Mauro Vanzati, scenografo di “Anna”: «Leggi e pensi: non ce la faremo mai. Poi ce la fai»

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Angelica, sullo sfondo della villa di Bagheria in "Anna".

«Quanti anni di vita hai perso?». «Incalcolabili. Sono contentissimo, la rifarei domani. Però cazzo, ho sputato sangue. È stata una serie infinita, mantenere sempre alta la tensione è stato faticoso. Ho i capelli bianchi». Dopo un anno e mezzo, una pandemia e l’esordio su Sky, ad Anna di Niccolò Ammaniti bisognerebbe dedicare un workshop a parte.

Siamo di fronte a una prima stagione in 6 episodi che potrebbe essere anche l’unico capitolo di questo mondo post-apocalittico dominato dai bambini. Ma che è senz’altro il racconto di un visionario attraverso una narrazione spietata e nuovissima: Anna si concede tutto. E gli addetti ai lavori devono confrontarsi con un’asticella che alza inesorabilmente il livello della qualità. Nessun reparto escluso, ma alcuni su tutti. A partire da Mauro Vanzati, scenografo della serie: «Quando ho rivisto Anna mi sono forzato: ho voluto abbandonarmi e dimenticare tutto il dietro le quinte. Anche il mio lavoro. Ma non so se ci sono riuscito davvero, sai?».

Anna sembra un po’ il sogno e l’incubo di ogni scenografo.

L’ho vissuta esattamente così. Dal momento in cui il progetto ha iniziato a concretizzarsi mi dicevo: «Ma come si fa a fare ’sta roba?». Niccolò ha una fantasia incredibile ed essendo uno scrittore ha descritto molto precisamente quello che voleva andare a girare. È anche vero che poi le scene cambiavano in corsa un milione di volte, era un continuo lavorare per correggere gli errori e addrizzare il tiro.

Ma come è andata? Ti arriva una telefonata per fare la serie, e tu…?

In realtà è tutto iniziato a seguito di un incontro con Niccolò, che ha conosciuto anche molti altri professionisti, e forse io non ero il primo della sua lista. A livello di curriculum non avevo alle spalle un progetto così grosso e impegnativo.

Tante maestranze e capi reparto della serie non avevano alle spalle un progetto così grosso e impegnativo.

È stata una precisa volontà di Niccolò. Ha scelto le persone dopo averle provinate e aver stabilito se c’era da parte nostra una risposta e una proposta ai suoi input. Per quanto mi riguarda, dopo una chiacchiera iniziale gli ho portato un po’ di lavori grafici su alcune idee e spunti per il film, e abbiamo iniziato a interagire sempre di più. Ha visto che c’era un dialogo che sembrava fertile e ha deciso di affidarmi il progetto.

Uno schiaffo al sistema: sei balzato direttamente a un livello altissimo.

È assurdo ma è esattamente così. In qualche modo devi guadagnarti la patente per poter essere abile a fare cose di un certo livello, ma paradossalmente questa patente non te la guadagni mai se non ti fanno fare cose di un certo livello. Niccolò invece mi ha dato fiducia e avrei fatto fatica a fare questo step di carriera se non fosse stato per la sua scelta di impostazione del lavoro.

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Giulia Dragotto è Anna.

Qual è stato il grande mantra fra te e Niccolò fin dall’inizio?

Una delle prime cose che Niccolò mi ha detto è che voleva usare il meno possibile i visual effects: mi rende orgoglioso che gran parte di quello che si vede nella serie sia stato effettivamente allestito in scena. I VFX sono pazzeschi e si integrano benissimo, ma tutto il sapore della serie in realtà è affidato proprio all’allestimento. Siamo ricorsi agli effetti speciali solo di fronte alle situazioni impossibili: penso al ponte crollato, ai totaloni o ai droni su Palermo devastata.

Anche a Piazza Pretoria a Palermo [detta anche Piazza della Vergogna, nda] avete allestito davvero tutto quel caos?

L’abbiamo fatto. Con molta attenzione e rispettando i limiti, ma l’abbiamo chiusa e lavorata il giorno prima delle riprese per poi devastarla davvero. Immondizia, water rotti sulle scale e allestimento fisico; solo le scritte sulle statue sono ovviamente VFX.

Guardando la serie ho avuto l’impressione che vi siate divertiti facendo un po’ quello che volevate. Senza limiti. Dall’allestimento alla regia, alla narrazione in sé. Invece?

Invece è stata come sempre un po’ una lotta su tutto. Niccolò quelle cose le ha scritte, ma magari ci si aspettava un compromesso da parte sua. Invece no, voleva davvero girarle così, e tante ce le siamo conquistate un passettino alla volta. Quello che mi ha sorpreso, guardando il prodotto finito, è che le volontà di Niccolò erano fondamentali nella narrazione e per far passare tutto quel sentimento. Non è facile capirlo mentre ci sei immerso, ma non ci sono scelte pretestuose e questo è raro. In realtà Niccolò segue un grande rigore e l’ha imposto a tutti.

Quante persone hai potuto avere in reparto?

