
Hanno 19 anni, erano compagni all’Accademia Cineteatro di Roma ma non si parlavano granché. Poi un giorno è arrivata l’esigenza di creare qualcosa e di crearlo insieme. Francesco Pratini e Alessio Lupu sono due sognatori come pochi ne esistono, determinati, puri. Hanno fretta di creare e fame di storie. Per loro il cinema non è una passione e neanche un lavoro. È una religione. Qualcosa di sacro e allo stesso tempo qualcosa che ti porta a peccare, perché quando esplori, fai ricerche e crei qualcosa, per forza di cose ti devi sporcare le mani. Anticonformisti e desiderosi di fare cinema indipendente con una fortissima connotazione intima, personale e drammatica, Francesco e Alessio hanno da poco fondato la loro casa di produzione, la Dark Astro Film, nome visionario tanto quanto i suoi fondatori.
Francesco, partiamo dalle origini. Come è nata la passione per la recitazione?
Francesco: Recito da quando ho sei anni. Non si può neanche definirlo come un lavoro, perché ormai per me è uno stile di vita. Sono partito dal teatro poi ho iniziato a conoscere meglio il cinema. Mi ispiro a quegli artisti che credono fermamente nei loro progetti anche a costo di andare contro l’industria e contro tutti, come ad esempio Leonardo DiCaprio che fin da giovane si è prodotto i film che voleva fare. Per me essere indipendenti significa essere liberi. Non starsene con le mani in mano ad aspettare, ma mettersi in gioco su ciò che realmente si vuole fare.
E tu, Alessio, come sei arrivato al cinema?
Alessio: Io sono regista, attore e adesso anche sceneggiatore. Ho scritto e diretto diversi corti, sono stato giurato all’ultima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia dove ho potuto assegnare il Premio Leoncino d’Oro al Miglior Film (avevo vinto questa possibilità grazie a un concorso ai David di Donatello con una recensione). Ho lavorato a tanti progetti e ho anche scritto un libro, L’ultima speranza. Sono aperto a qualsiasi forma d’arte. Per me ogni storia è un universo con le sue proprie leggi fisiche.
Come nasce la vostra casa di produzione?
F: Dopo un’operazione stavo attraversando un periodo tremendamente buio. È stato allora che ho capito che oggi stiamo bene e domani stiamo male, e se davvero si ha la voglia di raccontare qualcosa, non c’è tempo da perdere. Io e Alessio ci siamo conosciuti all’Accademia Cineteatro, non ci parlavamo tantissimo, anzi quasi ci evitavamo, ma scrissi a lui perché sapevo che era l’unico che poteva darmi una mano. Non mi sarei mai immaginato che sarebbero nate un’amicizia e una collaborazione così forti. Abbiamo capito subito che la strada giusta da prendere insieme era quella della produzione. Così è nata l’idea del nostro primo corto prodotto con la nostra casa di produzione, La stella cadente.
Da dove arriva il nome Dark Astro Film?
A: Abbiamo scelto una parola a testa. Francesco ha scelto “dark”, e io “astro”. Penso che in Italia ci sia terreno fertile per questi due temi. Si pensa spesso agli effetti speciali ma in realtà si possono creare tantissime storie “fantastiche” senza nessun tipo di effetto. Fin da piccolo sono sempre stato affascinato dallo spazio, dall’universo, e questa cosa la voglio portare anche al cinema. Ma ad esempio il nostro secondo corto, L’astronauta, non parla veramente di un astronauta. È un corto psicologico. In fase di sceneggiatura non volevo scrivere il classico corto con i tre atti, il colpo di scena, dove sai sempre che sta per accadere qualcosa. Volevo raccontare il trauma silenzioso di una bambina che ha perso il suo migliore amico, portato via dal cancro. È un tema che ho voluto far percepire allo spettatore, volevo farlo emozionare raccontando però l’amore impossibile fra i due. Perché la domanda del film alla fine è questa: si può sprecare una vita intera inseguendo un amore eterno per qualcuno che non c’è più?
Come concepite il vostro lavoro, quello di attore, di sceneggiatore e di regista?
