Arriva nelle sale “Zeta”, diretto da Cosimo Alemà, una strepitosa carriera di regista di videoclip e due lungometraggi all’attivo (At the end of the day, La Santa).
La storia, ambientata nella periferia romana, narra le vicende di un ragazzo, Alex in arte Zeta, che ha come obiettivo fare del rap, la sua passione, il mezzo per sfondare e fuggire da un ambiente che gli sta stretto. Insieme all’amico Marco forma un duo, gli Anti, ma è solo come solista che riesce a farsi notare. Alex deve andare avanti da solo e lasciare Marco e l’amica Gaia: scoprirà, però, che è soltanto non dimenticando da dove viene e restando fedele ai suoi affetti che potrà diventare un uomo ed essere davvero felice.
Nel cast oltre ai tre protagonisti Diego Germini, Irene Vetere e Jacopo Olmo Antinori, brillano le rap star italiane: Clementino, Rocco Hunt, Fedez, J-Ax, Salmo, Ensi, Briga, Baby K, Lowlow, Tormento, Rancore, Shade, Noyz Narcos, Shablo e Metal Carter.
Zeta è un film che racchiude in sé tante storie, tanti filoni di intreccio: è la vicenda di un ragazzo che non sopporta il luogo in cui vive, si sente soffocare dalla realtà che lo circonda e che non lo rappresenta; è un racconto di amicizia leale e sincera come sempre più si incontrano solo nei film e, difficilmente, nella realtà; è una favola d’amore profondo e tormentato tra due ragazzi; è, soprattutto, una storia di passione per il rap, un sentimento viscerale che si rivela come l’unico modo per riuscire a sentirsi libero e appagato.
Ma la pellicola di Alemà è anche la fotografia impietosa di una realtà di periferia, che è ambientata a Roma ma potrebbe essere dovunque, di una situazione di disagio e di povertà che porta spesso i ragazzi a compiere scelte sbagliate, a mettersi in guai molto più grandi di loro. E allora il rap diventa l’unico modo per fuggire da questo squallore: mettersi le cuffie aiuta a isolarsi, a distaccarsi dalla miseria umana e culturale che circonda questa generazione di giovani. La musica, per il protagonista, è anche il mezzo per cercare di scappare materialmente dal suo quartiere: cercherà di farsi notare nel mondo del rap che conta, quello delle case discografiche e dei club frequentati dagli artisti.
Questo racconto di borgata, che si va a sommare a quelli che abbiamo visto recentemente sullo schermo, si pensi a Lo chiamavano Jeeg Robot o a Non essere cattivo, non ha forse la profondità descrittiva e la capacità di analisi impietosa di Claudio Caligari o l’ironia graffiante e l’originalità di Gabriele Mainetti. Si prefigge però uno scopo diverso: raccontare, sopra ogni cosa, il rap e il suo impatto sulle nuove generazioni, soprattutto quelle di periferia, e in questo riesce senz’altro a raggiungere il suo obiettivo.