Di base eravamo una decina, tra preparazione, set e arredamento. Però all’occorrenza aumentavamo esponenzialmente, soprattutto nel numero di manovali. Siamo arrivati anche ad essere 45 persone insieme. I nostri allestimenti erano quasi tutti lunghi e quindi si accavallavano spesso, è capitato di avere cinque set aperti nella stessa giornata, anche quando in Sicilia è scattata una doppia unità.

L’incubo dello scenografo è sempre l’organizzazione del budget: com’è stato per te gestirlo su un progetto così grande?

Inizialmente ero spaventato, erano numeri che non avevo mai dovuto gestire e avrei potuto far cappottare la Wildside! Devo dire che alla fine è stato abbastanza semplice, sono stato veramente aiutato dalla produzione e da Erik Paoletti, un organizzatore molto forte che aveva chiarissimo cosa andavamo a fare. Siamo anche riusciti a rispettare gli accordi iniziali, e lì invece potevo aver sparato un azzardo.

Quand’è che hai percepito davvero la portata del progetto?

Non tanto nel confronto con il budget, perché comunque è stato un lavoro faticoso e il punto era sempre alzare l’asticella. Ma il fatto è che non ho mai visto un vulcano di creatività in perenne evoluzione come Niccolò: a un certo punto sembrava Giochi senza frontiere. Credo che Anna funzioni per questo: ciò che è visto comunemente come un mondo devastato e abbandonato, qui ha su di sé uno strato di fantasia dei bambini che è potentissimo e clamoroso. Diventa pura narrazione.

Le tre grandi sfide che avevi di fronte, a mio avviso, erano lo scenario post-apocalittico distopico, la natura selvaggia e la demolizione costante dell’ambiente.

Assolutamente sì. La prima vera grande sfida poi era cercare di non replicare un cliché. Potresti trovare la chiave per realizzare un posto abbandonato e riproporla a nastro, portandola a casa ogni volta. Ma non era possibile: scenografia e allestimento erano già scritti in sceneggiatura come un racconto. Su ogni ambiente dovevamo fare un lavoro diverso, una narrazione costante. E allora dovevamo chiederci cosa potesse essere successo a un luogo dopo quattro anni, dove potesse tornare a spuntare la natura, dove potesse esserci un degrado o un passaggio depredato dai bambini? La scenografia era parte attiva della storia.

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Anna e Astor al Podere del Gelso.

Sembra quasi uno spoglio psicologico della sceneggiatura. Il disordine è uno degli aspetti che mi ha colpito di più: non è mai cinematografato ma sempre realistico. E poi è un disordine dei bambini e non degli adulti.

Lo è. Soprattutto per il Podere del Gelso, la casa di Anna e Astor. Abbiamo anche visto dei documentari su degli esperimenti sociali: cosa succede nel momento in cui dei bambini rimangono da soli, senza il controllo dei genitori? Che tipo di spazzatura, rifiuti e avanzi si formano in questa casa e per quale motivo? Quello è stato il racconto principale. Non c’è più elettricità: bene, avranno senz’altro depredato i supermercati. Le scorte che hanno a casa sono finite: ok, allora cosa mangiano? Abbiamo cercato di raccontare visivamente il percorso a colpo d’occhio. Milioni di pezzi in ogni ambiente. Il rischio era che fosse anche anti estetico, quasi una sorta di discarica. Non sapevo se fotograficamente potesse risultare bello.

Raccordare gli ambienti e i personaggi non dev’essere stata una passeggiata.

In parte è stato un lavoro molto rigoroso, la segretaria di edizione [Anna Belluccio, ndr] è stata fantastica a non impazzire. Rispetto ad altri casi però avevamo un margine di tolleranza maggiore, c’era una montagna di roba in campo. In qualche modo è stato anche un liberi tutti, ma non ricordo particolari disastri.

I tempi di allestimento sono stati dilatati come sembra?

Abbastanza, ma meno di quanto temevo all’inizio. Era un lavoro nuovo per tutti, ma appena ci siamo settati abbiamo scoperto di poter essere più veloci del previsto. Avevamo delle location molto laboriose, il Podere del Gelso ha avuto una delle preparazioni più lunghe. Siamo partiti da una sorta di casa in vendita, l’abbiamo pulita e portata al nuovo per poi sporcarla. Abbiamo lavorato a strati, ci son voluti circa due mesi e mezzo. Il resto andava fatto in corsa, accavallandosi. Altre due location con lunghe preparazioni sono state l’interno della villa di Angelica e il totem davanti alla villa, mentre giravamo con doppia unità.

Nell’ultimo episodio la decomposizione del cadavere della madre di Anna e Astor segna un picco molto violento della narrazione. E la stanza, attorno, si decompone insieme a lei. Come avete realizzato tutto questo?