F: Il cinema viene considerato di solito come finzione ma per me, come attore, non è così. Nel momento in cui piango, piango veramente, se provo amore lo sto provando davvero: è veramente un controsenso dire che il cinema è finzione, perché per me è quasi più reale della vita vera. Mi spingo a dire che l’attore dovrebbe nascondere a se stesso il fatto che la sua sia una finzione. Non dovrebbe esserne proprio cosciente. Gli attori si dividono “tecnici” ed “emotivi”. Quelli che interpretano in base alle tecniche studiate e quelli che semplicemente aprono i loro canali e quello che succede poi succede. Io cerco di essere uno di questi ultimi, punto a far emozionare i bambini e gli anziani, perché altrimenti questo mestiere non avrebbe alcuna utilità.
A: La penso allo stesso modo, forse il vero attore è quello che non sa fingere al cento per cento perché vive la scena. Sta in ascolto. E credo fermamente che se una cosa non la senti o non ti emoziona è inutile raccontarla. Prima di essere regista o sceneggiatore, devi essere spettatore. Spesso dico che scrivo storie che non esistono, perché sono troppo belle per non esistere. È un paradosso che mi piace tantissimo.
Avete intenzione di produrre solo progetti ideati da voi o farete anche scouting di idee di altri artisti?
F: Abbiamo iniziato per una necessità nostra, ma non sottovalutiamo assolutamente le idee di altri artisti nel momento in cui ce le propongono. Abbiamo una sola esigenza: quella di raccontare storie che ci piacciono, e se qualcuno ha una bella storia ma non ha la possibilità di realizzarla da solo, possiamo senz’altro farlo insieme.
A: Di base se c’è emozione – che per me è l’anima di questo lavoro – allora perché non raccontare una storia? Essere regista per me significa essere aperti, curiosi, a me interessa sapere tutto. Capire tutto. Scoprire, più che capire. Per questo vedo il regista un po’ come uno scienziato, perché lo scienziato ha il gene della curiosità nei confronti dell’universo.

Come producete i vostri lavori?
F: Abbiamo iniziato come tutti con l’autoproduzione, il primo corto infatti è nato così. Ora però sembra che qualcosa si stia smuovendo. Abbiamo instillato un po’ di curiosità nella mente di qualche investitore, perché quando hai così tanta fame di storie le persone poi credono nei tuoi progetti. Chiunque voglia credere in noi può salire sulla nave. Abbiamo ottimi riscontri, in poco tempo ci siamo già fatti notare, i nostri passi li stiamo facendo.
Quali sono adesso i progetti che state portando avanti?
A: Al momento abbiamo due film in produzione. Una sceneggiatura è completa e una sto finendo di scriverla. Il primo film, La mia luna, è un film drammatico-romantico, fondato sull’idea che esiste una quotidianità della fantascienza. È una sfida, perché in Italia non si trattano spesso argomenti come questo. Il secondo film nasce da un’idea di Francesco e si intitola L’angelo più bello.
F: È su un musicista rock e la sua ossessione per la scrittura, destinata a trasformarsi in una vera e propria psicosi che lo porterà a dissociarsi dal mondo reale e lo condurrà in un mondo tutto suo alla ricerca del genio. Torna insomma l’idea dell’arte come assoluto. Attualmente mi sto occupando della preparazione attoriale: non ho mai suonato uno strumento e adesso sto imparando a suonare la chitarra.
Come descrivereste la mission della vostra casa di produzione? Che tipo di film vorreste girare?
A: Io userei tre parole: acqua, stringhe e tempo. Acqua e tempo perché voglio che i film che faremo siano qualcosa che può adattarsi a qualsiasi tipo di pubblico ed epoca. Che possa fluire e modellarsi come fa l’acqua. E poi stringhe: c’è una teoria che dice che in tutto l’universo ci sono delle stringhe che continuano a vibrare. Sono talmente piccole che non si possono ancora vedere, neanche con i microscopi più potenti. Però costituiscono i mattoni fondamentali dell’universo, perché sono delle stringhe di energia. E i film li vedo un po’ così: una stringa che vibra e quella vibrazione emana un’energia che è la sua potenza.
Un’idea bellissima. Molto cosmica. E la tua risposta, Francesco?
F: Quella breve è: vorrei girare film che rimangano. Con una consapevolezza però: il cinema, come ogni arte, è un’arte benedetta. Però gli artisti sono maledetti. Mi spiego meglio: l’arte di per sé è un culto, il cinema è sacro. Le persone che ci lavorano invece sono dei peccatori, perché per creare qualcosa che sia davvero arte per forza si pecca. A fare ricerche e a esplorare si va sempre oltre, non si può guardare in faccia niente e nessuno. E così si diventa dei peccatori.