Con Maradona’s legs, incantevole corto con protagonisti due ragazzini palestinesi e la loro passione per il calcio, Firas Khoury ha vinto un meritatissimo primo premio ai Fabrique du Cinéma Awards lo scorso dicembre. Raggiungiamo Firas mentre è in visita nel suo paese natale, un villaggio in Galilea: da cinque anni il regista e sceneggiatore palestinese vive in Tunisia, dove sta lavorando al suo primo lungometraggio, dal titolo The Flag, non casuale per un autore profondamente legato alla sua comunità, «che vive in uno stato di occupazione e assedio».
Perché proprio The Flag? Di che cosa parla il tuo primo lungometraggio?
Il titolo si riferisce alla situazione politica palestinese: noi abbiamo una nostra bandiera, ma non ci è permesso esporla. Ma il film è anche una storia d’amore e un racconto di formazione. Si tratta di una coproduzione internazionale con Libano, Francia e Tunisia ed è tutto pronto per girarlo ad aprile in Tunisia, Covid permettendo, naturalmente.
Anche Maradona’s legs (distribuito da Lights On) mostra come il tuo lavoro sia strettamente legato alla realtà palestinese; attraverso la storia di due giovanissimi tifosi della squadra di calcio brasiliana ai Mondiali del 1990 racconti di quello che significa non avere un proprio team nazionale e di come sia importante restare al fianco della tua squadra anche quando perde.
Sì, in Maradona’s legs c’è chiaramente un livello politico, ma il mio intento era soprattutto quello di raccontare la passione, in particolare la passione di due bambini. C’è molto di me, i tifosi sfegatati del Brasile ai Mondiali del ’90 siamo io e mio fratello (io lo sono ancora adesso): non avendo una squadra nazionale dovevamo e dobbiamo tifare per un team straniero. Ma al di là appunto dell’aspetto politico, quello che mi interessa è fare film che si concentrano sull’individuo, sulle sue lotte e i suoi desideri: la passione per il Brasile può essere vista come la passione per la liberazione, per la rivoluzione, per la vita. E credo che il pubblico e le giurie dei festival di tutto il mondo che continuano a premiare il corto abbiano capito i vari livelli del film, ma soprattutto abbiano amato la messa in scena, il casting, il monologo finale del protagonista. Insomma, è una piccola storia raccontata bene e non pretenziosa.
Sempre restando al legame con la tua comunità, sei il fondatore di una rete di cineasti palestinesi, Falastinema.
Falastinema è un gruppo di registi che si è dato l’obiettivo di far conoscere i film del mondo arabo ai palestinesi – poiché sempre per la situazione politica hanno poche possibilità di vederli – anche attraverso incontri sui social con vari autori. Il progetto è durato quattro anni, ma da quando mi sono trasferito in Tunisia si è per il momento fermato. Del resto da noi non esiste una vera industria cinematografica, la comunità dei registi è ancora molto piccola, anche se qualche nome si è fatto conoscere a livello internazionale, come Elia Suleiman (Il tempo che ci rimane, Il paradiso probabilmente) e Hany Abu-Assad (Omar, Il domani tra di noi). Non ci sono nemmeno vere e proprie scuole di cinema, solo da poco una ha aperto a Betlemme; io stesso ho studiato all’Università di Tel Aviv.
Qual è il cinema che ispira il tuo lavoro?
Di base amo i drammi o commedie dalla struttura classica, per questo guardo con ammirazione a Giuseppe Tornatore e a Lina Wertmuller, che sono fra i miei autori preferiti in assoluto e che, incidentalmente, sono italiani… Ma mi piace contaminare questa impostazione classica con la poesia e la profondità del cinema sovietico alla Tarkovskij. In effetti, tra i progetti a cui sto lavorando c’è una commedia romantica di stampo hollywoodiano ma con una profondità, una concentrazione, una messa in scena che vengono dal cinema sovietico.
Non sembri un grande amante delle serie Tv…
Mi piacciono e le seguo ma vi cerco soprattutto svago, intrattenimento, mentre nei film cerco qualcosa in grado di cambiare profondamente i miei pensieri e le mie emozioni: diciamo che ho aspettative diverse. E poi non penso alle serie come qualcosa destinato a restare per sempre: mentre il cinema è un’arte più densa, compatta, fatta per durare nel tempo.
Che consiglio daresti a un ragazzo o una ragazza che studia cinema?
Non mi sento nella posizione di dare consigli, ho girato solo corti, forse dovresti chiedere a Tornatore [ride]. Comunque il mio unico suggerimento è quello di conoscere bene le arti: non solo il cinema, ma anche la letteratura, la pittura, la musica, perché il cinema unisce tutte le arti. Non mi fido degli sceneggiatori che non leggono tanta letteratura e credo che la maggioranza non lo faccia, come è evidente dal loro lavoro, così come spesso i direttori della fotografia non conoscono la pittura. Non bisogna sottovalutare la “facilità” di fare cinema – prendo una telecamera e mi metto a girare – perché a un certo punto verrà fuori se il tuo lavoro ha alle spalle una solida cultura artistica o no.