Sono delle sculture che ha fatto Leonardo Cruciano (uno dei fondatori di Makinarium) cercando di raccontare la storia di un corpo che muore: come si trasforma e cosa succede a quello che gli sta attorno? Si gonfia, esplode e rilascia i suoi liquidi. Spostavamo le sculture insieme alla scenografia, ci abbiamo lavorato tanto in preparazione. Niccolò aveva scritto tutto ed aveva ben chiaro il perché dei vari step del cadavere. Noi un po’ meno. Ma la sua era un’esigenza di raccontare la trasformazione tra l’ambiente e il rapporto che cresceva tra fratello e sorella. Questo aspetto crudo era fondamentale per stringere il loro sentimento, con la morte della madre e la responsabilizzazione di Anna.

Cosa avete utilizzato per realizzare quel liquido? L’impatto è molto forte.

Domandona. C’era Leonardo Cruciano sul set, ma in particolare è stata una collaborazione perché non eravamo arrivati a quel livello di comprensione tale, rispetto al cadavere, che invece Niccolò possedeva. Siamo corsi ai ripari sul momento, ricordo dei materiali reperiti all’ultimo, abbiamo comprato del gel per i capelli e delle polveri. Il punto principale, al di là della verosimiglianza, era che dovesse essere visibile. Non poteva essere trasparente, dovevamo portarlo su dei toni bruni. Mi sono affidato al sapere di Leonardo.

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Anna e Pietro sull’Etna.

Uno dei miei ambienti preferiti è il covo dei gemelli. Anche per te?

È uno dei cuori delle location. Ha avuto una genesi lunga, dopo il Covid la serie si è ridotta da 8 a 6 episodi e una delle linee narrative tagliate è stata proprio la loro, a malincuore. A Roma abbiamo trovato questa ex officina di macchina abbandonate, e la geografia dello spazio funzionava. Abbiamo porzionato l’ambiente e costruito all’interno un supermercato, svuotando e allestendo con pittura, invecchiamenti e arredi. È uno dei posti più “gotici” del film, dove succedono cose forti. Arredi dal supermercato, frigoriferi, roba che andava reperita, trasportata e sporcata, poi ripulita per riconsegnarla: una montagna di lavoro e uno degli aspetti di cui sono più orgoglioso. Anche perché eravamo verso la fine delle riprese e io ero arrivato al capolinea.

Quanto sono durate le riprese?

Quasi un anno, compreso lo stop del lockdown. Abbiamo iniziato a ottobre 2019 fino a marzo 2020, quando ci siamo fermati per la pandemia fino a maggio. Da lì abbiamo ricominciato fino ad ottobre 2020, circa.

Anche il totem all’entrata del covo dei blu ha attirato parecchia attenzione. Ti sei divertito?

Leggi una cosa del genere e non ti sembra vero: pensi «non ce la faremo mai», e poi ce la fai. Anche abbattendo i vari vincoli che ci venivano posti. A un certo punto è diventato drammatico, non potevamo ancorarci alla villa, si tratta di una struttura storica del 1600 a Bagheria, con la principessa che ancora abita lì dentro. Abbiamo devastato il giardino e costruito un totem di circa 12 metri. Era saldato a terra su una grossa piastra di ferro, zavorrata con pesi di cemento da cantiere e con un’anima in putrelle di ferro a comporne lo scheletro. La posizione è studiata con un ingegnere, perché quello è un posto esposto ai venti e il totem non doveva soffrire le intemperie. Poi l’abbiamo drappeggiato in scena, creando delle forme base per la testa e il torace. Tutti materiali leggeri, per lavorare in sicurezza senza renderli pericolosi se fossero caduti: sotto c’erano 200 bambini blu. Perlopiù reti, stracci, vestiti, plastiche e corde indurite per mantenere forma e dimensione.

Al netto di tutto qual è stata la tua sfida più difficile?

Ho capito che c’era una logica contraria a quella normale. Tendenzialmente si lavora molto sugli interni e si riposa un po’ sugli esterni. Invece per noi gli esterni erano più difficili, avevamo meno tempo per allestirli ed erano soggetti alle intemperie. Devi simulare quattro anni di assenza completa dell’uomo in posti che in realtà sono vissuti: certe volte non è proprio fattibile. Forse i luoghi più infernali per me sono state le spiagge: non sapevo come fare. Era impossibile tenerle vergini con una troupe di cento persone che ci gira sopra e va ovunque. Come le sistemi? Passi con il trattore e le spiani ma poi diventa un parcheggio. Invece dovrebbe essere una sabbia in cui il vento ha creato delle dune e il tempo ha inciso sul paesaggio. Quello è stato sicuramente un compromesso, ed è stato difficile provare a farlo ma accorgermi che non ci arrivavo.

Quando si dice «c’è un prima e un dopo»: come si passa a un nuovo progetto dopo una serie del genere?

Già. Sarà difficile, non sempre senti quella necessità e quell’urgenza così forte come l’abbiamo avvertita in Anna. Questo ti mette sotto scacco, costantemente alla prova. Fatichi, sei a pezzi, temi di non arrivarci. Ma quando poi finisce, qualcosa fa la differenza: capisci che tutto fa parte di un disegno che effettivamente torna. E se la scenografia funziona è anche perché sono stato spinto oltre il limite. Ora ha un senso e lo riconosco.