Il 24 giugno 2014 Fortuna Loffredo, una bambina di sei anni, cade dal tetto di un palazzo nel famigerato Parco Verde di Caivano dopo aver subìto nel tempo numerosi abusi. Tre anni più tardi un vicino di casa viene condannato all’ergastolo per quanto accaduto e, nel corso delle indagini, emergono diversi altri casi di violenza sessuale avvenuti nello stesso rione, in un degradato contesto di diffusa omertà. Nicolangelo Gelormini, quarantaduenne regista napoletano con alle spalle un’esperienza come assistente di Paolo Sorrentino (L’uomo in più) e una serie di collaborazioni con nomi del calibro di Luca Ronconi, David Lynch e Isabelle Huppert, per il suo primo film è partito da qui. Consapevole dell’impossibilità di rappresentare in maniera tradizionale tale disumanità sul grande schermo, ha scelto di seguire una via diversa da quella della mimesi: onirica, surreale ma allo stesso tempo conturbante.
Nel film trasfiguri l’orrore dei fatti di cronaca, che non viene mai esplicitamente mostrato. Qual è stato il tuo approccio alla storia della piccola Fortuna?
L’idea iniziale nasce dal produttore principale Davide Azzolini, che era stato profondamente scosso dalle vicende del Parco Verde e mi ha contattato per ragionare su quale forma cinematografica potesse assumere un racconto di questo tipo. Sulle prime ho opposto molta resistenza, perché sentivo che nel mettere in scena questa storia la pornografia era dietro l’angolo. A un certo punto, poi, indagando l’emozione che quei fatti avevano fatto nascere in me, ho pensato che questa personale resistenza, unita a un senso di tradimento, potesse condurre allo sviluppo di un racconto traslato il più possibile su un terreno di fantasia. Il dato cronachistico non mi ha mai affascinato e soprattutto non rientra nel mio mestiere di narratore. È qualcosa che attiene al giornalismo e a forme cinematografiche di tipo naturalistico-documentaristico che non mi appartengono.
Ci spieghi meglio questo senso di tradimento di cui parli?
Una volta deciso di realizzarlo, Fortuna (qui il trailer) per me è sempre stato un film sul desiderio dei bambini di essere amati tradito dagli adulti. Mi sono così concentrato su una vera e propria esegesi di questo tradimento. Partire da un tema di fondo è la cosa migliore che può capitare quando si pensa alla realizzazione di un film in quanto, se lo si ha ben chiaro, da esso si possono far dipendere tutte le scelte di scrittura ed estetiche. Compreso che il mio desiderio era quello di indagare il tema del tradimento, ho lavorato affinché ogni singolo elemento del film remasse in questa direzione. E il tentativo di far provare a chi guarda Fortuna le stesse emozioni che ritengo possa aver vissuto la piccola protagonista rendeva necessario che tradissi in primo luogo lo spettatore.
In questo discorso rientra la scelta di dividere la struttura del film in due atti, in cui tra le altre cose le protagoniste adulte si scambiano di ruolo…
Proprio così, la struttura del film è diventata in due atti in quanto volevo spiazzare in maniera forte lo spettatore. Ero consapevole di assumermi un grande rischio perché quando tradisci lo spettatore, soprattutto se lo fai a metà narrazione, vai incontro alla seria possibilità di perderlo. Qui in qualche modo mi è venuto in soccorso uno dei grandi padri putativi del cinema, Alfred Hitchcock, che in Psycho ebbe il coraggio di far morire la sua protagonista anzitempo. Oltre alla struttura narrativa bipartita, il tema del doppio in generale – che al cinema ho sempre amato – è diventato il leit motiv di Fortuna. Al di là dei personaggi interpretati da Valeria Golino e Pina Turco, da questo punto di vista emblematici, tutti gli adulti che si muovono all’interno del film in realtà rivelano un proprio contrapposto, un contraltare. Sono loro infatti i traditori della storia. Le stesse inquadrature, nella maggior parte dei casi, sono composte in modo da risultare spezzate in due, rimandando a questa dualità di fondo che caratterizza l’intero film.
Più che su strategie drammaturgiche tradizionali, il tuo lavoro punta su immagini evocative e simboliche.
Uno dei tentativi che vorrei portare avanti con il mio cinema è quello di sollecitare in maniera sinestetica lo spettatore. Questo approccio non è propriamente cinematografico, ma qualcosa che assorbo in primo luogo dall’arte contemporanea; in particolare, da un certo tipo di arte concettuale in grado di trasmettere in modo molto efficace allo stesso tempo il significato, l’emozione e l’immagine. Quello che ho fatto è stato provare a utilizzare tutti gli aspetti della grammatica filmica per andare in tale direzione. Con questo obiettivo, fin dalla fase di scrittura, ho pensato a come poter far ricorso alle molteplici possibilità che il linguaggio cinematografico mi offriva, dalla struttura del racconto alla messa in scena, fino al montaggio e al lavoro sul suono.
A tratti Fortuna porta alla mente le atmosfere e la poetica del cinema di David Lynch, in particolar modo Mulholland Drive.
Quello di Lynch è senz’altro un mondo filmico che sento molto vicino. Conoscerlo e collaborare con lui occupandomi della regia del videoclip di All the Things, canzone scritta da David e interpretata dalla musa Chrysta Bell, è stato un sogno che si è realizzato. Mulholland Drive per me è uno dei film più importanti della storia del cinema. A differenza di altri grandi capolavori del passato, ho avuto la straordinaria opportunità di vederlo in sala nel momento in cui si è rivelato al mondo, quindi non a posteriori e senza il filtro di una comprensione critica già sedimentata. Detto ciò, mi sento un puntino rispetto a Lynch e per questo in Fortuna non ho voluto citarlo in alcun modo. Nel suo caso parliamo di una personalità immensa: David è una luce, è luminosissimo, la libertà che ha è una conquista che al mondo possono vantare davvero in pochi.
Stai già lavorando a un nuovo progetto?
Sono molto scaramantico, quindi per ovvi motivi preferisco non entrare nello specifico. Posso però dire che durante tutta la gavetta fatta in questi anni ho avuto la possibilità di mettere da parte e sviluppare diversi progetti. Di recente poi ne sono arrivati anche di nuovi e così mi trovo nella fase in cui dover scegliere ciò che mi ispira maggiormente. Si tratta di una cosa stimolante e bellissima per un regista: quanto più senti un progetto nel momento in cui lo fai, infatti, tanto più questo potrà essere onesto e veritiero.