“Last Summer”: sulle onde dell’ultima estate

Donna, ragazza, bambino fanno colazione in barca a vela

L’esordio alla regia di Leonardo Guerra Seràgnoli ha dell’incredibile. Il regista, romano di 34 anni che vive e lavora a Londra, è riuscito a mettere insieme un cast artistico e tecnico internazionale fuori dall’ordinario.

L’attrice giapponese Rinko Kikuchi, accanto all’olandese Yorick Van Wageningen e al piccolo esordiente Ken Brady sono i protagonisti dell’opera. A completare la squadra una crew di professionisti come Milena Canonero, Monika Willi, Gian Filippo Corticelli, IgorT e la scrittrice giapponese Banana Yoshimoto.

Il film parla di una giovane donna orientale che perde la custodia del figlio con il facoltoso ex marito. Per quattro giorni avrà l’occasione di dire addio al piccolo di sei anni a bordo di uno yacht dove dovrà affrontare la sfida di creare un legame con il bambino prima di doversene separare.

Abbiamo incontrato Leonardo in occasione della presentazione ufficiale del film all’ultimo Festival Internazionale del Film di Roma, (dove ha vinto la menzione speciale Premio Camera d’Oro sezione Prospettive Italia), per farci raccontare la genesi e il processo creativo di un’opera sorprendente.

Com’è nata l’idea di Last Summer?

La storia che c’è dietro quest’opera è un mix di elementi. Da un lato c’è la mia esperienza personale, arricchita dal trasferimento all’estero: essere uno straniero presenta ostacoli e impedimenti, ma la barriera di un’altra lingua e i modi di vivere differenti sono stati anche una “musa” per la stesura della sceneggiatura. Dall’altro lato ha avuto molto peso un ricordo legato all’infanzia, una donna ospite a casa dei miei genitori, che raccontava in lacrime di come il marito le avesse portato via i figli. Questo insieme di ricordi ed esperienze, unite al fascino intrinseco nel rapporto madre-figlio, che corrisponde alla vera prima relazione umana che viviamo, mi ha portato a strutturare il plot del film.

Un esordio chiaramente “autoriale”. Una scelta coraggiosa…

Il coraggio va condiviso con i produttori che hanno creduto in me e nella possibilità di fare un film del genere. Li ho conosciuti anni fa presentando delle sceneggiature che non sono andate in porto, quando poi ho parlato loro di questo soggetto, una serie di fortuite coincidenze hanno portato a realizzarlo. Evidentemente il caso doveva fare il suo corso.

È del resto un tema che mi sta molto a cuore, e sul quale lavoro da molti anni: la realizzazione non è un “mettersi a tavolino” o una scelta a priori, ma il frutto della spontaneità di una storia e dell’interesse che essa ha suscitato nelle persone che hanno scelto di prendere parte al progetto. Il processo produttivo di Last Summer può essere paragonato a un viaggio, dove in ogni tappa si aggiungeva un nuovo compagno, fino a Vienna, città nella quale ho concluso la mia opera con la montatrice Monika Willi. Ho imparato molto più di quello che potessi immaginare, approfondendo la storia grazie a tutte le collaborazioni, veri e propri centri propulsivi di ispirazione e supporto.

Sei un italiano che ha studiato negli Stati Uniti, vive a Londra e ha realizzato il suo primo film con un’attrice giapponese a Otranto. Questa torre di Babele dal respiro orientale, l’avevi preventivata, o anche questa è frutto del caso?

Da sempre la storia presentava dei forti richiami orientali. Sono cresciuto in contatto con il mondo giapponese, per via delle passioni di mio padre, come il tiro con l’arco e l’apertura di un dojo a Roma. Ho partecipato a diversi seminari con lui, siamo stati in Giappone, e posso dire di essere stato contaminato da questa cultura e di aver sviluppato nel tempo anche una grande passione per la loro letteratura. Artisti come Tanizaki, (dal quale ho preso il nome della protagonista, Naomi), e Mishima, hanno toccato la mia sensibilità avvicinandomi alla loro storia e al loro pensiero. Il mio intento era quello di inserire un elemento di contrasto nella storia, mi è sembrato naturale farlo con un qualcosa che conoscessi e che mi avesse sempre attratto come la cultura giapponese.

