«Dovrei riuscire a prendere 8 kg. Per me è complicatissimo, brucio tremila calorie solo dormendo. Questa sarà la storia di un ragazzo che viene messo nel mondo criminale delle lotte clandestine, ho due mesi per allenarmi: con il cervello ci sto già dentro». Incontriamo Francesco Gheghi prima che parta per le riprese di Mani nude, opera seconda di Mauro Mancini tratta dal romanzo omonimo di Paola Barbato. Dopo il recente esperimento di Piove (dove l’abbiamo visto deformato dai codici dell’horror, diretto da Paolo Strippoli), Gheghi torna a lavorare sul corpo, e sarà qualcosa di diverso ancora. «Mi stai chiedendo se diventerò il Christian Bale italiano?», ironizza lui.
Risposta sempre pronta, empatia estrema e visione della vita in campo lungo: Gheghi è intelligente. E non è un nuovo volto “da lanciare”, perché abbiamo già visto dove può spingersi come attore (Mio fratello rincorre i dinosauri, Padrenostro, Il filo invisibile – per il quale ha vinto anche i Fabrique Awards 2022 come Miglior attore protagonista – Io sono tempesta). Quello che è interessante capire, è che direzione prenderà la sua carriera d’ora in avanti. Sulla carta d’identità presenta tre segni particolari: inclinazione spontanea al dramma e alla commedia, un’età scenica da eterno ragazzino e il dialetto romano. Perfetto per emergere, pericoloso come una mannaia per restare immobili fino a spegnersi. Invece lui rimescola tutto, evita i ruoli prevedibili, cerca quel trasformismo che in Italia è concesso solo a pochi. E pensa al futuro: «Io non voglio sfondare: io voglio costruire. Voglio diventare un attore che resta». L’ho detto, non è solo un talento: Gheghi è intelligente.
È già chiaro che Mani nude per te sarà importante, perché?
Perché è diverso da quello che ho già fatto. Dall’horror rapportato al dramma familiare, dall’essere scheletrico, dall’attitudine al suicidio, da Roma Blues (di Gianluca Manzetti) che ancora deve uscire. Pensa che lì interpreterò un ragazzo biondo e naïf con la sindrome di Asperger, che però nella storia non dichiariamo. Anche quello è un film pazzo come piace a me, una dark comedy sulla falsa riga dei Coen, che contiene una storia d’amore e un coming of age.
Tutti film da protagonista. Quasi non hai vissuto la fase di mezzo.
Penso che se non hai personaggi secondari fighi, i protagonisti restano deboli: la storia del cinema ce lo dimostra. Detto questo, credo sia una questione di gusto e di fortuna. Forse so percepire le occasioni. Per essere in un film mi è capitato di rifiutarne altri, anche ruoli che avrei voluto fare tutta la vita.
Sei nato nel 2002: in Italia esplodeva Özpetek mentre si affacciavano Sorrentino, Virzì e Garrone. Era un mondo in cui Favino non era ancora Favino. Da piccolo che impatto ha avuto il nostro cinema su di te?
Nei primi anni Duemila papà mi portava a vedere soprattutto la commedia italiana. I film di Carlo Verdone sono tra i primi che ricordo, mio padre era innamorato perso. Io guardavo soprattutto Alberto Sordi. Poi un film che mi ha sfondato è L’ultima ruota del carro di Giovanni Veronesi (2013), ricordo che quando l’ho visto ho pensato che mi sarebbe piaciuto raccontare una storia del genere.
In quegli anni ancora si parlava di attori belli o brutti. Era una discriminante dichiarata, per certi ruoli.
Non era: è ancora così. A me è successo. Mi hanno detto che non c’ho la faccia per fare il protagonista. Dicevano le stesse cose a Elio e Picchio, forse è una fase che gli attori devono passare, forse porta fortuna.
Io sono tempesta di Daniele Luchetti: il tuo primo film da co-protagonista, eri con Germano e Giallini, eri molto giovane. Troppo piccolo per imparare qualcosa?
No, per me è stata una scuola. Mi hanno insegnato tanto e Daniele Luchetti è stato fondamentale. Quando sei piccolo non capisci bene cosa stai facendo in questo mondo, sei con quei grandi nomi che la gente vede solo al cinema. Non dimenticherò mai gli occhi di mio padre che brillavano, quando gli ho detto: «Faccio il film con Giallini e Germano». Rapportato al futuro, oggi capisco che accanto a me c’era pure Marcello Fonte. Poco dopo sarebbe uscito Dogman e ancora non lo sapevamo che era Marcellone.
