Lo chiamavano Jeeg Robot e Veloce come il vento sono ormai cult. La riscoperta del cinema di genere e sulla sua evoluzione nel panorama italiano. È questa la ricetta per scuotere il nostro mercato?
«Non amo la definizione “cinema di genere” – esordisce il regista e produttore Cosimo Alemà – Definire i film è molto comodo, certo, ma in questo momento tutta una generazione di registi, più giovani di me, sta cercando di realizzare delle opere che possano avere vita anche fuori da questo paese. A me piace l’idea e vorrei avere la libertà di pensare un film che si sleghi dal concetto di nazionalità, capace di trascendere i confini. I lungometraggi italiani che hanno avuto successo sono interessanti commistioni. In Jeeg Robot c’è il noir, il grottesco, il comic movie… la possibilità di miscelare e creare qualcosa di nuovo è l’aspetto migliore di tutta la faccenda. Il mio ultimo lavoro, Zeta, è un film generazionale sul rap che racconta gli adolescenti di oggi. Mischia molti generi ma non è stato difficile trovare una buona distribuzione, ed è la prima volta che mi capita. Il rap è un tema più attuale che mai e l’idea di coinvolgere in un film gli esponenti di questa cultura ha reso il progetto molto appetibile sin dall’inizio».
Sulla stessa lunghezza d’onda è Stefano Lodovichi, autore di In fondo al bosco: «Regista di genere è una definizione che mi sta stretta. A funzionare è sempre una commistione di storie, mondi e atmosfere differenti. Credo sia più corretto parlare di film di generi, al plurale, o sottogeneri. Spesso si rischia, etichettandolo, di ghettizzare un film per una certa fetta di pubblico. Anche quando un prodotto arriva dall’estero non è mai solo un thriller o solo un horror. Le sfumature sono sempre numerose. È un valore aggiunto, il film fa un salto di qualità quando non è inscritto in un genere preciso. Noi siamo cresciuti coi film di Steven Spielberg, Joe Dante e Ridley Scott che, a partire dagli anni Settanta, per oltre vent’anni hanno educato e nutrito il nostro immaginario mischiando più generi tra loro. La rinascita del film di genere/i era inevitabile: realizziamo oggi, in maniera aggiornata ed evoluta, ciò che abbiamo assimilato. È fisiologico».
Completamente diverso l’approccio di Manuela Cacciamani di One More Pictures: «Quando mi viene proposto un progetto, la prima domanda che faccio è di che genere si tratti. Io guardo la questione dal punto di vista industriale: se bisogna decidere di investire e si segue una precisa linea editoriale o di marketing, pensando a quale genere possa funzionare meglio, è fondamentale avere le idee chiare. Per quanto riguarda l’Italia, credo sia un momento meraviglioso, sono fiera dei nostri talenti e ho visto tanti bei film e progetti innovativi. Abbiamo ottime carte da poter giocare anche su un territorio più esteso. È il momento di battere sul cinema di genere? Io ci ho costruito tanto, tuttavia credo anche che bisogna sempre insistere, con talento e passione, in ciò che si sa fare bene e si ha nelle proprie corde, indipendentemente dal genere».
«Non sono affatto d’accordo – si oppone il produttore indipendente Gianluca Arcopinto – questa è una generazione “de-genere”, che va oltre definizioni schematiche. Io mi sento profondamente vecchio rispetto a questi discorsi. Quello che posso fare è continuare a lavorare e insegnare ai giovani, ma il futuro non appartiene a me. E neanche a chi si fa portavoce di quel sistema-cinema che non riesce a entrare in sintonia con la generazione degenerata; non è preparato. Jeeg Robot è stato un film che Gabriele Mainetti ha girato senza dialogare coi produttori. Il sistema se ne è appropriato in seguito. Che succederà con il suo prossimo film? Riuscirà a non lasciarsi schiacciare dalle logiche produttive del sistema-cinema?».
Alessandro Tartaglia Polcini di AGPCI chiude il dibattito offrendo un punto di vista industriale e, al tempo stesso, filosofico: «Il genere è ciò che consente al film di essere venduto e io credo in questa definizione, che non è stabilita tanto dalla produzione e dall’industria quanto dal pubblico. Nella fase creativa, tutti intervengono nel dare un nome al genere. Il produttore lo “generifica”, il pubblico lo fa proprio, il critico lo colloca. Il genere dura molto a lungo e invecchia bene, perché parla delle nostre vite. È un modo come un altro, se non migliore, di dare risposte mitiche alle nostre esistenze».