Come hai coinvolto Banana Yoshimoto e IgorT?

Dopo aver scritto la sceneggiatura, insieme ai produttori, abbiamo pensato che fosse necessaria una consulenza per avvalorare la trasposizione di una cultura straniera. Il produttore aveva un contatto con il direttore del centro culturale giapponese a Roma, che ci ha proposto Banana Yoshimoto. Non avrei mai pensato che accettasse, si è rivelato più semplice del previsto. È stata incredibile, si è soffermata molto sul personaggio di Naomi, sulle sfumature e sulle caratteristiche del personaggio. IgorT invece, è stato una presenza molto più attiva nella sceneggiatura, ho trovato con lui un punto di svolta, attraverso i suoi guizzi fuori dall’ordinario. L’idea di coinvolgerlo è stata della produttrice Elda Ferri che ha avuto l’intuizione di chiamarlo, visto la grande e vasta esperienza giapponese. La sua partecipazione ha innalzato il progetto a un altro livello, ho passato intere serate a discutere ogni singolo dettaglio del film, dai costumi della Canonero, alle scelte produttive.

La scelta di ambientare la storia in un’unica location, come la splendida barca a vela progettata da Odile Decq, è una metafora del viaggio che vivono i personaggi all’interno del film?

È stata una scelta funzionale al racconto, mi serviva una location asettica che creasse un microcosmo a se stante e che mi permettesse di raccontare diverse storie senza alcuna dispersione (il film è stato girato in soli 24 giorni). La barca come un contenitore multietnico dove anche la lingua fosse una scelta obbligata – l’inglese è di fatto la lingua ufficiale parlata nelle imbarcazioni. Un ambiente inaccessibile che diventa luogo di isolamento e coercizione permeato da sentimenti di disorientamento e sconfitta. Solo in questo ambiente sarebbe stato possibile descrivere una riconciliazione catartica tra presente e passato, imparare a parlare con la propria voce, a essere di nuovo madre e figlio per la prima e ultima volta.

Il film è ambientato nei mari di Otranto. Una scelta legata alle tue origini?

Vista la produzione italiana, per ovvi motivi la location doveva essere italiana. Dovendo tener conto poi di diverse variabili climatiche come il tempo, la temperatura dell’acqua, il vento e il periodo (ottobre), il clima mediterraneo è stato sicuramente un valore aggiunto. Per necessità di script era fondamentale trovare un territorio neutro, poco caratterizzato e non riconoscibile. La Puglia, anche se nominata nel film, non ricopre un ruolo predominante nella sceneggiatura, le sue peculiarità non emergono perché l’attenzione dello spettatore deve centrarsi sull’imbarcazione, vero non-luogo del film. Il mare come unico spazio in cui ognuno fosse libero di interpretare, di associare le proprie esperienze in un percorso che non cercasse spiegazioni razionali, ma che vivesse solo le emozioni del rapporto madre-figlio.

Quali sono le tue influenze artistiche?

Nel cinema sono stato influenzato da grandissimi maestri come Bergman, Kurosawa, Ozu, Koreeda, Carlos Reygadas e tra gli italiani Ferreri e Fellini. Mentre la lettura del libro Agostino ha alimentato la mia ispirazione grazie alla profonda descrizione del rapporto madre-figlio e delle conseguenze che esso porta.

Progetti?

Vorrei realizzare due progetti, uno sempre con Rinko Kikuchi ambientato a Londra, e un altro italiano che vorrei incentrare su un attore e il suo rapporto con il narcisismo, ma non posso scendere nei dettagli, anche perché fare un film è sempre un’impresa funambolica.