Call My Agent Italia, l’attesissimo remake del fortunato format francese, ha dalla sua (almeno) cinque punti di forza rispetto all’originale. Eccoli:
1) Da Boris a Call My Agent Italia: Italians do it better
Terreno pericolante come pochi, quello su cui si incamminava Call My Agent Italia. A stargli con il fiato sul collo c’erano, direttamente da Parigi, il format originale con uno schieramento di star internazionali (Jean Reno, Charlotte Gainsbourg, Isabelle Huppert, Juliette Binoche, Jean Dujardin) e giocando in casa il mostro-sacro-Boris. Il confronto qui era immediato: si passa dal pesce rosso insider dei set all’italiana, al cane mascotte dell’agenzia di spettacolo CMA, Marcello (richiamato al suon di «come here», che fa già ridere così). Il tutto inevitabilmente ambientato a Roma, anche stavolta. Siamo nell’universo del meta cinema, della casta che svela i propri altarini in chiave comedy: e farlo in Italia dal 2007 in poi, senza provocare il paragone con Boris, è praticamente impossibile.
Invece il nostro Call My Agent non solo diverte e fila che è una meraviglia – scritto da Lisa Nur Sultan, sempre più forte, e diretto da un accuratissimo Luca Ribuoli – ma ci ricorda che questa è anche una delle cose che sappiamo fare meglio. Vuoi per scanzoneria innata o perché non ci resta che ridere, ma quando si tratta di autoironia siamo i migliori della classe. L’elenco di scene brillanti e battute che hanno il potenziale per tradursi in citazioni popolari “alla Boris” è davvero succoso. Dal tormentone sul nuovo mito del «ruolo femminile irriverente tipo Fleabag» (che ormai utilizziamo per vendere qualsiasi contenuto come “molto poco italiano”), all’attrice megalomane senza talento incarnata da Emanuela Fanelli (se vogliamo, spassoso update della “cagna maledetta” firmata Crescentini), ma anche a gag che inquadrano le dinamiche penose del lavoro all’italiana (di cui Biascica rimane il portavoce per eccellenza): «Non non sei tu che te ne vai – urla l’agente alla sua assistente under 30 – ma sono io che ti licenzio! (pausa) Che cazzo dico, non sono io che ti licenzio senza giusta causa, ma sei tu che te ne vai». D’altronde Favino sale sul palco dei David, farfuglia in spagnolo ma riceve comunque la standing ovation perché è Favino, mentre Sorrentino orchestra un pesce d’aprile proponendo la terza stagione sul Papa con Ivana Spagna, Madonna e Lino Banfi, senza che nessuno osi battere ciglio… Un po’ come quando René Ferretti dava del «genio!» a chiunque lasciando il re nudo, no?
2) I “pacchetti agenzia”: è outing
Ebbene sì, Call My Agent Italia lo fa: inserito en passant durante una scena tra Maurizio Lastrico e Kaze (il contesto è un litigio tra agente e attrice esordiente), la serie mette in bocca all’agente il famoso segreto di Pulcinella. La questione funziona più o meno così: in fase di casting c’è sempre una gerarchia di ruoli ed interpreti; allora può capitare che se per il tuo film vuoi il pezzo da novanta della mia agenzia, in cambio mi prendi anche alcuni attori minori tra quelli che rappresento. È una moneta di scambio, discutibile o meno, che tutti conoscono ma che nessuno dichiara apertamente. Per questo la battuta ha il retrogusto di un outing: «Ho fatto quello che fanno le agenzie – ammette il personaggio di Lastrico – cioè dei pacchetti. Ho cercato di prendere due piccioni con una fava». Dopotutto chi si era mai vantato di “smarmellare” prima che Duccio aprisse le danze? Insomma, i cast di certe serie tv con cinque o sei attori provenienti dalla stessa agenzia, e gli aneddoti su callback e ruoli vinti per legittima bravura ci lasciano un po’ disorientati, ma qui il dubbio sulla leggenda dei pacchetti viene risolto «così, de botto». E amen.
3) Sofia e Monica: un passo avanti ai francesi
Che poi non è che in Dix pour cent filasse proprio tutto liscio, specialmente in termini di scrittura. Su certi personaggi solidissimi e originali (in primis la Andréa Martel di Camille Cottin) gravava il peso di altri ruoli abbozzati in modo macchiettistico e un po’ ridicolo, poi corretti nel corso delle stagioni. Noémie e Sofia (nella versione originale Laure Calamy e Stéfi Celma) sono l’esempio meno riuscito. Nel nostro remake italiano, invece, si ha l’impressione che già in sceneggiatura siano state individuate e rifinite proprio queste mancanze, riscrivendo i personaggi con l’obiettivo di superare frivolezze e momenti d’imbarazzo. La Monica di Sara Lazzaro e la Sofia di Kaze brillano per caratterizzazione e interpretazione – non per riflesso – e acquisiscono una nuova dignità. Entrambe portano a un’imprevedibile riscoperta dei due ruoli: chapeau.
4) Viva Jean Reno, però…
Sorrentino fa Sorrentino. Entra in scena annunciato dal primo piano di una suora, dispensa aforismi sulla vita e si prende gioco di tutti, a partire da se stesso (non dimentichiamo i pionieri del format “Sorrentino che imita Sorrentino”: i The Jackal). Accorsi fa Accorsi. E qui è davvero uno showman di prim’ordine, tra il santone del cinema italiano e il ragazzaccio ancora tormentato di Radiofreccia, sempre ossessionato dalle sue due cose preferite: l’Emilia Romagna e «l’ennesima idea di Stefano Accorsi». Favino è esilarante. Rimane il dubbio che la sua, più che una partecipazione, sia una richiesta d’aiuto: “Pietà, smettetela di prendermi così sul serio”. E poi tra De Angelis che manda al diavolo il web politicamente corretto e Cortellesi che studia il proto-etrusco mostrandoci (di nuovo) quanto ci incensiamo anche in quelle occasioni, arrivano loro due: Guzzanti e Fanelli, insieme. Che vorresti ridere ma non ci riesci, per quanto fa ridere.
5) Perfetti sconosciuti e Bali: la storia ci insegna che
Due moniti grossi come monoliti, da non sottovalutare solo perché siamo in piena commedia. Primo: un cinema senza coraggio e senza lungimiranza, è un cinema perdente. Il più grande errore commesso alla CMA ha un nome, un cognome e un titolo venduto in 80 paesi per un incasso globale di 320 milioni di dollari: Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese. Il poster del remake coreano campeggia sulla macchinetta del caffè dell’agenzia per ricordare a tutti che quando un regista propone un’idea insolita, un agente dovrebbe pensarci bene prima di rispondere: «Non suona. Messaggini e spuntine blu? Ma fai Immaturi 3, non rompere il cazzo».
Secondo: al netto del fatto che Call My Agent Italia fa satira, la maggior parte di ciò che mostra corrisponde alla realtà. Quel tipo di adrenalina è davvero il motore della nostra industria, ma il senso di ridicolo che spesso ne scaturisce… pure. Il segreto per prenderla con leggerezza e ricordarci che non siamo a questo mondo per salvarlo, ma al massimo per intrattenerlo un po’, è nei primissimi episodi. Questa storia inizia quando il fondatore dell’agenzia, in videocall dall’Indonesia, annuncia a tutti di voler mollare la baracca: «In un pianeta dove esiste Bali, me vuoi di’ perché devo mori’ a Roma Prati?». Ma infatti: perché?