Pantafa: Emanuele Scaringi riparte dal Torino Film Festival

Pantafa
Kasia Smutniak e Greta Santi in "Pantafa".

Il suo esordio al lungometraggio non fu dei più felici. Il suo Armadillo scialbo fece infuriarie Zerocalcare, così è passato alla serie Bangla, prodotto più formattizzato e forse meno rischioso. Ci riprova con il cinema Emanuele Scaringi, presentando il suo Pantafa in concorso nella nuova sezione competitiva Crazies del Torino Film Festival, dedicata al cinema horror e fantastico.

Siamo nel reatino, Lago del Turano, in una località fittizia battezzata per l’occasione Malanotte. Una madre con la figlia dodicenne si trasferisce dalla città in un piccolo borgo di poche anime per vivere a contatto con la natura. Nel folklore abruzzese, leggenda oggi nota da quelle parti perlopiù a persone anziane, la pantafeca era una specie di strega spettrale che durante la notte si sedeva sul petto dei dormienti rubando loro il respiro. Era una credenza ancestrale, piuttosto comune in forme simili anche in altre culture, per spiegare il fenomeno medico delle apnee notturne. Ma questo lo sappiano noi, mentre i personaggi del film dovranno lentamente scoprire, a spese della figlia, interpretata dalla giovanissima Greta Santi, e della madre, una Kasia Smutniak ben centrata nella parte, l’esistenza di un’entità malvagia.

Pantafa

Scaringi ci mostra la sua Pantafa con le sembianze di una giovane donna fantasmatica, e sibilante che ricorda tanto gli spettri in sottoveste usciti dal giapponese Ringu, e poi The Ring per gli americani. Insomma, parliamo di un horror con un incipit antropologico molto originale, visto il ripescaggio di una leggenda perduta in territori poco noti sul grande schermo. Il potenziale era buono, ma le invenzioni vere latitano e la riuscita è tutt’altro che positiva. In primis perché nulla di ciò che accade ci mette in guardia, né ci spaventa, e tantomeno ci sorprende facendoci saltare dalla poltrona. A parte qualche rivelazione abbastanza telefonata. “Le storie servono a trasformare le cose brutte in qualcosa che non fa paura”. Spiega ad un certo punto la Smutniak alla figlioletta prima di dormire. Una frase anche interessante, che però sembra sia stata presa sin troppo alla lettera dal regista stesso.

La messa in scena è sempre molto semplice, a volte si scimmiotta il Midsommar di Ari Aster, provando ad elevarsi anche con l’utilizzo del drone su questa fetta al confine tra Lazio e Abruzzo. E vista l’attenzione al respiro non si può non pensare a Suspiria, dal quale siamo ben lungi. A prescindere da citazioni volute o involontarie, pur con alcune piccole idee non male, si rimane privi di quel piglio psicologico o registicamente tecnico necessario a un horror per catturare davvero il pubblico. Soprattutto quello giovane, target principale del genere. Uno sprazzo, per esempio, è legato a I’ll be your mirror. Il pezzo dei Velvet Underground performato da Nico nel 1967 viene però utilizzato per la classica cantata in macchina dei protagonisti, scena ricorrente di tanto cinema italiano degli ultimi anni.

Avendo un bel parterre di personaggi e attori che parlano abruzzese poi, come Betti Pedrazzi, nel ruolo dell’anziana vicina esperta di rimedi magici fatti in casa, Mauro Marino e lo stesso Francesco Colella, si potrebbe avvertire quasi la nostalgia dei Parenti Serpenti di Monicelli, ambientato nella vicina Sulmona. Ma i meccanismi narrativi qui, a prescindere dai generi, sono molto più basici. Insomma, un cast decisamente solido, ma si è sprecata una ghiotta occasione perché ci si poteva costruire un piccolo cupo giocattolo della paura.