski di padre polacco, l’attrazione per una donna omosessuale in Io amo Andrea… Aveva bisogno di uno sceneggiatore perché aveva l’idea di ciò che sarebbe dovuto accadere nella storia, aveva lo spunto, ma da solo non sapeva ordinare il pensiero. Scrivere con lui significava dire cavolate in libertà, con orario fisso. Alle dieci si arrivava in ufficio in Prati, dall’una alle due si pranzava da Settembrini. Si tornava a piedi al lavoro e per una mezz’ora, in preda alla digestione, nessuno connetteva. Io mi mettevo al computer, che Francesco si ostinava a chiamare “macchina da scrivere”, e lavoravamo così fino alle 17.

Francesco si divertiva a scrivere?

Si divertiva, ci si incaponiva. Ti chiamava anche alle due di notte per dirti che aveva avuto un’idea geniale. A volte per scrivere una pagina ci si metteva un mese, altre volte scrivevamo venti pagine in un’ora. A volte i personaggi gli diventavano antipatici, e allora non andavano avanti, a volte se li metteva addosso, li plasmava su di sé e bisognava arginarlo. In generale aveva un grande senso della scrittura per immagini: scriveva quel che voleva inquadrare, chiudeva le scene con i dettagli che avrebbe ripreso, alternava spesso interni e esterni perché era claustrofobico. Era regista già in scrittura.

Come si comportava con i collaboratori?

Non era un santo, se era convinto di qualcosa bisognava impegnarsi per fargli cambiare idea. Ma non era un ipocrita, e non gli ho mai sentito criticare un collega. Ha incoraggiato Leonardo Pieraccioni, imposto Giovanni Veronesi, scelto di lavorare con me solo perché gli era piaciuta la mia tesi di laurea. Non gli importava che allora non sapessi nemmeno com’era fatto un copione.

francesco nuti e antonio petrocelliNUTI REGISTA E ATTORE

Antonio Petrocelli con Nuti ha girato sei film, e tutti «senza sforzo. Francesco era uno che si affezionava alle persone anche in maniera morbosa, non riusciva a staccarsi dagli amici nemmeno durante la lavorazione dei film. Aveva un bisogno estremo di affettività».

Com’era Nuti attore?

Stare in scena per lui era del tutto naturale, non aveva mai una forzatura. Sul set era un attore fra gli attori. Capiva immediatamente se c’era un problema e arrivava sempre a una soluzione rapida. Se la scena non funzionava, la faceva lui: ma solo per capire cosa non andasse. A volte invertivamo i ruoli, lui faceva me e io lui, per provare a migliorare l’interazione. La sua era una curiosità sana, di ricerca. Essendo anche autore aveva poi una familiarità col testo unica. Ma era in grado di capire che se la scrittura non funzionava, andava modificata. Due tre volte è capitato che accettasse una mia modifica, per esempio in Io Chiara e lo Scuro (“Deambula”) o in Caruso Pascoski (“Ma va va va…”), perché lui stesso si era divertito ascoltandola. Era molto facile stare sul set con lui.

Legava con la troupe?

A pausa andava nel suo camper, ma la sera ci vedevamo, spesso guardavamo le partite insieme. Oppure andavamo a cena, ho mangiato tante volte a casa sua. Era uno che aveva bisogno di stare con le persone con cui si sentiva bene, a suo agio. E bisogna anche dire che nella vita ha avuto accanto tanti, troppi, che gli stavano vicino solo per interesse.

un momento dallo spettacolo Francesco Nuti – Andata, caduta, ritornoNUTI, IL FUTURO

«Un film che ha gli ingredienti del cinema di Francesco, un lato malinconico e nostalgico, uno folle e politicamente scorretto. È la storia di Lupo e Max, due fratellastri, e di Olga che è la compagna di Lupo. Erano una banda di ladri, ma decidono di fare l’ultimo colpo prima di ritirarsi». Così Valerio Groppa, già regista dello spettacolo Francesco Nuti – Andata, caduta, ritorno, racconta la trama dell’ultimo film scritto da Nuti, Olga e i fratellastri Billi, per i quali, insieme al fratello di Nuti Giovanni, sta cercando un produttore. «Nuti andrebbe riscoperto – dice – perché aveva il coraggio di osare. Aveva carisma, personalità, fantasia. Era diverso da tutti gli altri. Malinconico, nostalgico, poetico. E sempre, intimamente, infelice».

(Ringraziamo Valerio Groppa per le foto originali)