Una grande basilica in rete metallica, trasparente e all’apparenza molto leggera, s’innalza sullo scavo archeologico di un’antica chiesa paleocristiana a Siponto, ai piedi del Gargano, in Puglia. A vederla da lontano sembra quasi sparire nell’atmosfera luminosa del golfo di Manfredonia. Ma di sera, complice un preciso gioco di luci, l’opera riprende consistenza mostrando a pieno il suo fascino.
A realizzarla l’artista lombardo Edoardo Tresoldi, classe 1987, scenografo e scultore a capo di una squadra di lavoro la cui età media si aggira intorno ai 25 anni. Abbiamo incontrato Tresoldi all’Ex Dogana di Roma, dove ha partecipato con un’opera site specific alla collettiva Il Paradiso inclinato, curata da Luca Tomìo.
Quanto conta la tua esperienza di scenografo per il cinema nel tuo lavoro scultoreo?
Ho iniziato come pittore collaborando con scenografi come Massimo Santomarco, Daniele Frabetti, Paki Meduri. Nel cinema lo scenografo rimane sempre un po’ defilato, con la frustrazione e il desiderio di riuscire a raccontare la storia principalmente attraverso gli spazi. Da lì viene l’idea di agire sullo spazio, provando a portare avanti un discorso sia narrativo che emotivo legato principalmente al luogo in cui avviene la scena. Nel cinema poi c’è una forte importanza del punto di vista dello spettatore, ed è la stessa importanza che mi sono portato dietro nel momento in cui ho cominciato a lavorare con la scultura e con l’architettura. Per me tutte le arti sono fatte per l’uomo, ed è giusto che partano da quel metro e 65 che coincide convenzionalmente con il punto di vista dell’osservatore.
Parlando di materiali, come arrivi all’impiego della rete metallica?
Inizialmente, in scenografia usavo la rete metallica come struttura che veniva poi ricoperta. Quando ho cominciato il mio percorso personale ero affascinato dalla trasparenza: ti permette di lavorare su grandi elementi che però subentrano in maniera silenziosa, lasciando molto spazio al contesto. Il mio lavoro non cerca infatti di inserire un’opera d’arte all’interno di uno spazio, ma prova a cambiare o aumentare la lettura di quello spazio attraverso il mio intervento, senza snaturarlo.
All’Università Bicocca di Milano hai realizzato Chained, un lavoro di pittura e scultura a quattro mani con l’artista Borondo. Da dove nasce il progetto?
Io e Borondo siamo molto amici, quasi fratelli, e condividiamo riflessioni riguardo all’arte in generale e all’intervento pubblico. Da tempo volevamo collaborare. I nostri due mondi sono molto simili a livello di immaginario, anche se poi alla fine si sviluppano su due discipline diverse: io lavoro sulle tre dimensioni e con un materiale che dà un senso di inconsistenza, di effimero; lui con le due dimensioni della pittura e un sapore molto legato alla terra, sanguigno, ricco di spiritualità. L’opera dunque cerca di raccontare un po’ noi stessi.
Riguardo alla basilica di Siponto, hai affermato che di solito lavori sullo spazio, mentre lì hai avuto la possibilità di lavorare sulla linea del tempo. Come ti poni rispetto all’antico?
Io sono molto affascinato dall’architettura classica, però allo stesso tempo ho una forte consapevolezza della contemporaneità, perché sono cosciente del fatto che il pubblico, lo spettatore, è contemporaneo. A Siponto ho dovuto confrontarmi con una pianta preesistente e relazionarmi con quelle metriche, entrando direttamente in connessione con gli architetti che nel tempo hanno operato su quello spazio. Il mio desiderio era ridare al pubblico che entra nello scavo la percezione degli originari spazi della chiesa, più che la sua forma esatta: è stata quindi una connessione voluta e ricercata con l’antico. I miei lavori sono site specific, quindi più tempo ho a disposizione per crearli, più posso approfondire la relazione che ho con quel posto e la sua identità.
Nel lavoro per l’Ex Dogana c’è infatti un rapporto con l’architettura classica e il Rinascimento romano, per esempio con il Tempietto di San Pietro in Montorio…
In questo caso non ho voluto citare direttamente Bramante. Di fatto io non ho mai fatto citazioni, non mi interessa fare un’arte che sia comprensibile solo attraverso una preparazione culturale. Però nel momento in cui mi sono dovuto confrontare con Roma, mi interessava creare un parallelismo tra il Tempietto di Bramante e una dimensione ultracontemporanea, industriale, come quella dell’Ex Dogana.
Nelle tue opere l’apparente immaterialità della rete si collega alla parallela immaterialità dei temi trattati, come quando ti occupi di riflessione, pensieri, ricordi…
Certo. È come se io fossi uno scultore che lavora con la “non-materia”, come io chiamo la rete. Siccome quello che mi interessa è il dialogo tra l’essere umano e il contesto, è importante che la materia che uso non abbia una fisicità forte, come nel caso della pietra. Con la trasparenza della rete posso arrivare a fare un discorso metafisico, mentale, partendo comunque da qualcosa di piacevolmente visivo.
Tornando a Siponto, come hai reagito all’improvvisa attenzione mediatica e di pubblico ricevuta dopo l’inaugurazione dell’opera?
Il completamento dell’opera è avvenuto quasi in contemporanea con il referendum sulle trivelle, e in un paese come l’Italia, dove c’è tanta ricchezza culturale che viene non solo dal passato, un investimento come quello di Siponto – e il movimento economico che ne è seguito – ha dato la dimostrazione che si può smuovere l’economia senza fare degli interventi dannosi a livello ambientale.