Francesco Tauro, pugliese classe 1985, è uno dei primi due DIT (Digital Imaging Technician) italiani e tra i primi al mondo ad aver ottenuto il riconoscimento della Society of Motion Picture and Television Engineers (SMPTE) in Color Managed Workflows. Il DIT, categoria che rientra nell’Associazione Italiana Tecnici di Ripresa (AITR), è una figura già presente da diversi anni anni nel panorama internazionale e negli ultimi tempi si è affermata sempre di più anche in Italia. Il digitale ha rivoluzionato il modo di fare cinema e oggi sul set si aggiungono nuove figure con competenze tecniche e artistiche ormai indispensabili per la creazione di un film o di una serie. Ma di cosa si occupa esattamente il Digital Imaging Technician? L’abbiamo chiesto proprio a Francesco Tauro, in una pausa dal set in cui è impegnato.
In cosa consiste il tuo lavoro, qual è il ruolo del DIT sul set?
Il DIT è la figura che collega il colorist e il supervisore di postproduzione a ciò che avviene sul set, svolge funzioni che fanno parte del ciclo di post-produzione per i colori e la trasformazione delle immagini. La mia figura si occupa di controllare il segnale video e trasformare l’immagine originale per renderla adatta alle differenti tipologie di display, assicurando la corretta visualizzazione dell’immagine finita già sul set. Grazie al programma “Pomfort live grading” posso leggere in diretta il segnale video di output trasmesso dalle macchine da presa così da riservarmi la possibilità di intervenire su di esso per manipolarlo. Il direttore della fotografia, prima dell’inizio delle riprese, decide il look dell’immagine del film costruendolo insieme al colorist: sceglie le macchine da presa, regola i livelli di colore, di contrasti e di esposizione. Un film drammatico, ad esempio, di solito ha un’atmosfera più scura e fredda, una commedia invece ha un’immagine più luminosa e calda. Una volta creato il look, questi parametri vengono consegnati a me per applicarli sul set dall’inizio alla fine del progetto. Le location cambiano e con loro i colori delle ambientazioni e non è detto che i parametri si sposino perfettamente ogni volta con tutte le inquadrature, anzi. Io applico già il look nel mio controllo del segnale e contemporaneamente lo bilancio a livello a cromatico. Manovro in tempo reale il parametro, e osservo sul display il risultato finale. L’ultima immagine sarà quella che avrà il colorist e dai cui partirà nel lavoro di post produzione.
È un metodo particolare quello che si utilizza?
Sì, fa parte della metodologia Color Managed Workflows, in cui rientra la specifica di interscambio ASC CDL (American Society of Cinematographers Color Decision List) ed il sistema di codifica dei colori e delle immagini ACES (Academy Color Encoding System). Lo scorso novembre ho ottenuto a pieni voti il certificato rilasciato dalla SMPTE: è stato il primo corso a livello internazionale con esame e attestato finale, ed eravamo circa 15 persone da tutto il mondo. Il metodo è stato creato negli Stati Uniti proprio dall’American Society of Cinematographers e permette di salvare queste informazioni di controllo del segnale a livello cromatico attraverso un file di testo che viene allegato ai singoli file video. In questo modo, tutte le modifiche vengono tracciate e il colorist può partire da quello che già abbiamo visto sul set. Il file video, ovviamente, rimane in RAW, le modifiche vengono applicate e registrate come meta-dati. Se si dovesse cambiare completamente idea si potrebbe ricominciare da capo, ma il fine è proprio quello di economizzare sui tempi della post produzione. Il lavoro del DIT permette di avere già il giorno successivo alla ripresa i dailies e i proxies, che servono al montaggio, con le modifiche già applicate. È il punto di partenza per la color finale del film.
Da quanto tempo è presente questa figura in Italia?
Da circa un decennio. Esisteva anche prima ma era più rara e ancora poco conosciuta. Solo le produzioni più innovative e con budget più alti se ne servivano. Negli ultimi anni, osservando anche ciò che avviene all’estero, si è capito il valore di questa figura tecnica. Il DIT nasce negli USA con l’intento di sfruttare al massimo le potenzialità del digitale. Sui progetti importanti è fondamentale. Senza rischieremmo di non avere immagini uguali per ogni macchina da presa. Ogni lente e ogni filtro ottico ha specifiche particolarità cromatiche quindi vedremmo immagini non equilibrate, non finite, ancora da lavorare. Il regista, il DOP e la troupe, del resto, amano potersi già gustare il risultato finale sul set. Il direttore della fotografia, inoltre, riesce a dare più coerenza e continuità fotografica perché riesce a vedere subito l’effetto dell’illuminazione che vuole ottenere. Io gli assicuro determinate qualità delle immagini in modo che lui possa affidarsi totalmente a ciò che vede. Alcuni DOP, poi, si affidano al DIT anche per i diaframmi, in questo modo hanno più tempo di dedicarsi alla parte più importante e artistica, ovvero alla posizione della luce.
È quindi fondamentale ormai il ruolo del DIT sul set…
Ormai è un ruolo indispensabile per film e serie. Permette sicuramente di risparmiare sulla post produzione. È un lavoro che se non si fa sul set andrà comunque poi fatto dopo, tanto vale farlo prima e risparmiare tempo e denaro. Questo per ottenere fin da subito un risultato che sarà quasi quello finale del film, sarà già un look particolare. Io vado a bilanciare, togliere le problematiche dell’immagine a livello di colore ed esposizione digitale, per avere un risultato già ottimale. La figura del DIT, inoltre, può anche svolgere il compito di Data Manager anche se, nelle grosse produzioni, si preferisce prevedere un assistente.
Come ti sei avvicinato a questo mestiere?
Dopo il liceo ho provato a studiare ingegneria ma sentivo che non era quella la direzione che volevo percorrere, così a vent’anni ho iniziato a lavorare presso un’emittente locale. Ho lavorato lì per un anno come operatore di studio e ho scoperto che la mia passione era il mondo della ripresa filmica e televisiva. Quando l’editore dell’emittente ha fallito ho deciso di rimettermi a studiare: sono andato a Milano, dove ho conseguito un Bachelor of Arts in Digital Film Making e poi a Roma dove mi sono formato alla Shot Academy. Qui ho conosciuto Sandro Magliano, uno dei docenti ed uno dei più quotati DIT in Italia, spesso impegnato all’estero, e ho capito che questa figura mi calzava alla perfezione perché riunisce le mie passioni: quella per l’informatica e quella per l’arte e la fotografia. Ci vogliono, infatti, molta concentrazione e molte conoscenze tecniche, sia informatiche che artistiche, come conoscere bene i colori e le loro sintesi. Ho iniziato, quindi, a lavorare sui set come tecnico e in tre anni sono diventato DIT. Mi sono innamorato della qualità, dell’impegno, della ricerca della perfezione che c’è nel cinema.
Sogni nel cassetto e progetti futuri?
Continuerò a lavorare come DIT perché è davvero una professione bellissima ed altamente stimolante. Nel corso della mia carriera professionale ho avuto l’onore di collaborare con DOP bravi e talentuosi, tra cui Luca Ciuti, Davide Manca, Daniele Ciprì, Federico Annicchiarico, Agostino Castiglioni, Sandro Chessa, Gustavo Habda e Benjamin Maier. Se dovessi sognare, mi piacerebbe collaborare con Paolo Sorrentino, un sogno ancor più grande sarebbe quello di lavorare su un set americano con Emmanuel Lubezki, tre volte premio Oscar per la fotografia.