MFF, i film premiati visti dal nostro inviato

Un'immagine da "Prince".

“Tra il buio della sala e il cielo del Parco Sempione” il Milano Film Festival (10 – 20 settembre 2015) quest’anno compie vent’anni. Un festival che da sempre si è contraddistinto per la sua missione primaria, portare sul grande schermo milanese opere di giovanissimi autori, inedite e indipendenti che poi quasi sempre non trovano una distribuzione nel nostro paese, e farle conoscere, parlarne con gli autori, credendoci sempre fino alla fine, prima di tutto.

Questi vent’anni di esperienza, di consapevolezza e di grande passione hanno portato – forse per caso, forse per quelle famose forze dell’universo che muovono il cosmo – a poter riconoscere un tema-guida nelle 11 opere prime del concorso Lungometraggi. Come hanno sottolineato Alessandro Beretta e Vincenzo Rossini, i due direttori artistici, è infatti il concetto del Potere a tracciare il fil rouge delle 11 pellicole in concorso, nelle sue più diverse sfaccettature, da quello politico, a quello economico, fino a quello personale, individuale, che muove le persone, e determina le loro azioni. Ma più del potere forse c’è una cosa di cui in tutti i film si parla e che tutti gli 11 “protagonisti” possiedono, in un modo o nell’altro: la dignità.

A vincere il concorso Lungometraggi è Lamb di Yared Zeleke, primo film etiope a essere stato selezionato per il Festival di Cannes 2015: il protagonista è un ragazzino di 9 anni che vive in una zona dell’Etiopia povera e stremata dalla siccità, e che insieme al suo migliore amico, un agnellino di nome Chuni, compirà un viaggio di iniziazione alla ricerca della via di casa. Opera semiautobiografica, Lamb adotta il punto di vista di un bambino ma tratta temi complessi e profondi, è un film che fa riflettere, che s’interroga su come un bambino possa reagire a una perdita. Il film è un piccolo miracolo, perché rende la storia individuale di Eprahïm, e quindi quella del regista, che ha perso la sua casa e la sua famiglia a 10 anni, una storia universale, nonostante le differenze geografiche e sociali, e nonostante tratti di una realtà così lontana dal cielo stellato del Parco Sempione.

L’unica regista italiana in concorso è Maria Tarantina, giovane milanese emigrata in Belgio che firma un’opera corale sulla città in cui ha vissuto da straniera per vent’anni, Bruxelles, vincendo il Premio Aprile. Our City è un inno alla diversità, un documentario che vuole fare il punto della situazione su una città in continuo divenire, una città di stranieri, come la definisce lei, persone che fra burocrazia e precarietà sono alla ricerca di una casa. L’identità di una città, dopotutto, è il risultato di tante identità più piccole: c’è la ragazza africana che modella i suoi appariscenti gioielli sul gusto più modesto degli occidentali, ci sono due operai che cantano e ballano sulle vette dei grattacieli, c’è un giornalista con una missione molto importante da portare a termine, un padre che si commuove per la laurea di sua figlia, e così via, in un affresco vivido di piccole umanità disseminate per la città. Colpisce l’idea di Maria, secondo cui gli stranieri non si integrano in una città ma, al contrario, sono proprio loro a disintegrare l’identità di quella città per poi ricostruirla con gli infiniti tasselli dell’altrove di ognuno di noi. Questo messaggio è incarnato da un tassista iraniano che ci porta in giro per Bruxelles ma ci parla di Teheran. “Tutti siamo stranieri nel mondo”, dice, e questa è l’unica cosa da non scordarsi mai.

Completamente diverso nella trama e nel genere, ma simile nel messaggio, un altro dei lungometraggi in concorso, Prince, che si è guadagnato la menzione speciale (già ricevuta alla Berlinale 2015). Non c’è alcuna differenza a considerare diverso un proprio simile per il colore della pelle o per il modo in cui si veste, per il lavoro che fanno i suoi genitori, o per che tipo di sostanze assumono. Prince, ambientato nella periferia di Amsterdam, è la fiaba nera di un eroe dei nostri tempi, che al posto di cavalcare un cavallo bianco, sfreccia su una Lamborghini viola e al posto di due gote rosa ha un bell’occhio nero. Ma questa è la realtà, e a cosa serve il cinema se non a raccontarla? Il giovanissimo regista olandese Sam de Jong riesce a fare in modo che una produzione indipendente sia un vantaggio: con pochi movimenti di macchina e riprese pulite e rigorose mette in scena un piccolo microcosmo psichedelico e caotico e ci fa entrare in prima persona in un disagio adolescenziale in cui Ayoub cerca il suo posto. E lo trova, alla fine, sgomitando fra bulli più grandi di lui, personaggi bizzarri ma soprattutto una famiglia che proteggerà con una dedizione commovente.

