Da bambino volevo diventare un calciatore o uno scrittore. Ho fatto il calciatore fino a 16 anni. Quando era il momento di fare il calciatore sul serio, ho iniziato a fare lo scrittore.
Si presenta così, non senza (auto)ironia, Davide Carnevali, autore e teorico, classe 1981, tra i pochi – se non l’unico – giovani drammaturghi italiani capaci di lavorare, richiestissimo, in tutta Europa. Si fece notare nel 2009, con un lavoro intitolato Variazioni sul modello di Kraepelin, e da allora non ha smesso di presentare i suoi spettacoli a Barcellona o a Berlino, a Parigi o a Lisbona e i suoi testi sono tradotti anche in estone, in rumeno, in greco e in polacco.
Strapremiato per la sua produzione drammaturgica, Davide Carnevali si racconta tra una prova e l’altra: «Ho sempre scritto cose differenti tra loro, per progetti differenti, e questa ricerca di diversificazione ha marcato molto la mia scrittura. Ci sono testi che nascono perché sento la necessità di scriverli, e che poi vivono vite proprie, messi in scena da altri, in luoghi e tempi altri; e testi che sono determinati da un incarico o progetti specifici, che sono legati a una certa opzione di messa in scena. Sono due processi creativi che hanno poco in comune, che mettono in gioco tratti distinti della personalità dell’autore: più viscerali, i primi; più cerebrali, i secondi. Quando scrivo per me, preferisco mantenermi lontano dalla scena, per la seconda tipologia, invece, un confronto con le persone che lavoreranno sul testo è utile, perché in questo caso le mie parole sono semplicemente materiale da usare sulla scena».
Ma in questo duplice binario compositivo il rapporto con la regia non è certo indifferente: naturale allora chiedere all’autore quale dialettica si instauri con il regista quando è un’altra persona a “impossessarsi” del testo dell’autore e cosa significhi fare regia. «Mi interessa – spiega Carnevali – la varietà di prospettive che offre, ma non sono un regista, mi approccio alla pratica come un autore che prova a mettere in scena un suo testo insieme agli attori, e cerco di sfruttare questo approccio naïf come un vantaggio. A Buenos Aires ho imparato che si può fare ottimo teatro con poco: un buon testo e buoni attori. L’esperienza di Maleducazione transiberiana è nata pensando di riproporre il modello di produzione del teatro off argentino e non avrei potuto farlo senza la collaborazione degli attori. Nei prossimi anni curerò altri progetti di creazione, ma questo non significa che io diventi un regista».
Davide Carnevali si è “scoperto” drammaturgo a ventun’anni in un seminario dell’attrice e autrice Laura Curino, una delle protagoniste del teatro di narrazione italiano. La svolta è avvenuta con il trasferimento a Barcellona, dove ha seguito workshop alla Sala Beckett, un vivacissimo spazio teatrale votato alla nuova drammaturgia. Tra gli incontri di quel periodo, Carnevali evoca alcuni tra i migliori autori europei: Carles Batlle, Martin Crimp, José Sancis Sinisterra, Biljana Srbljanovic. «In quella sala – racconta ancora – ho conosciuto il drammaturgo Juan Mayorga e l’ho proposto al critico teatrale e editore Franco Quadri. Così è nata la collaborazione con la casa editrice Ubulibri: lavorarci è stata un’esperienza ricchissima; così come lo è stato scrivere per il trimestrale di teatro «Hystrio» e per altre riviste internazionali, perché mi ha permesso di portare avanti parallelamente la teoria e la pratica. A quel punto ho capito che restare all’estero poteva diventare una risorsa. In quegli anni a Barcellona potevi leggere molti autori contemporanei tradotti in catalano, che in Italia non arrivavano, e vedere tanto teatro tedesco e argentino. Mi sono poi iscritto a un dottorato in Teoria del Teatro, ho frequentato un corso di Hans-Thies Lehmann, teorico tedesco del teatro post-drammatico; da lì la decisione di andare a Berlino. Poi, tra il 2011 e il 2012, sono stato a Buenos Aires per capire come si lavora nel circuito off argentino. Il teatro tedesco e argentino sono forse agli antipodi; ma da entrambi ho imparato tanto. A Buenos Aires comunque si mangia meglio».
