Molto apprezzato dal pubblico della Quinzaine, “Fiore” di Claudio Giovannesi è l’ultimo dei sei film italiani presentati alla 69a edizione del Festival di Cannes.
Fin da Fratelli d’Italia, il documentario del 2009 in cui si mostrava la quotidianità di due stranieri e un italiano di origini egiziane che frequentavano la stessa scuola, il cinema di Claudio Giovannesi è quasi sempre incentrato sulla narrazione di adolescenti ai margini. A quattro anni di distanza da Alì ha gli occhi azzurri, in Fiore il 38enne regista romano torna a utilizzare nel contesto del cinema di finzione attori non professionisti (ottime le prove dei protagonisti Daphne Scoccia e Josciua Algeri) e a ispirarsi a vicende reali, apprese da ricerche sul campo.
Questa volta l’intento è raccontare una storia d’amore sui generis. Il punto di vista infatti è quello di Daphne, giovane rapinatrice della periferia capitolina che tira avanti rubando cellulari dopo aver minacciato i malcapitati con un coltello. Finché non viene catturata e si ritrova in un carcere minorile, dove ragazzi e ragazze sono rinchiusi in ali separate con l’assoluto divieto di relazionarsi fra loro. È qui che Daphne incontra Josh, un neodiciottenne milanese cui sono rimasti da scontare ancora due mesi di detenzione. Tra messe domenicali, ore d’aria e segrete corrispondenze epistolari, i due iniziano a conoscersi e si innamorano, arrivando infine a sperare di avere un futuro insieme.
Dopo aver frequentato un carcere minorile di Roma ed essere entrato in contatto con diversi detenuti, Giovannesi si concentra sullo sviluppo dei rapporti che Daphne stabilisce sia con Josh che con il padre (Valerio Mastandrea), reduce da sette anni di prigionia. E lo fa con mirabile delicatezza e senza concedere nulla al sentimentalismo.
Un esempio paradigmatico è legato a un particolare momento del film: dopo aver appreso che può uscire qualora il genitore accetti l’affidamento in custodia, Daphne ascolta con il lettore mp3 Sally di Vasco Rossi. L’accostamento tra le parole della canzone e il primo piano della ragazza felice è assai efficace ed emoziona, eppure il regista decide di interrompere la musica dopo pochi secondi, staccando sulla scena successiva per mandare subito avanti la narrazione. All’insegna di un’essenzialità che è il carattere distintivo della poetica dell’autore.
Con questo ultimo lavoro Giovannesi, da sempre interessato a tratteggiare umanità e innocenza dei propri personaggi senza mai giudicarli, continua a portare avanti un’idea di cinema ben definita, legata a doppio filo alla rappresentazione del reale e all’ardua vita degli ultimi. Un cinema che tiene presente la tradizione del neorealismo, di una certa Nouvelle Vague e la poetica del primo Pasolini (non a caso esplicitamente citato già nel titolo di Alì ha gli occhi azzurri), ma che allo stesso tempo è in grado di proporre uno sguardo personale e sempre più maturo.