Nel film Germano ti diceva: «Per capi’ un paraculo, ce vo’ un altro paraculo». Tu lo sei?
Io sono fintamente sicuro di me. Se voglio davvero fare un film, quando il regista mi chiede: «Che progetti hai?», lo guardo e gli rispondo: «Niente, aspetto solo ’sto film». Anche se sono tutti gentili e carini, questo è un mondo di squali, perché ci mangiano con questo lavoro. Ho capito che devi essere forte. Ho letto una frase molto bella: il leone mette tutta la sua forza pure per uccidere un coniglio. Appena ho saputo del provino per Mani nude ho letto in due giorni il libro, quattrocentotrenta pagine, e ho iniziato ad allenarmi. Quando sono andato a fare il callback, due settimane dopo, il regista m’ha guardato e mi ha detto: «Quanto cazzo sei cambiato».
Anche del tuo talento sei fintamente sicuro?
Ne sono consapevole. Per me è importante il gusto, però. Avere talento è una questione di fortuna. Ma il talento combinato al gusto, forse ti porta lontano.
A oggi qual è stata la tua interpretazione migliore?
Ti dico Piove di Paolo Strippoli. Venivo da due esperienze che mi avevano formato, Padrenostro e Mio fratello rincorre i dinosauri. Senza quei film non sarei arrivato oltre. Ero più grande, sapevo rapportarmi al mondo del lavoro e agli attori adulti. A quel punto mi veniva proposta un’esperienza completamente diversa, ancora più difficile. Ho fatto una preparazione al ruolo che non avevo mai fatto prima.
Anni fa ti avremmo definito un trasformista.
Mi stai chiedendo se sarò il Christian Bale italiano? [ride] Ora non abbiamo più i tempi per trasformarci. La soddisfazione più grande è quando mi chiedono che lavoro faccio. Dico l’attore. E che film hai fatto? Dico Padrenostro, e non riescono a collegare dove cazzo mi hanno visto. Ma chi sei nel film? So’ il protagonista. Ma non è vero, dai. Eri pure quello di Piove? Sì. Incredibile.
Mio fratello rincorre i dinosauri di Stefano Cipani: è stato davvero il tuo ruolo rivelatorio?
È stato il primo ruolo da protagonista e il primo film che ho avuto sulle spalle. I produttori erano pronti a brindare se avesse fatto cinquecentomila euro: poi ha fatto due milioni e mezzo e ha scoppiato il Cinetel. È una vittoria tutt’oggi, a distanza di anni ancora viene visto dalle scuole e ancora mi scrivono. Quindi sì, per me è stato davvero importante. Per la prima volta ho sentito di poter essere più grande di quello che sono.
È un film che ci dice: il diverso è speciale. Un concetto-feticcio per la generazione di attori a cui appartieni. Ma è davvero così?
Quello che sento dalla maggior parte degli attori è: «Io voglio spaccare». Non c’è più nessuno che vuole costruire. Io però non voglio sfondare, io voglio costruire. Una volta che hai spaccato, che fai? Spaccare è troppo facile. Io voglio diventare un attore a lungo termine.
Quando lo hai capito?
L’ho capito nel tempo, ma è sempre stata una mia indole. Poi c’è stato un momento delicato nella mia vita, ho perso un caro amico a diciott’anni. Questo mi ha fatto capire che non sai cosa ti riserva la vita, lui era appena uscito da scuola. C’aveva tutta la vita davanti, aveva appena iniziato. Per me è stato il primo vero momento di relazione con la morte. È ritornata la voglia di prendere un po’ il mondo a mozzichi.
È vero che certi dolori puoi affrontarli in scena?
Sì. Poi ognuno ha il suo modo di rapportarsi alle emozioni. Io non sono mai Francesco: se nel film mi muore un padre, non penso al mio. Io sono Nicola, canalizzo le sue emozioni.
E dove le trovi le emozioni di Nicola, di Jack, di Christian? Sei giovane per conoscerle già tutte.
Nel déjà-vu. Penso che abbiamo vissuto tante situazioni in tante vite. Quindi credo che spesso subentri il ricordo di una vita già vissuta, unita a una forte empatia. L’empatia rischia di essere il mio più grande pregio e difetto. Quando qualcuno sta male io so’ una spugna, sto lì che gli dico: «Damme il dolore tuo. T’aiuto io».