Una vita movimentata, quanto meno geograficamente, a far humus per la scrittura, per l’elaborazione di una lingua scenica che si è presto tramutata in testi, in opere compiute. Ma tra Italia, Catalogna, Germania e Argentina, che lingua usa Davide Carnevali per scrivere i suoi testi? «Il teatro è il luogo privilegiato del rapporto tra linguaggio verbale, immagine mentale e realtà materiale. Questa può darsi in differenti modi rispetto alla parola: può compiere le aspettative che essa genera, oppure può frustrarle. Ma non solo: la realtà, quando appare davanti allo spettatore, può sembrare distorta rispetto all’immagine mentale che la parola aveva generato. Questo scarto mette a nudo l’incapacità del linguaggio di “com-prendere” la realtà, e può manifestarsi in tutta la sua violenza davanti allo spettatore solo in teatro. Credo sia a questo che mira il mio linguaggio teatrale. Di solito – continua – non creo personaggi, ma funzioni drammaturgiche di supporto alla lingua e all’azione. Detto così sembra complicato, in realtà non lo è, ma può risultare molto problematico per attori abituati a costruirsi un percorso psicologico e a cercare a tutti i costi la coerenza della storia. A me piace vedere l’attore che gioca con il suo essere attore, che non prende sul serio né se stesso, né il personaggio».
Dal suo osservatorio di girovago, di autore che ha casa in strutture e città diverse, Carnevali rivendica l’importanza di lavorare fuori dall’Italia: «Per me è stato molto sano. Ho l’impressione che l’ambiente teatrale, se lo frequenti troppo, distorca la tua percezione della realtà; spesso manca di sincerità, di coscienza critica e soprattutto di autoironia. La Catalogna mi ha dato tanto a livello di formazione; in Germania, è iniziata la mia carriera di autore. Il primo incarico come docente universitario l’ho avuto in Argentina. Le prime pubblicazioni dei miei testi in Francia, con Actes Sud, mentre il mio libro di teoria è stato pubblicato in Messico. Nessun paese è il paradiso, però ci sono posti in cui il teatro conserva ancora un ruolo nel dibattito sociale e ha mantenuto un rapporto con il pubblico molto più saldo. Cercare di fare in modo che questo torni ad accadere anche in Italia è il presupposto su cui è nata la mia collaborazione con il regista Claudio Longhi e il teatro Nazionale dell’Emilia Romagna per il prossimo triennio».
Ma cosa cambia nello scrivere per il teatro italiano e per quello di altri paesi? Carnevali non ha dubbi: «Il senso dell’umorismo». E a questo proposito, tra il serio e l’ironico, ci parla di quelli che considera i suoi maestri: «Credo che il Barcelona di Guardiola tra il 2008 e il 2012 sia uno dei picchi più alti raggiunti dall’arte performativa in questo secolo. Seguo il Barça dall’anno della prima Liga di Rijkaard, ho visto debuttare Messi: vederlo giocare per tutti questi anni è stata una grande ispirazione, dico sul serio. Se lo vedi giocare ogni settimana ti accorgi che la sua Weltanschauung non è differente da quella di Cézanne, Kafka, Beckett, Sarah Kane o Tommy York». Ovvero? Possibile paragonare Leo Messi a Kafka o Cézanne? «Messi ha la genialità di un bambino, per cui tutto è potenzialmente sempre possibile; la realizzazione di questo potenziale ha molto a che vedere con la capacità di non autocensurarsi e liberare l’immaginazione – cosa che in fin dei conti vale anche nella scrittura. E la concezione di gioco di Guardiola è stata fondamentale per lo sviluppo della mia concezione drammaturgica, perché implicava allo stesso tempo l’accettazione e il rifiuto di uno schema portante, cioè la costruzione e al contempo la distruzione di una logica. Così ho lavorato per testi come Variazioni sul modello di Kraepelin, Sweet Home Europa o Menelao. Cercare di scrivere come Messi gioca: con quella libertà, quella necessità viscerale di rendere possibile l’impossibile, è stato un po’ il mio obiettivo».
E il cinema? «Mi piacerebbe scrivere per il cinema – conclude Carnevali – ma non me l’hanno mai chiesto. Certo, mi piacerebbe anche giocare nel Barça, ma neanche quello me l’hanno mai chiesto».