Amen, tre sorelle adolescenti in un dramma sensuale e bucolico

    Amen
    "Amen" il film di esordio di Andrea Baroni, è ora in sala.

    Romano vissuto anche fra Londra, Parigi, Madrid e la Romania, Andrea Baroni ha scommesso tutto sulla sua passione per il cinema. Tra i suoi primi corti annovera una commedia agrodolce, 9 su 10. Adesso è alla sua opera prima, Amen, che dopo il Premio Interfedi al Torino Film Festival 2023 è ora in sala con Fandango.

    Tre sorelle adolescenti, isolate in una campagna quasi senza tempo, devono sottostare alle imposizioni religiose e moraliste di padre e nonna nonostante la scoperta dell’altro sesso. Baroni ha esplorato il tema del limite attraverso un dramma bucolico e sensuale scritto, prodotto e girato in soli 45 giorni a zero budget. Un linguaggio estetico raffinato e materico che ha come protagoniste le tre sorelle – Grace Ambrose, Francesca Carrain e Valentina Filippeschi – e annovera nel suo cast anche Luigi Di Fiore e Silvia D’Amico.

    Nel tuo film esplori il concetto di limite. Qual è la tua visione di limite, tra il film e la realtà di oggi?
    È la domanda che mi ha portato a scrivere Amen. La mia attuale idea di limite appartiene al mio far parte di una società occidentale, europea e molto bianca. E questo lo vivo come un limite assoluto, in questo momento, perché so che esiste un altro mondo che forse, prima della globalizzazione, mi avrebbe raccontato cose molto diverse da quelle che vivo qui. Penso che il mio limite ora sia non ragionare su cosa ci sia oltre il limite, oltre il confine. Una cosa necessaria che invece ho esplorato girando Amen.

    Hai chiuso i tuoi personaggi in un recinto emotivo muovendoli fra spiritualità, peccato e senso di colpa.
    L’imposizione religiosa mi è servita come mezzo per creare il tipo di società che impone leggi. La giornata delle ragazze, le figlie di Armando, è scansionata dall’attività religiosa. Così in questa gabbia fatta di confessioni, preghiere mattutine, catechismo e lavoro nei campi ho potuto far crescere il senso di colpa fortemente presente nella dottrina cattolica. Credo sia una molla molto importante della nostra società, siamo mossi più spesso dal senso di colpa che da una volontà positiva. E ho voluto applicare questa dinamica ai miei personaggi.

    Amen ha avuto una genesi record di 45 giorni. Quali sono state le difficoltà che hai dovuto risolvere intorno a te? Come hai portato le attrici in questa storia?
    Intanto ho dimenticato tutti i miei desiderata, le inquadrature che avrei voluto fare, i problemi e i miei limiti aiutando troupe e attori ad ambientarsi in un contesto estremamente difficile. Il primo obiettivo era quello che gli attori creassero una sorta di famiglia. Abbiamo vissuto il set come una comune, ma non mi bastava, così ho voluto seguire le simpatie e antipatie che si creavano fuori dal set assecondandole. Quello che vedete è in parte frutto di questa genesi distorta.

    Quindi hai tenuto a distanza sul set gli attori che avevano personaggi in conflitto? Un po’ come si fa con i villain?
    In realtà no, non c’è stato bisogno di farlo. C’era già una sorta di distanza tra le tre ragazze che interpretano le sorelle e loro padre. Ho solo dovuto accendere la miccia tra gli attori e ha funzionato per ottenere la giusta tensione. Anche per tutta la troupe è stato molto difficile ambientarsi in una situazione produttivamente ostica. Da regista che affronta la sua opera prima e vuole girare sette inquadrature a scena, ho dovuto ridimensionarmi e capire come funzionava il mondo. Questo ha portato tutti a una grande elasticità per arrivare a finire Amen.

    AmenHai anche lavorato molto con la luce naturale, soprattutto in esterni.
    Fra le nostre reference fotografiche c’era un horror, Midsommar, perché intendevo raccontare qualcosa di orrorifico alla luce del sole. Non volevo notturni – non potevamo neanche permetterceli – ma scene negative e diurne. Altro esempio di gioco con il limite imposto. Con il direttore della fotografia abbiamo pensato di ottenere questo effetto in maniera direi molto artigianale, con una serie di specchi che riflettevano i raggi del sole creando effetti di luce che santificassero i personaggi. Per esempio, all’inizio il personaggio di Grace Ambrose, Sara, è nell’uliveto e, per un gioco di specchi che riflettevano la luce solare, ha dietro di sé una specie di aureola.

    Anche questo è dire delle cose senza usare parole ma immagini. E di parole ce ne sono poche, spesso anche citazioni molto precise delle Sacre Scritture.
    Nella prima parte del film le citazioni sono necessarie per creare il contesto che poi mi dà la possibilità di curvare. La parte di catechesi e preghiera nasconde e allo stesso tempo suggerisce che le mie tre ragazze stanno decidendo o meno di oltrepassare quel limite. Dicono una cosa, ma attraverso le immagini ne fanno altre. Sogno di fare film muti, quasi senza dialoghi, ma qui ho usato la parola per mentire. Ciò che secondo me, l’essere umano fa spesso.

    In questo paradigma, la menzogna potrebbe essere lo strumento per superare i limiti?

    La parola genera la bugia, quindi mente. Il problema della comunicazione e dell’incomunicabilità è alla base dei personaggi che penso e scrivo. Non a caso sono un fan sfegatato dei fratelli Coen, che raccontano spesso questi temi. Attraverso la parola si può modificare la realtà, riuscire a coprire ciò che realmente pensiamo. I miei personaggi fanno proprio questo, tranne una delle sorelle, molto dritta, pura.

    Amen potrebbe definirsi un coming of age, ma è soprattutto un film di sorellanza e resistenza. Come hai gestito nella tua scrittura questo aspetto?
    Ho seguito la linea dettata da ogni personaggio. Intercettare la pulsione del singolo mi ha aiutato. Ester, ad esempio, la secondogenita interpretata da Francesca Carrain, è una provocatrice nata che forse dovrebbe fuggire lontano. Ma non lo fa, perché come anche noi nelle nostre vite, abbiamo dei legami tossici da cui fatichiamo a liberarci. Vorremmo fuggire, dovremmo. Eppure non lo facciamo. C’è una specie di ricatto del sangue e della terra, perciò le tre sorelle non tradiscono realmente la loro origine. Quando successivamente ho visto Kynodontas di Yorgos Lanthimos, dove la situazione di chiusura è simile, ho capito quanto il microcosmo familiare potesse essere allegoria.

    Quali sono i tuoi film del cuore? Il tuo cinema di riferimento e quello al quale aspiri?

    Quello a cui aspiro lo sto ancora capendo. Da adolescente avevo un’adorazione per Nanni Moretti, ma non sarei mai in grado di lavorare come lui. Vado pazzo per Werner Herzog, Fitzcarraldo è uno dei film della mia infanzia. Ma ci sono anche Michael Haneke e Yasujirō Ozu. Poi sono diventato onnivoro, fino all’horror, che potrebbe contaminare pesantemente il mio prossimo lavoro; mi piacciono gli autori estremamente tragici. Però negli ultimi anni rivedo spesso anche LaLaLand, per il tema centrale dell’ambizione su cui Damien Chazelle aveva già lavorato in Whiplash. In ogni caso, quando scrivo e giro si cancella tutto per lavorare sulla sensazione che si genera in quel momento magico.