E infatti costruisci, non sfondi. C’è una scena per cui hai faticato a empatizzare?
Non ancora, ma ci sarà in Mani nude. Interpretare un atto di violenza mi disturba. A teatro ho visto Con la carabina, lo spettacolo di Licia Lanera, Premio Ubu alla regia: mi ha spezzato.
Allora penso al tuo Romeo e Giulietta di Mario Martone.
I genitori di Romeo e Giulietta sono due bestie, nella storia sono il male. Padre Capuleti costringe la figlia a sposarsi, lei di conseguenza arriverà a suicidarsi. Un padre che chiama la figlia puttana: Shakespeare ha scritto questo, e la gente rideva, perché Michele Di Mauro era straordinario e provocava la risata. Ma se ci pensi è follia, no? Mario voleva innescare questo conflitto.
Padrenostro, per tutti la grande performance di Favino: Claudio Noce ha detto che senza di te e Mattia Garaci il film non sarebbe riuscito. Che ne pensi?
Che so’ un ragazzino che ha avuto la fortuna di stare vicino a Picchio. E che se esci dal cinema e dici: «Favino è stato un grande, però che forti quei due ragazzini…», significa che siamo riusciti a farci aiutare da Picchio. Lui dice sempre che ama lavorare coi giovani, perché dai giovani prende tanto.
Penso che i giovani possano ricordare ai grandi cos’è la verginità che hanno perso.
Questa è una cosa bella. Picchio mi ha insegnato tanto perché da buon papà, da buon attore e da buon lavoratore, quando aveva da dirmi qualcosa me la diceva. Critiche comprese, non guarda in faccia nessuno. Poi se tu sei abbastanza intelligente da capire che ti sta aiutando, allora magari, un giorno, diventi grande pure te.
Nel backstage di Padrenostro Mattia Garaci, più giovane di te, diceva: “Grazie a Francesco mi sentivo più al sicuro”. Tu con chi ti sei sentito al sicuro?
Con Stefano Cipani. Un giorno sono arrivato scarico sul set e lui mi ha fatto capire che dovevo dare comunque il massimo. Perché la cosa bella del cinema è che ti dà la possibilità di essere eterno, quindi vai contro te stesso, ché in realtà non sei eterno per niente. Sta qui il privilegio: mio padre a dodici anni ha dovuto mollare le scuole medie e andare a lavorare in pizzeria con mio nonno.
Il filo invisibile, una scena su tutte: tu che balli Notti in bianco di Blanco davanti allo specchio, mentre ti prepari. È il film in cui ti ritroviamo adulto, concordi?
Venivo da un periodo molto difficile. Sono d’accordo, è il primo film in cui mi rapporto da adulto ad altri adulti [Filippo Timi e Francesco Scianna]. Sentivo che era una storia diversa, per quanto fosse la più tranquilla tra i miei film. Nella semplicità raccontavamo qualcosa di importante, parlavamo di omogenitorialità. Penso alla scena con Scianna, quando gli dico: «Papà, torni a casa?».
Piove di Paolo Strippoli: subentrano i codici dell’horror, con un personaggio che hai definito “menefreghista, autodistruttivo e fragile”. Rischi: risultare ridicolo e smisurato.
Infatti, la questione era essere consapevole che stavamo raccontando una storia fuori dal comune, ma come se fosse tutto naturale. Quel mondo doveva diventare la mia realtà: il paranormale doveva essere la mia normalità.
Di Strippoli hai detto che è un grande regista e che sarà il futuro del cinema italiano.
Se mi chiedi con chi vorrei lavorare ancora, ti dico Paolo tutta la vita. È un genio totale, sa sempre di cosa sta parlando. Mi rivedo molto in lui, così giovane ma con le idee già chiare. Come attore senti di stare nelle mani giuste, non vai mai nel panico. Prima di conoscerlo non ero un grande amante del genere, poi ho iniziato a pensare all’horror, a vederlo come cinema d’autore. It Follows, Martyrs, Goodnight Mommy, Lasciami entrare: sono film in cui ti rispecchi molto più che in un dramma. Paoletto Strippolone m’ha contaminato, ’tacci sua.
L’incontro tra esordienti che iniziano a scrivere il futuro: per me la magia del cinema è questa. Per te?
Passare due ore davanti a uno schermo. Emozionarmi. Innamorarmi di quell che sto guardando, delle persone. T’è piaciuta questa o la vuoi più criptica? Oh, per me è sempre magico.