Davvero interessante la sezione The Outsiders, divisa in tre filoni, quello del cinema, quello della musica e una parte che mette insieme i fuoriclasse italiani. Sul versante cinematografico, 4 i documentari: Fassbinder. To Love Without Demands, toccante ritratto del grande regista e attore tedesco, che comprende oltre due ore di materiale inedito; Sembene! dedicato al grande maestro del cinema africano, Ousmane Sembene; commovente la storia di Renée Falconetti, attrice in una sola ma memorabile interpretazione, quella di Giovanna D’Arco di Dreyer, uno dei film più influenti della storia del cinema. Ce la racconta Mirko Stopar in Nitrate Flames, un affresco di frammenti di vita rimessi in scena. Stopar, regista di fiction alle prese col suo primo documentario, procede in maniera originale, e per questo forse il risultato è così riuscito e toccante: compie infatti un lavoro di ricerca molto creativo, poiché il materiale d’archivio che riesce a recuperare è davvero pochissimo. Prima scrive la sceneggiatura, e poi adatta le scene al copione, senza la pretesa di raccontare una donna che non hai mai conosciuto, ma col solo intento di ridare voce a un’artista su cui nessuno aveva mai fatto un film prima. Orson Welles – Autopsie d’un légende, di Elisabeth Kapnist, è un viaggio che ci conduce nel labirinto dell’immaginazione dell’uomo che più di tutti ha reinventato il linguaggio cinematografico. La regista, attraverso materiale d’archivio – molto del quale inedito – e interventi di colleghi ed esperti che hanno avuto occasione di lavorare con Welles (Jeanne Moreau, Charlton Eston, Roman Polanski, Joseph McBride e Francis Ford Coppola), ripercorre fedelmente tutte le tappe più importanti della sua folgorante carriera, a partire dal celebre e folle annuncio via radio su un’invasione aliena che scatenò il panico tra gli ascoltatori, che lo rese una leggenda cinematografica.

L’evento sicuramente più atteso del festival è stato l’anteprima nazionale di Life (nelle sale dal 30 settembre), che racconta l’incrocio delle vite di James Dean e di Dennis Stock, fotografo della Magnum che realizzò il celebre servizio su Life che consacrò il mito James Dean grazie alla meravigliosa fotografia che lo ritrae con cappotto nero, sigaretta in bocca, sullo sfondo di una Times Square grigia e piovosa, lo sguardo malinconico, l’anima dentro l’obiettivo. E chi meglio di uno dei fotografi più abili del momento poteva firmarne la regia, se non Anton Corbijn? L’attore scelto per interpretare Jimmy, Dane DeHaan (Harry Osborn in Amazing Spider Man), forse potrebbe non sembrare il più adatto: dopotutto, il suo più che un ruolo era una sfida all’ultimo sangue. E invece, questo “nerd della recitazione” – proprio come Dean – sembra essere riuscito a rubargli l’anima e in due ore scarse a riportare sul grande schermo quel malessere, quel disagio, ma soprattutto quella purezza di cui James Dean era portatore.

Un altro evento speciale che ha incuriosito il pubblico del MFF fino all’ultimo momento è stata la proiezione de La ragazza Carla, evento a sorpresa di cui si è saputo data e luogo solo il giorno stesso. Ispirato al poema omonimo di Elio Pagliarani ed esordio alla regia del milanese Alberto Saibene, ricostruisce attraverso filmati d’archivio, immagini del presente e illustrazioni, la Milano del boom economico nella storia di una giovanissima dattilografa che deve lavorare per aiutare la madre. Il montaggio è accompagnato dalla splendida voce di Carla Chiarelli, e il risultato è un viaggio poetico in una Milano sospesa fra passato e futuro, che sembra ancora alla ricerca della propria identità, ma che sicuramente ha trovato la sua anima.

Anche Fabrique ha voluto conoscere meglio l’anima milanese, organizzando durante questa ventesima edizione la sua prima “puntata” milanese per presentare la rivista n. 11 e testare l’interesse del pubblico. Interesse che si è rivelato subito grande, soprattutto verso i giovanissimi registi, ospiti della rivista, che hanno mostrati i trailer dei loro progetti che spaziano dal noir al genere romantico. A presto, Milano.